Professor Cacciari, la nozione di "libertà"
costituisce uno dei grandi temi ispiratori dell'intera filosofia. Come si definisce il
concetto di libertà? E che cosa si intende quando si parla di "libero
arbitrio"?
Premetto che è mia intenzione trattare il tema in questione non in
termini di sedentaria erudizione, bensì invitando ognuno di noi a pensare in proprio.
Vorrei cioè fare in modo che ciascuno compia autonomamente il lavoro della filosofia, che
è, essenzialmente, quello di arrestarsi a pensare. Quella sul libero arbitrio, è una
domanda fondamentale. C'è chi ha sostenuto che la domanda fondamentale della filosofia
sarebbe un'altra, e cioè: "Perché qualcosa invece che nulla?". Io invece
ritengo che chiedendosi: "Perché qualcosa invece che nulla?", l'uomo, in
realtà, intenda interrogarsi intorno a se stesso e alla propria libertà. Tutte le altre
domande fondamentali sono in qualche modo derivate da questioni come queste: "Chi
siamo?", "Siamo liberi?", "A quali condizioni, su quali basi, per
quali ragioni possiamo dirci liberi?", "Che cosa può dirsi libero?".
Partiamo dalla definizione di un grandissimo filosofo che si interroga
con estrema radicalità su questo tema, Spinoza; egli, nella settima definizione del I
libro dell'Ethica, afferma: "Diciamo libera quella cosa che esiste per sola
necessità della sua natura, e si determina ad agire da sé sola". Questa è la
definizione più rigorosa che si possa dare del termine "libertà". Ma, allora,
sulla base di essa, nessuno di noi può dirsi veramente libero, poiché la nostra mente è
sempre determinata ad agire da una causa, la quale a sua volta è condizionata da un'altra
causa, e così via all'infinito. Si tratta di una definizione assolutamente convincente
che non ci consente, però, di attribuire a noi stessi la libertà. Ci si chiederà allora
se, sulla base dell'affermazione spinoziana, vi possa mai essere qualcosa in questo mondo
che possa dirsi libero.
Si tratta di questioni che hanno sempre inquietato la riflessione, non
soltanto dei filosofi, ma di ognuno di noi. Probabilmente, ci rivolgiamo questa domanda
così inquietante e radicale, perché non siamo contenti del nostro agire. Se fossimo
soddisfatti della nostra azione, forse non ci chiederemmo se siamo liberi. Per quanto
possiamo saperne, l'animale non si pone la domanda sulla propria libertà perché esso è
contento della propria condotta, è assolutamente determinato e dominato dalle cause che
lo spingono ad agire. Noi, invece, ci interroghiamo sulla libertà perché, nel nostro
essere causati, non siamo mai contenti. L'inquietudine che ci spinge a tale interrogazione
deriva dall'insoddisfazione che proviamo per il fatto che il nostro érgon, il nostro
lavoro, non raggiunge mai ciò che i greci chiamavano l'enérgheia, l'atto. L'érgon umano
non è mai perfettamente in pace con sé, non è mai vero atto, è sempre qualcosa che
manca, che soffre di una assenza, di una miseria, di una povertà. Esso non sa mai
"perficersi", ovvero non dà mai vita a qualcosa di perfetto. Interrogandoci
sulla nostra libertà, quindi, ci chiediamo se non ci sia qualcosa di cattivo che ci
determina ad agire e ci impedisce di essere in pace.
Il nostro interrogarci sulla libertà scaturisce dall'inquietudine che
accompagna il nostro agire, da noi sempre percepito come manchevole, incompleto. In che
termini allora il tema della libertà si collega a quello del male, che, secondo la
visione neoplatonica, è appunto privazione, in quanto connesso all'originaria limitazione
delle cose umane rispetto alla perfezione di Dio?
Il tema della libertà, che si impone per le ragioni che ho indicato,
si congiunge direttamente a quello del male. Noi ci interroghiamo sulla nostra libertà
perché agiamo male. Il nostro agire male non è, ovviamente, soltanto la violenza,
l'uccisione, il furto. Piuttosto, facciamo male perché qualsiasi nostra opera non ci
soddisfa, perché non siamo mai enérgheia, bensì sempre érgon imperfetto. Ciò che ci
induce a porre la domanda intorno alla libertà è, quindi, un fare male nel senso più
generale e, al contempo, più radicale del termine: facciamo male - al di là di ogni
accezione psicologico-moralistica - in un senso ontologico.
La libertà e il male formano un unico tema. La trattazione di questo
tema che rimarrà dominante lungo tutta la grande tradizione filosofica e teologica è
quella platonica. Platone dice che il Dio non può essere ritenuto causa del male, perché
Egli è bene, è immutabile, è semplice, è veritiero, ed è, quindi, causa di tutti i
beni: theòs anaítios, Dio è innocente, come dice Platone nel mito di Er, narrato nel X
libro della Repubblica. Tutta la riflessione teologica successiva si fonda sul presupposto
platonico secondo cui, essendo Dio innocente rispetto ai mali del mondo, il fare male
dell'uomo deriva dalla sua scelta, dal suo libero arbitrio. Non è il divino a
determinarci ad agire male, bensì la nostra libertà. Dio è innocente: causa del male è
l'uomo. Secondo il grande mito di Er, l'uomo si sceglie il proprio daímon - il carattere
o demone - sulla base della propria storia personale, ricordando le vite che ha condotto.
Platone sottolinea che l'uomo, nel momento della scelta, è perfettamente libero, laddove,
dopo aver scelto, rimane vincolato al suo daímon da inesorabili catene. La scelta del
daímon, quindi, è perfettamente libera, non è determinata da nessun Dio. Dopo la scelta
però, l'uomo rimarrà incatenato ad esso in modo inesorabile.
L'uomo è libero soltanto nell'istante supremo della decisione. Si
tratta di un tema che torna, in varie forme, nella cultura contemporanea. Per scorgere la
libertà, si deve guardare all'istante della decisione. Nella decisione ci si determina,
si è liberi; poi si è determinati da quella scelta, non si è più liberi. Tuttavia, per
la cultura classica greca, la libertà dell'uomo non si esplica soltanto al momento della
scelta del daímon. Nel corso della sua vita, l'uomo può essere libero attraverso la
conoscenza. Egli è libero, cioè, di accumulare tutte le conoscenze necessarie affinché
maturi la consapevolezza del destino che sta scegliendo nel momento supremo della
decisione. È caratteristica della cultura greca una prospettiva intellettualistica, nella
quale la libertà dell'uomo appare esplicarsi essenzialmente nella sua volontà di
conoscere. La salvezza riposa sulla possibilità, da parte dell'uomo, di conoscere il suo
destino, ovvero ciò che lo destina.
Solo la conoscenza può salvarmi - secondo un'immagine che ricorre in
tutta la cultura ellenistica e latina - dal seguire il carro del destino in ceppi come uno
schiavo oppresso. Ciò che è in mio potere - in questa prospettiva - non è sfuggire al
destino, bensì conoscerlo, e, avendolo conosciuto, seguirlo volentieri e non in catene
come gli schiavi che vanno dietro al carro dei vincitori. La libertà consiste, quindi,
nell'intelligere Deum, ovvero nel comprendere ciò che è necessario. La libertà si
esplica là dove ci si armonizza a ciò che è necessario, al lógos, alla ragione che
pervade tutto il cosmo. Essendo conoscibile la necessità delle cose, si può essere
liberi formandosi una ragione del tutto.
Se la libertà consiste nel farsi una ragione del lógos che pervade
tutto il cosmo, il male non ha più una consistenza ontologica propria. Male e bene si
riducono così a due punti di vista soggettivi: il male è ciò che fa male a me, mentre
il bene è ciò che mi aiuta a vivere, che determina il mio benessere; nessuno dei due,
però, riguarda la ragione del tutto. Nell'orizzonte della totalità ha significato
soltanto il necessario, il lógos onnipervadente: male e bene, di per se stessi, non
significano niente. In questa prospettiva, le valutazioni circa il male e il bene si
mostrano prive di autentico sapere. Il sapere, infatti, concerne il necessario, non
incontra né il male né il bene. Il male diventa, invece, la mancanza di sapere, il
seguire il carro del destino come uno schiavo e non come un suo alleato e compagno
consapevole.
Il male viene in tal modo a coincidere con un vuoto, una mancanza, un
niente. Esso è un mero e fuggevolissimo punto di vista di uno schiavo ignorante, di
quella che, per gli antichi, era res nullius, una "cosa di nessuno", che non ha
rilievo né importanza. L'ultimo tono della cultura classica fa sparire il male
riducendolo al punto di vista dell'ignorante, di colui che non vede la totalità del cosmo
e la sua unica ragione. Il male è proprio di colui che rimane appiccicato - proprio come
una mosca alla carta moschicida - alla sua personale e limitata prospettiva, la quale è
niente come niente è lo schiavo. La nostra tradizione filosofica e teologica, avendo
accolto e reso dominante in se stessa questo tratto della cultura classica, rimuove il
problema del male. Essa annichilisce il male riducendolo al semplice punto di vista
dell'ignoranza e dell'impotenza proprie dell'anima caduta.
Secondo la cultura greca la libertà dell'uomo coincide con la
comprensione e l'accettazione di ciò che è necessario, del destino. In tale prospettiva
il male viene ad assumere una consistenza puramente soggettiva: esso non è altro che
mancanza di sapere. Quali sono i problemi connessi a questa concezione della libertà e
alla conseguente rimozione del problema del male? E in che modo la riflessione greca sul
male si innesta nel tronco della tradizione giudaico-cristiana?
Tutte le grandi contraddizioni in cui si imbatte la cultura teologica -
sia essa cristiana, islamica o giudaica - derivano, consapevolmente o inconsapevolmente,
dalla presupposizione secondo cui il male è un niente, una mancanza, un vuoto. Cerchiamo
di capire quali sono queste contraddizioni delineando quella che, a mio avviso, è
l'ultima posizione della gnosi classica. Si pone il seguente problema: la caduta
dell'anima, a causa della quale essa viene resa ignorante, impotente, incapace di vedere
il necessario, non è a sua volta necessaria? È necessaria la caduta nell'universo delle
dissomiglianze e del molteplice? I grandi filosofi dell'antichità da Platone e
Aristotele, e soprattutto la tradizione neoplatonica di Plotino e Proclo, affermano che la
caduta dell'anima è necessaria. Nel Fedro Platone racconta che l'anima, non potendo
resistere al seguito del Dio, cioè nella contemplazione del necessario, è costretta a
reincarnarsi ed a ritornare nell'universo delle dissomiglianze. La visione del Dio è
talmente accecante e faticosa che l'anima, non potendola più sopportare, cade. Secondo il
Timeo platonico, l'anima è plasmata da un dio; e tuttavia, secondo il Fedro, essa cade
necessariamente. È necessario che l'anima cada perché essa non è Dio. Anche se può
giungere alla contemplazione di Dio, non può permanere eternamente in questo stato ma
deve dar vita a nuove vite. Ci si chiede, allora: Dio è innocente di questa caduta?
Oppure la colpa della sofferenza prodotta dalla caduta è da attribuirsi esclusivamente
all'anima? È evidente che se la caduta è necessaria non si potrà attribuirne la colpa
all'anima. Per l'anima, il cadere, il cessare di contemplare Dio è male. Però, essendo
questo male necessario, l'anima non può esserne colpevole. Allora, siamo costretti a
pensare che Dio sia reo di questa caduta, non possiamo, cioè, tenere ferma la concezione
da cui siamo partiti secondo cui theòs anaítios, Dio in quanto innocente, non è causa
del male.
Siamo giunti dinanzi alla aporia in cui si imbatte la concezione
filosofica tardoantica e, da quel momento in poi, l'intera tradizione filosofica e
teologica cristiano-europea. Le grandi domande che martellano, non soltanto il filosofo, o
la professione della filosofia, ma la grande letteratura europea (basti pensare al nostro
Leopardi o a Dostoevskij) sono queste: "Se l'anima cade necessariamente in questa
valle di lacrime, come può esserne colpevole?"; e poi: "Come non pensare che vi
sia un male in Dio, se l'anima non è colpevole della sua caduta?". Vediamo in che
modo la teologia cristiana risponde a queste domande assillanti. Anche se i testi in cui
le troviamo trattate danno l'impressione di procedere in modo canonico, scolastico,
sistematico, tali questioni, in realtà, sono state avvertite in modo drammatico dagli
autori che se ne sono resi interpreti. La risposta canonica nella cristianità è quella
agostiniana, secondo la quale Dio non è autore del male ma ne è origine. Dio, poiché ci
vuole liberi, ci ha resi peccatori. Per conseguire un bene maggiore - la libertà, appunto
- Egli ci messi in grado di fare il male. Dio non è l'auctor del nostro peccato, bensì
ne è l'origine perché ci ha resi liberi, concedendoci, in tal modo, un bene maggiore.
Per Agostino, quindi, essendo soltanto noi gli autori dei nostri peccati, bestemmia
chiunque li volesse attribuire a Dio.
Il grande dilemma in cui si imbatte la nostra tradizione filosofica è
rappresentato dalla giustificazione della provvidenza divina dinanzi al male fisico e
morale. La questione si complica ulteriormente quando, sotto il nome di predestinazione,
essa viene a investire il rapporto fra libertà umana e divina. Emerge qui il problema
teologico della salvezza e del rapporto tra libertà e predestinazione, tra opere umane e
grazia divina. Si può soffermare su questo tema?
La tesi agostiniana secondo cui Dio, volendoci liberi, ci ha resi
capaci di compiere il male, conduce dinanzi al problema della salvezza. Se l'uomo è
peccatore - sostiene Agostino - non può salvarsi da solo. La salvezza sta al di là della
conoscenza umana. In questo punto, Agostino e, con lui, l'intera cristianità si separano
nettamente dalla cultura classica. Per lui, la conoscenza non è un mezzo di salvazione
perché l'abisso del peccato è tale che l'uomo non potrà mai tirarsene fuori da solo.
Soltanto l'azione della grazia divina può salvarlo. Per Agostino, quindi, l'uomo è
capace di peccare ma non di salvarsi. Egli dice: "I peccati sono tuoi, i meriti sono
di Dio". Il merito della salvezza non può essere umano, bensì solo divino, perché
l'uomo non potrà mai, con le sue sole forze, trarre fuori se stesso dall'abisso del
peccato.
Si pone, a questo punto, il grandissimo problema se Dio voglia o non
voglia tutti salvi. Se si risponde positivamente a questa domanda, dicendo che Dio salva
tutti, si rende del tutto inefficace la libertà. Infatti, in tal caso, l'agire bene o
male dell'uomo non pregiudica in alcun modo il suo destino di salvezza voluto da Dio. Come
si vede, riemerge prepotentemente il problema della libertà. Potremmo dire che, in questa
prospettiva, l'unica libertà è la libertà di peccare. Ma si tratta di una libertà che
conta ben poco, dal momento che il male dell'uomo, per quanto immenso possa essere, non
scalfisce minimamente la necessità della salvazione divina. Qualora, invece, alla domanda
se Dio voglia tutti salvi, si risponda negativamente, come fa Agostino e poi anche
Tommaso, sorge un'altra questione: perché Dio salverebbe alcuni ed altri no? Risponde
Agostino e ripete Tommaso: "Per grazia imperscrutabile. Nessun uomo si salverà se
non colui che Egli vuole che si salvi". Si tratta del grande tema della
predestinazione che accende il dibattito tra Lutero ed Erasmo e conclude l'Umanesimo e il
Rinascimento europeo. Il De libero arbitrio di Erasmo si oppone al De servo arbitrio di
Lutero. Per Lutero, se leghiamo Dio alla necessità di salvarci tutti, ne facciamo un
idolo ozioso e ne eliminiamo la forza predestinante. Ciò significa che l'uomo fa il bene
solo perché Dio lo ha eletto, ovvero ha costruito la sua anima in modo tale che sia
capace di ciò. La medesima forza predestinante è efficace nel caso del peccatore, il
quale pecca perché la sua natura lo costringe a comportarsi così. In tal modo, Lutero
viene a negare la tesi platonica dell'innocenza di Dio e, quindi, anche ogni possibile
teodicea.
La teodicea risulta impossibile perché Dio predestina in base a un
imperscrutabile disegno. Alcune nature, anche se peccano, sono predestinate ad essere
salvate. Se non ragionassimo così - sostiene Lutero - faremmo di Dio un idolo ozioso, che
ci ha fatti tutti per essere salvi a prescindere da ciò che facciamo, da tutto ciò che
la nostra natura è, esprime, significa, opera. Ma, allora, se Dio è un Dio
predestinante, non potrà più essere considerato innocente. Ogni discorso volto a
giustificare Dio per il male del mondo è condannato all'insensatezza. L'insensatezza
della teodicea consegue direttamente dall'abbandono della tesi platonica, accolta anche da
Agostino, secondo cui Dio è innocente.
La concezione di Erasmo, che vede la condizione umana come una
lotta fra bene e male, si contrappone nettamente alla radicale negazione luterana della
libertà dell'uomo. Professor Cacciari, qual è la sua valutazione della disputa tra
Erasmo e Lutero? Quale delle due posizioni è più vicina alla nostra cultura?
Il discorso luterano, pur sembrandoci così lontano, determina la
nostra cultura in modo più profondo di quello erasmiano, anche se questo, difendendo il
libero arbitrio, potrebbe apparirci più vicino. In realtà, assumendo una posizione che
rientra nell'ambito della teodicea, Erasmo appartiene al mondo passato dell'Umanesimo e
del Rinascimento. Lutero, invece, taglia il nodo gordiano. Egli tronca di netto,
dichiarandola insensata e meramente scolastica, ogni questione relativa all'innocenza o
alla colpevolezza di Dio. Nonostante il suo arbitrio sia servo, l'uomo deve agire nel
mondo come se fosse perfettamente libero. Dal fatto che non sono assolutamente libero, che
il mio arbitrio è completamente servo, che sono interamente predestinato, non consegue
affatto - sostiene Lutero - che devo stare immobile. Al contrario, la conseguenza del
discorso luterano sulla predestinazione è che l'ignoranza dell'uomo circa il proprio
destino non deve influire sulle sue opere. L'operare intramondano deve avvenire a
prescindere da qualsiasi teodicea, da qualsiasi discorso insensato inteso a giustificare
Dio. L'uomo, gettato nel mondo, deve agire come se la sua salvezza dipendesse da lui.
Proprio perché sa che la propria salvezza non dipende da se stessa, e che non può
minimamente influire né comprendere il disegno divino che la predestina, l'anima
dell'uomo è indotta ad agire come se tutto fosse nelle sue mani.
Alcuni grandi umanisti - il Valla e, indirettamente, l'Alberti -
avevano già avvertito il carattere meramente consolatorio, irenico, di tesi vicine a
quelle che poi saranno di Erasmo, e si chiedevano come fosse possibile concepire la
propria libertà. Nei confronti della libertà ci si sente nella stessa condizione in cui
si trovava Agostino dinanzi alla questione del tempo. Diceva Agostino: "Quando
nessuno mi chiede che cosa è il tempo mi pare di saperlo; appena qualcuno mi chiede:
"ma che cosa è il tempo?", non riesco a definirlo, non riesco più a capirlo,
non riesco più a dare una risposta". La libertà suscita la medesima inquietudine
del tempo perché non riusciamo a comprenderla al modo in cui comprendiamo, dimostriamo e
calcoliamo i fenomeni. È impossibile, insomma, provare che siamo liberi: questa è la
vera origine del discorso luterano.
Proviamo a compiere un esperimento di pensiero per dimostrare questa
impossibilità. Io, in questo istante, potrei chiedermi: come posso provare che quanto sto
dicendo dipende da una mia scelta? Come faccio a provare che è per mia libertà che ho
detto le parole che ho appena pronunciate? L'unico modo per sperimentare tale libertà
consiste nel tornare indietro all'istante che precede immediatamente il momento in cui sto
parlando. Per fare ciò, però, occorrerà che tutte le condizioni generali - nessuna
esclusa - di un istante fa si ripetano insieme a ciò che ho detto. Per dimostrare di
esser libero dovrebbe ripetersi, quindi, non solo ciò che ho detto nell'istante
precedente, ma tutto ciò che in quell'istante è accaduto. Si tratta, a ben vedere, di un
esperimento radicalmente impossibile: esso è concepibile ma non può realizzarsi. Dovrò
dunque necessariamente dubitare che quanto ho appena detto sia il frutto di una
costrizione, che una catena concomitante di cause abbia fatto sì che in quell'istante
dicessi le cose che ho detto.