Un antico maestro del teatro ha detto che
il teatro è l'arte di ottenere il minimo dei risultati con il massimo degli sforzi. Un
grande maestro nostrano, Eduardo De Filippo, a sua volta usava ripetere ai suoi attori che
non si deve mai sudare in scena, cosa che paradossalmente corrisponde ai principi di
alcune delle forme di teatro più faticose ed "energetiche" di tutti i tempi,
quella dell'antica tradizione giapponese: Il Nò e il Kabuki.
Forse nel teatro italiano l'unico che concilia efficacemente queste due concezioni
dell'agire sulla scena apparentemente opposte, dando vita così a quello che può sembrare
un paradosso, cioè il massimo degli sforzi con il minimo dei risultati ma senza
"sudare", è l'attore milanese Danio Manfredini. La sua rigorosa formazione
teatrale comincia negli anni '70 nei centri sociali e continua con seminari tenuti da
attori internazionali come l'argentino Cesar Brie e in particolare da quella che lui
definisce senza mezzi termini come "il suo maestro": l'attrice Iben Nagel
Rasmussen della famosa compagnia danese Odin Teatret.
Dopo la folgorazione per il teatro del grande artista polacco Tadeusz Kantor e la
frequentazione dei seminari di alcuni degli attori della storica compagnia diretta da
Jerzy Grotowski, negli anni '80 Manfredini incontra, seguendo i corsi di Dominique de
Fazio in Italia, quel "metodo" che sembra trovarsi agli antipodi di quanto aveva
studiato fino ad allora: l'Actors Studio. Per finire di confondere le acque e arrivare a
diventare una delle più rarefatte, composite ed interessanti personalità del teatro
italiano, Manfredini si avvicina alla danza, studiando per anni il flamenco e
inoltrandosi, tramite la frequentazione del maestro Tadashi Endo, in quella forma quasi
indefinibile di danza contemporanea del Giappone che viene conosciuta sotto il nome di
Butò, Danza delle Tenebre.

La sua intensa presenza e originalità viene premiata nel 1989 con il premio
"Ubu" come migliore attore italiano, grazie al suo spettacolo "Miracolo
della rosa", molto liberamente tratto dal romanzo di Jean Genet. Oltre al teatro e
alla danza, essendo anche artista figurativo, Manfredini insegna pittura per diversi anni
ai malati mentali in una comunità psichiatrica di Milano, esperienza questa che lascerà
tracce non indifferenti sul suo lavoro di autore/attore teatrale. Nel frattempo incontra
anche la danza contemporanea, in particolare la danzatrice e coreografa Raffaella
Giordano, già interprete per Carolyn Carlson e Pina Bausch, con la quale nasce un
profondo sodalizio artistico e di comuni proposte pedagogiche.
Ormai si contano a centinaia gli allievi che hanno seguito nel corso degli anni, spesso
per più di una volta, i suoi rigorosi, faticosi e sostanziosi seminari. E non si tratta
soltanto di attori drammatici o specializzati nella ricerca, ma anche di insospettabili
comici come il ben noto Antonio Albanese, che in più occasioni ha dichiarato di
considerare Danio Manfredini come uno dei maestri "a cui devo tutto". Dopo tre
anni di sperimentazioni, ricerche e rielaborazioni, proposte sotto forma di
"studio" al pubblico scelto e fortunato dei festival del teatro
"alternativo", presso i quali è diventato un attore di "culto",
l'anno scorso Manfredini ha presentato il suo ultimo spettacolo, "Al presente",
una sorta di compendio di tutte le sue esperienze e di luogo esplicito della sua poetica.
Questo spettacolo, dieci anni dopo, gli ha permesso ancora una volta di vincere l'ambito e
prestigioso premio "Ubu" come migliore attore italiano 1999, conferitogli da una
giuria di cinquanta critici teatrali lo scorso 29 novembre al Piccolo Teatro di Milano.
In realtà, con grande tempismo e lungimiranza, la nuova direzione artistica del Teatro
di Roma, nella sua politica di rinnovamento della programmazione teatrale un po' troppo
provinciale della capitale, lo aveva già "consacrato" dedicandogli
quest'autunno quasi un intero mese nei nuovi e affascinanti spazi "alternativi"
del Teatro India, ricavati in tempi record dall'ex stabilimento Mira Lanza, dove
Manfredini ha riproposto il vecchio spettacolo dell'88, "Miracolo della rosa",
il nuovo "Al presente" e un ambitissimo seminario intensivo di venti giorni.
Nel mondo del teatro italiano sei considerato come "diverso", unico. Una
delle caratteristiche più importanti di questa tua diversità consiste nel fatto che
pratichi quotidianamente un rigoroso allenamento fisico e tecnico, che, al contrario di
chi segue più o meno questa strada, non riporti sulla scena. Qual'è per te il rapporto
tra l'allenamento dell'attore e lo spettacolo?
Il rapporto non è diretto. Il lavoro fisico, il training fisico o vocale o comunque di
vario tipo, ha una funzione di risveglio delle potenzialità o delle risorse interiori
dell'essere umano. Vale a dire che una qualità tecnica ti aiuta ad attingere a certe
risorse, a prendere contatto con loro e a farle proprie il più possibile, poi se una
certa risorsa viene messa in moto anche durante il processo di creazione è un evento
determinato dalla direzione della chiave poetica che stai mettendo in atto. Diciamo,
quindi, che la creazione è più legata a una necessità di individuazione della poesia.
Per me la cosa che ha priorità nella forma della creazione è la poesia: ci sono poesie
che richiedono la messa in gioco di una certa qualità fisica o di un'altra
indipendentemente dalla formazione dell'attore. L'attore pratica il training come una
forma d'indagine e di conoscenza di sè, delle sue possibilità, delle sue capacità e
delle sue attitudini psichiche, fisiche e mentali: è una forma di conoscenza. Il che non
è direttamente connesso con la creazione, perchè a volte uno può avere un corpo e una
psiche ben allenati, una sensorialità ben attivata e tuttavia non possedere la vena
poetica o artistica necessaria a esprimere quel che vorrebbe in quel momento e quindi
magari potrebbe trovarsi costretto a stare fermo per degli anni.
In Italia c'è da una parte il teatro di prosa degli stabili e dall'altra un
composito mondo teatrale considerato come "alternativo". Le varie etichette che
un tempo differenziavano i diversi filoni che lo compongono oggi si sono quasi tutte
riunite, anche per ragioni burocratiche di rapporto con le istituzioni, sotto l'unica
etichetta di "teatro di ricerca". Ti riconosci in questa definizione? Quali sono
le realtà teatrali con cui senti di avere delle affinità?
Forse potrei avere un desiderio: più che al teatro di ricerca mi piacerebbe
appartenere al teatro d'avanguardia, essere una delle avanguardie e non tanto una delle
ricerche... Per avanguardia intendo la possibilità di buttare l'amo in zone che per me
sono comunque un po' a rischio e un po' a baratro, la possibilità di gettarsi a capofitto
dentro zone di comunicazione che diventano rischiose sia per l'attore che agisce sia per
il pubblico che assiste. In questo senso posso avere ammirazione per la compagnia
Raffaello Sanzio come per il Teatro della Valdoca, e pe tutte le realtà poetiche che
partono da un'originalità di pensiero, di linguaggio e di poesia, rischiando anche di non
ricevere il consenso del pubblico, quelle per le quali la domanda è sempre in relazione a
una specie di tormento interno che ti muove e che si manifesta attraverso forme di
comunicazione che possono anche rischiare di essere palesi, banali o scontate, e che
tuttavia costituiscono una specie di alfabeto elementare per esprimere in quel momento
ciò che si vuole dire.

A proposito di poetiche, ti ho sentito dire più volte che alla base del tuo teatro
c'è sempre la "necessità"; che è la necessità di fare teatro e di esprimere
un tuo mondo interiore che ti spinge e ti stimola...
Si, ma mi piacerebbe in realtà distaccarmi maggiormente da tutta questa necessità e
poter fare teatro semplicemente come un gioco nel quale potersi divertire, con una serie
di possibili espedienti, artifizi e giochi interessanti. Mi piacerebbe molto avere questa
qualità, però purtroppo mi rendo conto che alla fine se non provo una specie di tormento
o qualcosa che mi fracassa dentro non ho abbastanza energia per mettermi con costanza alla
creazione di qualcosa, per cui comunque connetto la mia azione teatrale con una necessità
di esternare un qualche tormento che mi assilla. Sinceramente però penso che sarebbe
meglio divertirsi di più...
A proposito del tormento e della sofferenza. Molti tuoi riferimenti, come quelli
concreti dei malati mentali, o quelli artistici come Genet o Bacon, hanno a che fare con
una sofferenza del vivere o del rapporto con la realtà o con sè stessi...
Ho lavorato con persone molto sofferenti come gli ospiti delle comunità psichiatriche
con i quali ho avuto modo di specchiare una parte del mio disagio esistenziale, così come
ho avuto modo di specchiarmi in autori come Genet o pittori come Francis Bacon... Con i
malati psichici condividi una condizione esistenziale simile e difficile, segnata da un
criterio di sofferenza per un qualche tipo di disadattamento al contesto sociale. Ti
specchi, ti rispecchi, controcambi a un livello di bassa lega quotidiana, pesante,
difficile da sbarcare. Quando parliamo invece di Genet o Bacon o Pasolini, parliamo di
persone che hanno saputo trasformare una condizione difficile di esistenza in una specie
di missione, una specie di possibilità umana di vivere una esperienza di libertà, che va
a scontrarsi con la morale comune in un contesto che richiede lo smascheramento
dell'ipocrisia di un sistema borghese assolutamente codificato da criteri ipocriti di
comportamento. In questo senso, hai davanti delle luci che ti permettono di avere il
coraggio di vivere un po' più liberamente la tua visione del mondo.

Nel corso degli anni hai avuto centinaia di allievi. Da questo osservatorio
privilegiato su varie generazioni di attori italiani, quali sono le più evidenti e
ricorrenti mancanze o lacune che hai riscontrato?
Posso dire che sento soprattutto la non consapevolezza dell'azione. Il lavoro
dell'attore significa agire, l'attore è colui che crea le azioni. Invece a volte sento un
sottostare a un sentito dire, a un modo di parlare o recitare un po' deja vu, che si rifà
a suoni già sentiti, che richiamano Carmelo Bene, o Gassman, o qualche attore
d'avanguardia, dei quali però è stata colta soltanto la crosta e non la sostanza. Forse
c'è troppa preoccupazione per lo stile, troppo identificarsi con una forma piuttosto che
con un'altra. La preoccupazione della forma fa sì che si perda il senso della sostanza e
per me la sostanza è l'azione, che può essere compiuta da uno con una gran bella voce
come da un sordomuto, un pazzo, un barbone o mia madre, basta che sappia che cosa sta
agendo. Quando qualcuno sta per affondare dentro un abisso s'aggrappa ai muri e cerca di
uscirne fuori, di sopravvivere, strappandosi le vesti di dosso, inciampando, facendo anche
una figura ridicola ma cercando di salvarsi: quella è l'azione che sta compiendo
quell'essere umano, e non credo che perderebbe tempo a sistemarsi la veste in modo
ordinato piuttosto che a impostarsi la voce; la necessità dell'azione va intesa in questo
senso, nella vita come nel teatro.
Hai riproposto, dopo dieci anni, insieme al tuo ultimo lavoro, anche Miracolo della
rosa, che all'epoca ti fece vincere lo stesso premio. C'è un rapporto tra i due
spettacoli?
Se si può inventare un nesso è quello della situazione chiusa, dell'isolamento, il
carcere per Miracolo della rosa da una parte e il manicomio in Al presente dall'altra.
Sono sicuramente due lavori che mostrano questa condizione da un certo punto di vista, di
autismo dell'essere umano, di difficoltà comunicativa, di chiusura dentro di sè,
rappresentata poi nella chiusura del carcere o nella chiusura dell'istituzione
psichiatrica. Entrambi gli spettacoli mostrano una grande difficoltà di apertura e di
comunicazione dell'essere umano verso l'altro essere umano, e comunque anche la messa in
atto e la consapevolezza della ferita che ti ritorna dalla comunicazione, che richiede
apertura, vulnerabilità e rischio.
Hai appena vinto per la seconda volta il premio Ubu come migliore attore, cosa
significa per te, cosa comporterà per i tuoi progetti futuri?
Per me il premio significa solo il riconoscimento del lavoro svolto, non rappresenta
altro che questo, non è un riconoscimento in assoluto e quindi non mi va di fare promesse
nè di parlare di progetti futuri soltanto perchè ho preso questo premio. Anzi, per il
momento non ho progetti e non so niente su quello che sarà il mio futuro: potrei decidere
di imbarcarmi domani senza sapere dove vado, o di non fare più teatro. Sono semplicemente
al presente.
Date degli spettacoli di Danio Manfredini nei prossimi mesi:
"Miracolo della rosa"
11 dic: Gardone (Val Trompia)
"Tre studi per una crocefissione"
12 feb: Marghera
18 feb: Macerata
"Al presente"
22 gen: Longiano
17 mar: Parma
18 mar: Parma