Professor Imamichi, l'India e la Cina rappresentano le culture che hanno dato vita alle
prime riflessioni filosofiche; anche il Giappone ha sviluppato molto presto una propria
cultura filosofica. Cosa distingue le forme fondamentali del pensiero giapponese dalla
filosofia europea?
Come lei ha appena affermato, in Cina era già presente una tradizione filosofica; noi
Giapponesi abbiamo appreso la filosofia dalla Cina, anche se nel nostro Paese esisteva
già il cosiddetto "pensiero giapponese". Questo spiega perché, parlando della
differenza fra la filosofia asiatica e quella europea, si può fare riferimento alla
differenza tra il pensiero cinese e quello europeo. È una precisazione necessaria: le
differenze tra il pensiero occidentale e quello asiatico sono tali che non si può
trascurare nessun elemento per porle in rilievo. Nel parlare dell'uomo, ad esempio, si
devono menzionare, con tutta probabilità, due concetti: quello di "persona" e
quello di "responsabilità".
Nell'eredità filosofica europea il concetto di "persona" ha una lunga
tradizione; insieme ad esso si è sviluppata in Europa una nozione forte di coscienza
individuale. Al contrario nel pensiero cinese, non troviamo un concetto di
"persona" così delineato. Naturalmente esiste una nozione come quella di
"coscienza", ma il concetto di "persona", questo tipo peculiare di
"coscienza", in Asia non si riscontra negli stessi termini della tradizione
europea. D'altro canto, i filosofi cinesi hanno elaborato una nozione molto forte di
coscienza morale, traducibile con il termine "responsabilità", da cui deriva un
altro concetto, quello di "intersoggettività", che ha operato incisivamente sia
in Cina che in Giappone.
Nella filosofia europea, invece, per lungo tempo, si è fatto a meno del concetto di
"responsabilità". Nozioni del genere si sono formate solo nella seconda metà
del '700, allorché, ad esempio in area anglosassone, alcuni autori cominciarono a parlare
di responsibility. Non intendo dire con questo che in Europa non ci siano stati fatti e
azioni responsabili; ma gli Europei non hanno fissato in parole il raffinato concetto
filosofico di responsabilità. La filosofia europea si è, quindi, sviluppata andando
dalla nozione di persona a quella di responsabilità; in Asia è accaduto l'inverso: si è
partiti dall'intersoggettività, non in senso conoscitivo, ma dall'interindividualità,
per arrivare al concetto di persona. Per questo in Europa e in Asia lo sviluppo dell'etica
è esattamente inverso.
Lo stesso vale per l'estetica. In Europa il concetto classico di arte è sempre stato
correlato alla mimesi, nel senso della rappresentazione mentre l'idea dell'espressione
artistica è nuova: si potrebbe dire che sia un'idea del '900. La parola latina expressio
esisteva già, ma apparteneva alla terminologia agricola: expressio indica l'atto dello
spremere e dell'estrarre. Probabilmente a partire da Toulouse-Lautrec si può usare
nell'arte moderna il termine expressio.
In Asia, invece, si sono prese le mosse dall'espressione: nell'arte pittorica dell'Asia
orientale lo sfondo è sempre bianco, vuoto, mentre la pittura non è variopinta, si
dipinge senza colore, in conseguenza del fatto che si deve "esprimere" lo
spirito interiore, la forza interiore della natura. Dell'arte europea si deve quindi dire
che va dalla mimesis all'expressio, mentre l'Asia passa dall'espressione, propria
dell'epoca classica, al concetto moderno di rappresentazione. Tra l'Asia e l'Europa vi è
quindi un movimento inverso: fenomeni del genere mostrano che si tratta di due tradizioni
filosofiche classiche di pari rango che hanno sviluppato il loro pensiero con prospettive
diverse e in direzioni opposte.
In quale misura lo sviluppo della filosofia occidentale e di quella dell'Asia
orientale, in particolare giapponese, si è modificato attraverso la reciproca presa
d'atto dell'esistenza delle due culture?
Non è semplice rispondere a questa domanda; si può dire che gli uomini cercano sempre
un interlocutore: come l'individuo cerca l'amico, così la cultura, se la si indaga in
profondità, "vuole" espandersi e desidera conoscere le altre culture; questo è
possibile anche grazie allo sviluppo tecnologico.
Fra tutte le culture non europee, il Giappone è il paese che più velocemente ha
assimilato i concetti della civiltà, della tecnica, della scienza e del diritto
occidentali. Oggi il Giappone è la seconda potenza economica mondiale; una delle cause di
tale ascesa è costituita dalla rapida assimilazione del processo di modernizzazione e di
razionalizzazione sviluppatosi in Europa in connessione con i concetti di individualismo.
Mi sembra opportuno esaminare, da un punto di vista filosofico, quello che si è
modificato nella cultura e nella mentalità giapponese dopo l'incontro con l'Europa e con
gli U.S.A..
Sarà necessario spiegare preliminarmente alcuni concetti tipici della filosofia
giapponese. Comincerò con il concetto corrispondente a quello occidentale di
"verità". In primo luogo vin giapponese "verità" si dice
"makoto": "koto" vuol dire "cosa", "ma" indica
"bellezza", "perfezione"; "ma-koto" significa quindi
"la perfezione della cosa" o anche "la realtà perfetta". Ma cosa
significa "realtà perfetta"? Il significato di "verità" racchiusa in
makoto non corrisponde al termine greco aletheia, bensì a quello di
"perfezione".
Per esempio: c'è un grande fiume e un bambino cade in acqua. Qual è quella che
convenzionalmente si chiama verità? Possiamo enunciarla nei seguenti termini: il nome del
fiume è Senna o Meno, la temperatura dell'acqua è di tre gradi, il bimbo ha circa cinque
anni; nel giro di tre minuti probabilmente morirà. Questa è una descrizione corretta, è
una descrizione dei fatti. In Giappone, invece, la nozione di verità espressa dal termine
"makoto" non è una semplice descrizione della realtà: indica la perfezione
della realtà. La caduta in acqua del bimbo esprime la realtà frantumata, la ferita della
realtà; questa ferita deve guarire. Se sapessi nuotare e riuscissi a salvare il bimbo o
chiedessi aiuto cosicché il bimbo venga salvato, la ferita della realtà guarirebbe. In
questo modo la realtà frantumata diventerebbe perfetta. La "cosa perfetta" si
realizza nel momento in cui si guarisce la ferita della realtà.
"Makoto" equivale, dunque, a verità, ma esprime due significati di verità:
uno è quello di verità in senso stretto, l'altro è quello di "veridicità".
Il doppio significato del concetto filosofico "makoto" contiene in sé anche
l'agire pratico: si può sostenere che nella tradizione giapponese sia presente una forte
consapevolezza della prassi reale; se c'è un difetto nella vita quotidiana va eliminato
con la prassi.
Alla fine dell' '800, comparando la vita europea con quella giapponese, è emersa una
grande differenza fra le due culture proprio per quanto riguarda la capacità pratica o
l'agire pratico reale. È stato possibile apprendere velocemente la tecnica del mondo
occidentale e perfezionarla proprio per la profonda coscienza pratica dei Giapponesi che,
a mio parere, è un motivo inconscio che spiega l'apprendimento così veloce della
tecnologia. A questo primo motivo, ne aggiungerei un secondo: pur autoisolandosi per
trecento anni, dall'inizio del 1600 fino al 1800, il Giappone ha avuto un sistema
scolastico di base di buon livello. In quel periodo erano pochi gli analfabeti: il sistema
delle scuole dell'obbligo era molto buono; non c'erano molte scuole di formazione
universitaria, ma il livello medio intellettuale del popolo era abbastanza alto. Questa è
la grande differenza rispetto agli altri Paesi asiatici. In Cina, ad esempio, ha operato
una grande tradizione e ci sono stati grandi filosofi, ma il livello medio del popolo non
era così elevato, mentre in Giappone l'alfabetizzazione della popolazione era
notevolmente progredita: Così, quando il Giappone ha conosciuto la tecnologia, prodotto
della civiltà occidentale, è stato in grado di apprenderla abbastanza velocemente.
Quali sono i filosofi occidentali che, nel '900, hanno esercitato maggiore influsso
sulla filosofia giapponese?
All'inizio abbiamo appreso la filosofia americana e, ancora di più, quella inglese:
John Stuart Mill, ad esempio; abbiamo letto anche libri di filosofia politica ed economica
di scuola anglosassone. A Tokyo, tuttavia, abbiamo avuto un professore tedesco veramente
d'eccezione: Raphael Koehler. Grazie a lui abbiamo conosciuto molta filosofia tedesca: in
particolar modo Kant e Schopenhauer, anche se il secondo non ha più in Giappone una
grande risonanza. In passato venne molto letto per la somiglianza della sua filosofia con
il Buddhismo, a cui fu esplicitamente debitore di molte idee, come è facile constatare
leggendo Il mondo come volontà e rappresentazione.
In seguito abbiamo studiato William James, Henri Bergson e altri pensatori del genere.
Comunque, anche la filosofia tedesca ha esercitato un influsso non marginale sul mondo
accademico giapponese.
Karl Löwith, che ha vissuto anche in Giappone, affermò: "La coscienza giapponese
è come una casa a due piani; il piano terra è costituito dalla cultura dell'Asia
orientale, dalla cultura giapponese tradizionale, il secondo piano è invece rappresentato
dalla civiltà europea e si è sovrapposto alla mentalità tradizionale". Quindi
aggiunse: "La casa ha una particolarità, non ha scale", ossia non c'è alcuna
mediazione fra le due culture.
Professor Imamichi, lei tenta di collegare il pensiero classico asiatico con la
"ferita" inflitta dalla moderna civiltà tecnologica a tutto il nostro pianeta.
Ci può dire come sia nata in Giappone la coscienza della necessità di una sintesi reale
fra la cultura asiatica e quella europea?
Detto in breve: l'integrazione delle due culture o il vero superamento delle due
culture è in effetti ideale. Come ognuno può constatare, nel mondo della tecnologia si
vive sempre in modo frenetico, ripetendo continuamente movimenti specifici che provocano
costanti frustrazioni; nella tradizione dell'Asia orientale, invece, si cerca sempre di
vivere in armonia con la natura. Ancora oggi in Giappone abbiamo a che fare con due
componenti in apparente contrasto: ci vestiamo all'europea, guidiamo l'automobile, usiamo
i fax, usiamo cioè la tecnologia occidentale: ma quando torniamo a casa, indossiamo lo
yukata giapponese, il cosiddetto kimono; ci sediamo sul tatami giapponese; guardiamo
spesso i bonsai; ascoltiamo il verso degli uccelli o il frinire delle cicale.
Nella vita privata si vive alla giapponese, mentre nel mondo del lavoro si vive come
gli occidentali. Si dimenticano le frustrazioni quotidiane dello stile di vita occidentale
nel silenzio dello stile di vita giapponese. Non che sia un'integrazione perfetta, ma la
situazione giapponese attesta qualcosa di significativo: due culture dovrebbero entrare in
un rapporto di scambio, dialogare per arrivare ad una comprensione reciproca più
profonda. Finora l'interesse dell'Europa per l'Asia e dell'Asia per l'Europa si è fermato
a livello turistico. Si dovrebbe andare più in profondità.
Qual è l'idea fondamentale su cui si basa la sua posizione filosofica, denominata
"ecoetica"?
Ritengo che, attualmente, la dimensione di vita dell'uomo non si limiti ai confini dei
singoli Stati, ma li supera attuandosi in un orizzonte cosmico.
L'ecoetica non è riducibile a una "etica ambientale", né soltanto alla
bioetica, né a un'etica degli affari: è una riflessione filosofica radicale sulla
moralità umana.
Quando arrivai per la prima volta in Europa nel 1955, conoscevo la cultura europea
grazie ai libri; ma, quando ho realmente conosciuto l'Europa, ho subìto uno shock
culturale che mi ha indotto a compiere studi di filosofia comparata, approfondendo la mia
conoscenza della tradizione greco-latina e compararla a quella classica orientale. Ho
condotto questi studi chiedendomi come fosse stato pensato un concetto in Occidente, come
in Oriente. Procedendo in questo modo ho concluso che oggi non si dovrebbe avere soltanto
la filosofia asiatica o soltanto quella europea: si dovrebbe costruire la "filosofia
dell'umanità"; per realizzarla diviene necessaria l'ecoetica.
Si tratta di un'etica nuova, in cui l'umanità potrebbe trovare un vero punto d'unione
grazie alla tecnologia. Per esempio, l'amore per il prossimo è stato un fondamento
dell'etica sia in Europa che in Asia: prima dell'era tecnologica il prossimo era
un'esistenza visibile, costituito da un numero determinato di persone. Oggi, invece, il
concetto di prossimo è cambiato, in quanto rappresenta un'esistenza invisibile e
sconosciuta. Un numero telefonico sbagliato, ossia un difetto di precisione, è già
un'azione sbagliata, cattiva, verso il "prossimo" tecnologico.
La nozione di "prossimo", nell'epoca tecnologica, è diventato invisibile ed
indeterminato; inoltre è necessaria una nuova virtù: la precisione. Si può ancora dire
che viviamo nell'epoca delle dita: si dovrebbe lavorare con l'intero corpo, ma si può
fare tutto con le dita; le azioni di forza si facevano usando il corpo. Oggi, invece, il
potere non implica la forza fisica: abbiamo un potere tecnologico che va di pari passo con
la passività del corpo. All'interno della prassi politica, dei rapporti di potere, è
interessante anche la trasformazione o il capovolgimento che ha subìto il sillogismo
pratico: si tratta di una vera rivoluzione.
Nell'Etica Nicomachea di Aristotele o nelle dottrine morali di Confucio, il sillogismo
etico ha sempre avuto: la premessa maggiore, in cui si pone lo scopo; la premessa minore,
in cui si indicano i mezzi per realizzarlo. Nel sillogismo pratico classico lo scopo è
contenuto nella premessa maggiore come qualcosa di ovvio e la premessa minore esprime la
dimensione della scelta dei mezzi.
Questa struttura vale ancora oggi nella vita privata, ma viene così formulato:
"Disponiamo di un forte potere"; è il presupposto ovvio dell'azione e
costituisce la premessa maggiore. La premessa minore esprime sempre la dimensione della
scelta, ma è la scelta dello scopo, non dei mezzi.
Nella struttura classica si dà grande valore all'io, mentre nella nuova struttura
l'accento cade sul "noi": non sono "io" a possedere l'energia atomica,
ma "noi"; non sono "io" a possedere un capitale, ma "noi".
Si può costruire un'etica non per "me stesso", ma per la collettività: anche
questo è compito dell'ecoetica.
Inoltre nella forma classica del sillogismo etico si possono porre due tipi di scopi:
scopi secolarizzati e religioso-trascendenti. Nel nuovo sillogismo si fanno solo scelte
secolarizzate e relative all'ordine fisico: si assiste ad una progressiva secolarizzazione
dell'azione umana
Come si può conservare la coscienza morale e trovare la strada della religiosità e
dell'azione sublime? Questi sono i problemi dell'ecoetica.
Lei afferma che viviamo in un'epoca nella quale dobbiamo trovare una sintesi fra le
culture avvalendoci delle possibilità offerte dalla tecnica; talvolta si ha l'impressione
di essere accomunati solo dalle possibilità offerte dalla tecnica e non da una morale o
da valori comuni. Da ciò deriva che nel dialogare con le altre culture abbiamo il compito
di cercare valori comuni. Ma oltre al dialogo, lei ha idee più concrete di come
l'umanità possa ripristinare il sillogismo classico nell'ambito dell'ecoetica?
Questo deve essere oggetto di discussione: sarebbe un compito dell'ecoetica affrontare
problemi del genere. Cosa si può fare? Questa è oggi la domanda comune, il compito
comune. Un compito fondamentale è trovare nuove virtù. Per esempio, lo Stato ha
costituito sempre un valore morale fondamentale dell'etica: quando scoppia una guerra, il
divieto di uccidere viene del tutto dimenticato. Ma l'ecoetica non è un'etica così
limitata: la philoxenia è la forma concreta della philia.
Una volta l'anno in Giappone si organizza un simposio sull'ecoetica e continueremo
ancora; ogni anno ci pervengono molti suggerimenti e molte segnalazioni interessanti.
Abbiamo trovato anche qualche risposta concreta. Il nostro movimento vuole realmente
produrre una collaborazione filosofica per escogitare il modo concreto di affrontare
questi problemi.
traduttore: Mariannina Failla