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I quattro pilastri dell'esistenza umana

Paul Ricoeur con Giancarlo Bosetti


Incontro Paul Ricoeur a Berna, dove riceve dalla Fondazione Balzan il premio per la filosofia. La natura di questo riconoscimento è di raggiungere, in tutti i campi, figure di valore indiscutibile ed al vertice della loro carriera scientifica. Ricoeur è dunque una testa coronata del pensiero del Novecento. La sua parabola filosofica comincia dall’incontro con Husserl, Heidegger, Jaspers, Marcel, Mounier, con la fenomenologia, l’esistenzialismo, il personalismo, ma Ricoeur trova una strada sua propria che lo porta, prima, a descrivere dell’uomo la sua natura di essere attivo, capace di progetto e di intervento sul mondo, poi a impadronirsi di una idea molto ricca della funzione del linguaggio e, infine, a lavorare a una etica concreta capace di guidarci con equilibrio tra gli astratti imperativi morali da una parte e il mare delle incertezze della vita pratica dall’altra.

Suoi grandi temi sono la fallibilita’ umana che ci espone al conflitto delle interpretazioni, la funzione del "récit", del racconto nella costruzione del nostro mondo simbolico, e la crisi radicale della coscienza, sottoposta al triplice attacco di Marx, di Nietzsche e di Freud. Queste tre gigantesche figure del pensiero moderno, che Ricoeur raggruppa sotto la formula di "scuola del sospetto", hanno liquidato l’idea cristallina e cartesiana dell’"io" pensante, denunciando la coscienza come "falsa" e aprendo il vaso di Pandora dei suoi contenuti nascosti: l’interesse economico, la volonta’ di potere, la pulsione sessuale.

 

Ed eccoci di fronte a questo anziano signore dai capelli bianchi, piccolo, 86 anni portati con gran disinvoltura, l’aria severa del professore pronto a correggerti, anzi desideroso di farlo, per mantenerti sul tracciato che lui ha in mente, se no si inquieta. E il tracciato è la sua storia di filosofo che sfida le ripetute condanne a morte della filosofia emesse nel corso di questo secolo (da Wittgenstein a Rorty) per affrontare le eterne domande "imbarazzanti" sulla vita, quelle domande che stanno al limite della possibilita’ della nostra riflessione, perche’ sappiamo gia’ che le risposte "assolute", quelle capaci di raggiungere la realta’ ultima delle cose, sono al di fuori della portata della nostra ragione. Ebbene, cinquant’anni fa, nella sua prima opera di "coraggio" teorico e di distacco dai suoi maestri, "Volontario e involontario", Ricoeur si avventurava nel cercare il senso dell’esistenza umana in quattro parole chiave: il progetto, l’abitudine, l’emozione, l’inconscio.

 

Occupiamoci un po’ di queste parole, professor Ricoeur, di cui è fatta la nostra vita: progetto, abitudine, emozione, inconscio. Intanto, le chiedo, adesso continua a pensarle come le quattro chiavi?

Farei un piccolo spostamento e ora introdurrei la parola "azione", vale a dire la capacita’ che l’uomo ha di produrre dei cambiamenti nel mondo. Noi non siamo soltanto un effetto in un sistema di cause, ma interveniamo, siamo capaci di iniziativa, di cominciare qualche cosa. Ritrovo insomma quei concetti ma con una sfumatura di differenza: che condividiamo la vita con tutti i viventi, gli animali e le piante. Siamo un vivente in quel senso la’, nel nostro corpo, viviamo il nostro corpo, siamo un corpo vivente. I greci definivano l’uomo un vivente con la ragione, oppure un vivente politico; è tutto vero, ma questi aspetti del nostro essere possono essere tutti inglobati nel fatto che noi possiamo "dire" la nostra azione, "dire" il nostro progetto, "dire" il nostro piano d’azione, cosi’ come possiamo "dire" le nostre emozioni. Se il progetto è il modo in cui la nostra volonta’ interviene nelle cose, il linguaggio è il mezzo attraverso il quale l’essere umano agisce nel mondo.

 

Quando lei parlava di progetto nel 1950 c’era nell’aria, ancora molto forte, la progettualita’, il costruttivismo sociale del marxismo. Da una parte grandi progetti collettivi (socialismo), dall’altra il progetto individuale (liberalismo).

A quell’epoca il mio impegno politico e la riflessione filosofica erano paralleli. Ma io non pensavo alle condizioni sociali del progetto, pensavo semplicemente all’uomo come tale. All’epoca ero anche molto impegnato politicamente nel marxismo e in forme diverse nel socialismo cristiano, ma non congiungevo le due cose. Io non facevo sociologia o economia, ma pura filosofia, mi collegavo alla riflessione di Husserl, di Heidegger, di Jaspers, pensavo al fatto che ogni uomo fa progetti, non alla politica. Non voglio fare un corto circuito tra le due sfere. Ci vorrebbe la mediazione di altri concetti, l’analisi psicologica, politica, bisognerebbe introdurre l’agire degli altri e l’idea di intersoggettivita’, ma non è facile. È un altro tema rispetto al progetto che avevo in mente.

 

Parliamo dell’abitudine. Come mai questa idea le sembrava cosi’ centrale?

Perche’ i progetti devono essere calati nelle cose, nel mondo e non posso ogni volta dover ricominciare da zero. Quando parlo, per esempio, non posso recitare da capo le regole della grammatica, quando faccio una somma non posso ricominciare dalle regole aritmetiche, mi devo appoggiare su un saper fare gia’ acquisito, faccio affidamento su cose gia’ inscritte nei costumi, nelle abitudini collettive, corporee, nelle abitudini a pensare. L’idea compare molto bene nella sociologia contemporanea, con Pierre Bourdieu, e compare sotto la forma di "habitus". Tutti non rimettono tutto in discussione ogni volta, possiamo innovare perche’ riposiamo su un saper fare radicato nel corpo, nel linguaggio, nei costumi.

 

E poi c’è l’emozione che è in un rapporto difficile con l’abitudine.

L’abitudine riposa sul sapere acquisito, nell’emozione invece siamo sottoposti allo choc della realta’ nuova, della sorpresa, siamo invasi dallo lo stupore, che improvvisamente entra dentro di noi. Guardi, per esempio, ho appena visitato una mostra di Paul Klee; è stata una apertura a qualcosa di nuovo, sorprendente, stupefacente. Si tratta di una esperienza che supera la dimensione sociale, politica o anche privata. Quelle parole, progetto, abitudine, emozione indicano concetti quadro che fanno vedere le regioni molteplici dell’esperienza umana.

 

Quarto pilastro è quello che controlliamo di meno, l’inconscio.

Al liceo ho avuto un professore che conosceva Freud, era un anticipatore. Ricordiamoci che Freud è morto nel 1939 e che pochi filosofi lo conoscevano allora. Qui entriamo un po’ nella "camera oscura" della vita umana. Noi abbiamo pulsioni che non sono trasparenti, sono delle spinte in direzione dell’amore (e dell’odio), nel senso sessuale. Ma anche qui facciamo un tuffo nella vita, ma possiamo farlo senza uscire dal linguaggio, perche’ la grande scoperta di Freud è che ci sono regole, pulsioni e tutto il resto, di cui possiamo parlare. Il nostro desiderio sessuale non è come quello degli animali, perche’ si indirizza all’altro essere della stessa specie, ma passa attraverso il linguaggio. L’inconscio comunque, tra quelle quattro parole, era quella che faceva piu’ scandalo, indicava la zona buia.

 

Ci sono pulsioni che cambiano la vita dei singoli e pulsioni che cambiano la vita delle societa’ e producono rivoluzioni. Azioni controllabili e azioni incontrollabili; è il contasto tra "volontario e involontario", come diceva lei?

Il diciannovesimo secolo ha portato la speranza nel cambiamento radicale delle cose; poi in questo secolo non dimentichiamo che tutti parlavano di rivoluzione, Hitler, Stalin, Pétain. Ora siamo diffidenti verso la rivoluzione perche’ abbiamo scoperto le riforme. È manifesto, anche nel caso della rivoluzione francese, che se la monarchia fosse stata riformata e avesse seguito il corso della monarchia inglese, non ci sarebbe stato bisogno di un bagno di sangue. Abbiamo imparato che queste rotture sono anche molto costose: la Rivoluzione francese ha prodotto il Terrore e, per uscire dal terrore, si è dovuti entrare nel bonapartismo. Insomma, oggi il concetto di rivoluzione ha esaurito il suo charme, si è esaurita l’idea di produrre l’"uomo nuovo", come volevano sia Stalin che Hitler. Abbiamo fatto apprendistato. Alla parola rivoluzione preferisco la parola innovazione, che indica qualcosa che non è lontano dal mio progetto filosofico incentrato sulla capacita’ dell’uomo di produrre del nuovo. Metto in opposizione tra loro innovazione e tradizione.

 

Nel suo lavoro lei si è molto occupato del modo in cui ci costruiamo dei racconti sulla nostra storia personale e collettiva.

Dal linguaggio sono passato al "récit", al racconto, vale a dire alle costruzioni narrative sull’azione stessa. Ogni "récit" racconta una storia che ha degli attori che producono tra loro delle situazioni nuove. Ci sono due passaggi: l’innovazione nel linguaggio che è l’innovazione semantica, e l’innovazione nell’azione, che è il racconto. Da qui le mie ricerche sulla storia, sulla fiction, su tutti i modi in cui cerchiamo di raccontare le cose in modo diverso dalla verita’. Anche la rivoluzione è una grande fiction, anche l’utopia è una grande fiction.

 

In questo secolo la metafisica e la filosofia sono state piu’ volte dichiarate morte, per impossibilita’ di procedere, perche’ certi limiti sono insuperabili. Come ha aggirato questa condanna della metafisica?

Non l’ho aggirata, semplicemente preferisco il secondo Wittgenstein al primo, quello che parla anche di religione e di grandi domande sulla vita, rispetto a quello che non ne voleva piu’ parlare. E perche’ no? Ma che cosa è poi la metafisica. Quando leggiamo Platone, Aristotele, Spinoza, Leibniz, ci rendiamo conto che riusciamo benissimo a capirli. E perche’ non dovrei leggerli? E perche’ dovrei smettere di farmi le domande che si fanno loro? È metafisica, questa? Benissimo. Tuttavia nel mio vocabolario non c’è mai la parola "metafisica", io parlo di "filosofia".

 

E che posto ha la trascendenza nel suo pensiero, il limite oltre il quale non possiamo spingerci?

Ne sono cosciente. La nostra conoscenza è limitata da strutture, da quello che siamo, dalla nostra storia. Seguo del tutto Kant su questo punto: non possiamo entrare nell’assoluto della realta’, abbiamo delle approssimazioni scientifiche, poetiche, religiose, ma il fondo delle cose è li’. Se lei chiama metafisica la pretesa di conoscere il fondo delle cose anch’io sono un antimetafisico.

 

L’ultima fase del suo lavoro è dedicata all’etica "concreta". Che cosa vuol dire?

Il mio libro "Soi même, comme un autre", parte dall’idea di esplorare i differenti modi di usare la parola "potere": "io posso" parlare, "io posso" agire, "io posso" raccontare, ma "io posso" anche ritenermi responsabile delle mie azioni. Parlo della "imputazione" o responsabilita’, vale a dire che sono capace di rendere conto di quello che faccio. In tutte le lingue c’è la parola "conto", nel senso di contare su se sessi, rendere conto, mettere le nostre azioni sul nostro proprio conto: "accountability" in inglese, "Rechnung" e "Rechnungfähigkeit" in tedesco. Si tratta della imputazione morale. Non basta dire che abbiamo un progetto etico, di vivere bene, perche’ questo progetto è indeterminato e ci sono mille modi di vivere bene. Per questo bisogna passare attraverso le interazioni, le obbligazioni e le interdizioni. Preferisco parlare di interdizioni che di comandamenti, dire quello che non si deve fare, non le azioni da ordinare: non tradire la tua parola, non tradire, non uccidere, non commettere incesto, non disprezzare i deboli, non odiare i propri nemici. Il mio lavoro è oggi orientato in particolare alla innovazione pratica nelle situazioni concrete di incertezza, come nel caso dell’etica medica, dell’etica giudiziaria.

 

Oggi forse tra le quattro parole chiave della vita avrebbe aggiunto l’incertezza?

E infatti la uso molto, confrontando soprattutto nelle analisi storiche il rapporto tra la costrizione che vincola gli individui alle loro iniziative creative che li portano fuori da quei vincoli. La scuola delle "Annales" ha molto insistito sulle strutture della lunga durata, Braudel aveva sviluppato un senso molto vivo delle costrizioni e del determinismo. Ora gli storici italiani della "microstoria", che molto mi interessano, come Carlo Ginzburg e Giovanni Levi, hanno scoperto vicende di gente che, andando al di la’ dell’azione quotidiana, ha cercato di reinventare la propria vita. La microstoria insiste molto sulla capacita’ degli uomini di gestire situazioni di incertezza con lucidita’ e immaginazione, trovando l’azione appropriata per risolvere un problema.

 

 

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