Caffe' Europa
Attualita'



Intervista a Tomonubu Imamichi

Vittorio Hösle


Questa intervista è tratta dall’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.

L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.

Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it

Professor Imamichi, l'India e la Cina rappresentano le culture che hanno dato vita alle prime riflessioni filosofiche; anche il Giappone ha sviluppato molto presto una propria cultura filosofica. Cosa distingue le forme fondamentali del pensiero giapponese dalla filosofia europea?

Come lei ha appena affermato, in Cina era già presente una tradizione filosofica; noi Giapponesi abbiamo appreso la filosofia dalla Cina, anche se nel nostro Paese esisteva già il cosiddetto "pensiero giapponese". Questo spiega perché, parlando della differenza fra la filosofia asiatica e quella europea, si può fare riferimento alla differenza tra il pensiero cinese e quello europeo. È una precisazione necessaria: le differenze tra il pensiero occidentale e quello asiatico sono tali che non si può trascurare nessun elemento per porle in rilievo. Nel parlare dell'uomo, ad esempio, si devono menzionare, con tutta probabilità, due concetti: quello di "persona" e quello di "responsabilità".

Nell'eredità filosofica europea il concetto di "persona" ha una lunga tradizione; insieme ad esso si è sviluppata in Europa una nozione forte di coscienza individuale. Al contrario nel pensiero cinese, non troviamo un concetto di "persona" così delineato. Naturalmente esiste una nozione come quella di "coscienza", ma il concetto di "persona", questo tipo peculiare di "coscienza", in Asia non si riscontra negli stessi termini della tradizione europea. D'altro canto, i filosofi cinesi hanno elaborato una nozione molto forte di coscienza morale, traducibile con il termine "responsabilità", da cui deriva un altro concetto, quello di "intersoggettività", che ha operato incisivamente sia in Cina che in Giappone.

Nella filosofia europea, invece, per lungo tempo, si è fatto a meno del concetto di "responsabilità". Nozioni del genere si sono formate solo nella seconda metà del '700, allorché, ad esempio in area anglosassone, alcuni autori cominciarono a parlare di responsibility. Non intendo dire con questo che in Europa non ci siano stati fatti e azioni responsabili; ma gli Europei non hanno fissato in parole il raffinato concetto filosofico di responsabilità. La filosofia europea si è, quindi, sviluppata andando dalla nozione di persona a quella di responsabilità; in Asia è accaduto l'inverso: si è partiti dall'intersoggettività, non in senso conoscitivo, ma dall'interindividualità, per arrivare al concetto di persona. Per questo in Europa e in Asia lo sviluppo dell'etica è esattamente inverso.

Lo stesso vale per l'estetica. In Europa il concetto classico di arte è sempre stato correlato alla mimesi, nel senso della rappresentazione mentre l'idea dell'espressione artistica è nuova: si potrebbe dire che sia un'idea del '900. La parola latina expressio esisteva già, ma apparteneva alla terminologia agricola: expressio indica l'atto dello spremere e dell'estrarre. Probabilmente a partire da Toulouse-Lautrec si può usare nell'arte moderna il termine expressio.

In Asia, invece, si sono prese le mosse dall'espressione: nell'arte pittorica dell'Asia orientale lo sfondo è sempre bianco, vuoto, mentre la pittura non è variopinta, si dipinge senza colore, in conseguenza del fatto che si deve "esprimere" lo spirito interiore, la forza interiore della natura. Dell'arte europea si deve quindi dire che va dalla mimesis all'expressio, mentre l'Asia passa dall'espressione, propria dell'epoca classica, al concetto moderno di rappresentazione. Tra l'Asia e l'Europa vi è quindi un movimento inverso: fenomeni del genere mostrano che si tratta di due tradizioni filosofiche classiche di pari rango che hanno sviluppato il loro pensiero con prospettive diverse e in direzioni opposte.

 

In quale misura lo sviluppo della filosofia occidentale e di quella dell'Asia orientale, in particolare giapponese, si è modificato attraverso la reciproca presa d'atto dell'esistenza delle due culture?

Non è semplice rispondere a questa domanda; si può dire che gli uomini cercano sempre un interlocutore: come l'individuo cerca l'amico, così la cultura, se la si indaga in profondità, "vuole" espandersi e desidera conoscere le altre culture; questo è possibile anche grazie allo sviluppo tecnologico.

Fra tutte le culture non europee, il Giappone è il paese che più velocemente ha assimilato i concetti della civiltà, della tecnica, della scienza e del diritto occidentali. Oggi il Giappone è la seconda potenza economica mondiale; una delle cause di tale ascesa è costituita dalla rapida assimilazione del processo di modernizzazione e di razionalizzazione sviluppatosi in Europa in connessione con i concetti di individualismo. Mi sembra opportuno esaminare, da un punto di vista filosofico, quello che si è modificato nella cultura e nella mentalità giapponese dopo l'incontro con l'Europa e con gli U.S.A..

Sarà necessario spiegare preliminarmente alcuni concetti tipici della filosofia giapponese. Comincerò con il concetto corrispondente a quello occidentale di "verità". In primo luogo vin giapponese "verità" si dice "makoto": "koto" vuol dire "cosa", "ma" indica "bellezza", "perfezione"; "ma-koto" significa quindi "la perfezione della cosa" o anche "la realtà perfetta". Ma cosa significa "realtà perfetta"? Il significato di "verità" racchiusa in makoto non corrisponde al termine greco aletheia, bensì a quello di "perfezione".

Per esempio: c'è un grande fiume e un bambino cade in acqua. Qual è quella che convenzionalmente si chiama verità? Possiamo enunciarla nei seguenti termini: il nome del fiume è Senna o Meno, la temperatura dell'acqua è di tre gradi, il bimbo ha circa cinque anni; nel giro di tre minuti probabilmente morirà. Questa è una descrizione corretta, è una descrizione dei fatti. In Giappone, invece, la nozione di verità espressa dal termine "makoto" non è una semplice descrizione della realtà: indica la perfezione della realtà. La caduta in acqua del bimbo esprime la realtà frantumata, la ferita della realtà; questa ferita deve guarire. Se sapessi nuotare e riuscissi a salvare il bimbo o chiedessi aiuto cosicché il bimbo venga salvato, la ferita della realtà guarirebbe. In questo modo la realtà frantumata diventerebbe perfetta. La "cosa perfetta" si realizza nel momento in cui si guarisce la ferita della realtà.

"Makoto" equivale, dunque, a verità, ma esprime due significati di verità: uno è quello di verità in senso stretto, l'altro è quello di "veridicità". Il doppio significato del concetto filosofico "makoto" contiene in sé anche l'agire pratico: si può sostenere che nella tradizione giapponese sia presente una forte consapevolezza della prassi reale; se c'è un difetto nella vita quotidiana va eliminato con la prassi.

Alla fine dell' '800, comparando la vita europea con quella giapponese, è emersa una grande differenza fra le due culture proprio per quanto riguarda la capacità pratica o l'agire pratico reale. È stato possibile apprendere velocemente la tecnica del mondo occidentale e perfezionarla proprio per la profonda coscienza pratica dei Giapponesi che, a mio parere, è un motivo inconscio che spiega l'apprendimento così veloce della tecnologia. A questo primo motivo, ne aggiungerei un secondo: pur autoisolandosi per trecento anni, dall'inizio del 1600 fino al 1800, il Giappone ha avuto un sistema scolastico di base di buon livello. In quel periodo erano pochi gli analfabeti: il sistema delle scuole dell'obbligo era molto buono; non c'erano molte scuole di formazione universitaria, ma il livello medio intellettuale del popolo era abbastanza alto. Questa è la grande differenza rispetto agli altri Paesi asiatici. In Cina, ad esempio, ha operato una grande tradizione e ci sono stati grandi filosofi, ma il livello medio del popolo non era così elevato, mentre in Giappone l'alfabetizzazione della popolazione era notevolmente progredita: Così, quando il Giappone ha conosciuto la tecnologia, prodotto della civiltà occidentale, è stato in grado di apprenderla abbastanza velocemente.

 

Quali sono i filosofi occidentali che, nel '900, hanno esercitato maggiore influsso sulla filosofia giapponese?

All'inizio abbiamo appreso la filosofia americana e, ancora di più, quella inglese: John Stuart Mill, ad esempio; abbiamo letto anche libri di filosofia politica ed economica di scuola anglosassone. A Tokyo, tuttavia, abbiamo avuto un professore tedesco veramente d'eccezione: Raphael Koehler. Grazie a lui abbiamo conosciuto molta filosofia tedesca: in particolar modo Kant e Schopenhauer, anche se il secondo non ha più in Giappone una grande risonanza. In passato venne molto letto per la somiglianza della sua filosofia con il Buddhismo, a cui fu esplicitamente debitore di molte idee, come è facile constatare leggendo Il mondo come volontà e rappresentazione.

In seguito abbiamo studiato William James, Henri Bergson e altri pensatori del genere. Comunque, anche la filosofia tedesca ha esercitato un influsso non marginale sul mondo accademico giapponese.

 

Karl Löwith, che ha vissuto anche in Giappone, affermò: "La coscienza giapponese è come una casa a due piani; il piano terra è costituito dalla cultura dell'Asia orientale, dalla cultura giapponese tradizionale, il secondo piano è invece rappresentato dalla civiltà europea e si è sovrapposto alla mentalità tradizionale". Quindi aggiunse: "La casa ha una particolarità, non ha scale", ossia non c'è alcuna mediazione fra le due culture.

Professor Imamichi, lei tenta di collegare il pensiero classico asiatico con la "ferita" inflitta dalla moderna civiltà tecnologica a tutto il nostro pianeta. Ci può dire come sia nata in Giappone la coscienza della necessità di una sintesi reale fra la cultura asiatica e quella europea?

Detto in breve: l'integrazione delle due culture o il vero superamento delle due culture è in effetti ideale. Come ognuno può constatare, nel mondo della tecnologia si vive sempre in modo frenetico, ripetendo continuamente movimenti specifici che provocano costanti frustrazioni; nella tradizione dell'Asia orientale, invece, si cerca sempre di vivere in armonia con la natura. Ancora oggi in Giappone abbiamo a che fare con due componenti in apparente contrasto: ci vestiamo all'europea, guidiamo l'automobile, usiamo i fax, usiamo cioè la tecnologia occidentale: ma quando torniamo a casa, indossiamo lo yukata giapponese, il cosiddetto kimono; ci sediamo sul tatami giapponese; guardiamo spesso i bonsai; ascoltiamo il verso degli uccelli o il frinire delle cicale.

Nella vita privata si vive alla giapponese, mentre nel mondo del lavoro si vive come gli occidentali. Si dimenticano le frustrazioni quotidiane dello stile di vita occidentale nel silenzio dello stile di vita giapponese. Non che sia un'integrazione perfetta, ma la situazione giapponese attesta qualcosa di significativo: due culture dovrebbero entrare in un rapporto di scambio, dialogare per arrivare ad una comprensione reciproca più profonda. Finora l'interesse dell'Europa per l'Asia e dell'Asia per l'Europa si è fermato a livello turistico. Si dovrebbe andare più in profondità.

 

Qual è l'idea fondamentale su cui si basa la sua posizione filosofica, denominata "ecoetica"?

Ritengo che, attualmente, la dimensione di vita dell'uomo non si limiti ai confini dei singoli Stati, ma li supera attuandosi in un orizzonte cosmico.

L'ecoetica non è riducibile a una "etica ambientale", né soltanto alla bioetica, né a un'etica degli affari: è una riflessione filosofica radicale sulla moralità umana.

Quando arrivai per la prima volta in Europa nel 1955, conoscevo la cultura europea grazie ai libri; ma, quando ho realmente conosciuto l'Europa, ho subìto uno shock culturale che mi ha indotto a compiere studi di filosofia comparata, approfondendo la mia conoscenza della tradizione greco-latina e compararla a quella classica orientale. Ho condotto questi studi chiedendomi come fosse stato pensato un concetto in Occidente, come in Oriente. Procedendo in questo modo ho concluso che oggi non si dovrebbe avere soltanto la filosofia asiatica o soltanto quella europea: si dovrebbe costruire la "filosofia dell'umanità"; per realizzarla diviene necessaria l'ecoetica.

Si tratta di un'etica nuova, in cui l'umanità potrebbe trovare un vero punto d'unione grazie alla tecnologia. Per esempio, l'amore per il prossimo è stato un fondamento dell'etica sia in Europa che in Asia: prima dell'era tecnologica il prossimo era un'esistenza visibile, costituito da un numero determinato di persone. Oggi, invece, il concetto di prossimo è cambiato, in quanto rappresenta un'esistenza invisibile e sconosciuta. Un numero telefonico sbagliato, ossia un difetto di precisione, è già un'azione sbagliata, cattiva, verso il "prossimo" tecnologico.

La nozione di "prossimo", nell'epoca tecnologica, è diventato invisibile ed indeterminato; inoltre è necessaria una nuova virtù: la precisione. Si può ancora dire che viviamo nell'epoca delle dita: si dovrebbe lavorare con l'intero corpo, ma si può fare tutto con le dita; le azioni di forza si facevano usando il corpo. Oggi, invece, il potere non implica la forza fisica: abbiamo un potere tecnologico che va di pari passo con la passività del corpo. All'interno della prassi politica, dei rapporti di potere, è interessante anche la trasformazione o il capovolgimento che ha subìto il sillogismo pratico: si tratta di una vera rivoluzione.

Nell'Etica Nicomachea di Aristotele o nelle dottrine morali di Confucio, il sillogismo etico ha sempre avuto: la premessa maggiore, in cui si pone lo scopo; la premessa minore, in cui si indicano i mezzi per realizzarlo. Nel sillogismo pratico classico lo scopo è contenuto nella premessa maggiore come qualcosa di ovvio e la premessa minore esprime la dimensione della scelta dei mezzi.

Questa struttura vale ancora oggi nella vita privata, ma viene così formulato: "Disponiamo di un forte potere"; è il presupposto ovvio dell'azione e costituisce la premessa maggiore. La premessa minore esprime sempre la dimensione della scelta, ma è la scelta dello scopo, non dei mezzi.

Nella struttura classica si dà grande valore all'io, mentre nella nuova struttura l'accento cade sul "noi": non sono "io" a possedere l'energia atomica, ma "noi"; non sono "io" a possedere un capitale, ma "noi". Si può costruire un'etica non per "me stesso", ma per la collettività: anche questo è compito dell'ecoetica.

Inoltre nella forma classica del sillogismo etico si possono porre due tipi di scopi: scopi secolarizzati e religioso-trascendenti. Nel nuovo sillogismo si fanno solo scelte secolarizzate e relative all'ordine fisico: si assiste ad una progressiva secolarizzazione dell'azione umana

Come si può conservare la coscienza morale e trovare la strada della religiosità e dell'azione sublime? Questi sono i problemi dell'ecoetica.

 

Lei afferma che viviamo in un'epoca nella quale dobbiamo trovare una sintesi fra le culture avvalendoci delle possibilità offerte dalla tecnica; talvolta si ha l'impressione di essere accomunati solo dalle possibilità offerte dalla tecnica e non da una morale o da valori comuni. Da ciò deriva che nel dialogare con le altre culture abbiamo il compito di cercare valori comuni. Ma oltre al dialogo, lei ha idee più concrete di come l'umanità possa ripristinare il sillogismo classico nell'ambito dell'ecoetica?

Questo deve essere oggetto di discussione: sarebbe un compito dell'ecoetica affrontare problemi del genere. Cosa si può fare? Questa è oggi la domanda comune, il compito comune. Un compito fondamentale è trovare nuove virtù. Per esempio, lo Stato ha costituito sempre un valore morale fondamentale dell'etica: quando scoppia una guerra, il divieto di uccidere viene del tutto dimenticato. Ma l'ecoetica non è un'etica così limitata: la philoxenia è la forma concreta della philia.

Una volta l'anno in Giappone si organizza un simposio sull'ecoetica e continueremo ancora; ogni anno ci pervengono molti suggerimenti e molte segnalazioni interessanti. Abbiamo trovato anche qualche risposta concreta. Il nostro movimento vuole realmente produrre una collaborazione filosofica per escogitare il modo concreto di affrontare questi problemi.

traduttore: Mariannina Failla

 

 

Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui

Archivio Attualita'

 


homearchivio sezionearchivio
Copyright © Caffe' Europa 1999

Home | Rassegna italiana | Rassegna estera | Editoriale | Attualita' | Dossier | Reset Online | Libri | Cinema | Costume | Posta del cuore | Immagini | Nuovi media | Archivi | A domicilio | Scriveteci | Chi siamo