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Inquietanti paralleli Fin de Siecle

Joseph LaPalombara


La glorificazione del capitalismo e l'apologia dei magici poteri del libero mercato cui oggi assistiamo presentano sorprendenti analogie con quanto avvenne alla fine del secolo scorso. Oggi come allora, l'adorazione era molto più entusiastica negli Stati Uniti che altrove. In ogni caso, l'odierna infatuazione ha assunto proporzioni globali e le sue possibili implicazioni dovrebbero allarmare i governi di gran parte dei paesi del mondo.

Ma per spiegarne i motivi sarà bene procedere con ordine. Fra la fine della disastrosa Guerra civile e lo scoppio del primo conflitto mondiale, gli Stati Uniti conobbero una crescita economica talmente rapida da assicurarsi fin da subito il ruolo di potenza economica dominante del mondo. Contrariamente a certe dicerie, peraltro assai diffuse, quella trasformazione non fu esclusivamente frutto del libero mercato: il governo centrale e quelli dei vari Stati diedero una mano ai capitani díindustria - li chiamavano robber baron, "baroni-predoni" - introducendo il sistema di tassazione regressiva e molti altri provvedimenti favorevoli alle imprese.

Una delle armi principali in mano ai capitalisti di quel tempo fu il potere giudiziario. Per quasi quarant'anni, a partire dal 1896, i presidenti repubblicani nominarono, in particolare alla Corte Suprema, solo giudici inclini a proteggere i loro privilegi da eventuali erosioni populiste. E i giudici lo fecero a volte con spietata efficienza, ad esempio dichiarando incostituzionali certe leggi statali adottate per limitare gli eccessi del capitalismo sul posto di lavoro, o per agevolare le organizzazioni operaie costringendo i datori di lavoro ad accettare la contrattazione collettiva. Secondo la litania ripetuta all'infinito da quei giudici, lo Stato non aveva il diritto di regolamentare i rapporti contrattuali fra privati.

E così gli americani, ma anche i tanti immigrati addetti a lavori umili, abboccarono beatamente alla favola della libertà d'impresa, specie negli anni di boom economico che seguirono la Grande Guerra. Per riportarli con i piedi per terra ci vollero il crollo in Borsa del 1929 e la Grande Depressione che lo seguì. Mentre il paese si dibatteva in un baratro economico e morale, nel 1932 gli elettori americani mandarono un democratico alla Casa Bianca. Fu l'avvio del New Deal, che diede vita al welfare state ma introdusse anche - cosa non meno importante - provvedimenti in forza dei quali lo Stato interveniva per regolamentare e controllare le imprese finanziarie, commerciali e industriali del paese.

Anche l'Europa e il Giappone conobbero alcuni decenni di crescita economica seguiti da un crollo negli anni Trenta. Ma nel loro caso, a differenza degli Stati Uniti, lo Stato svolse un ruolo molto più attivo nella trasformazione industriale. In Giappone, la restaurazione Meiji vide una stretta collaborazione fra lo Stato, le sue principali istituzioni e il settore privato. Un analogo intervento dello Stato nello sviluppo dell'economia si ebbe sia in Germania, sia in Italia. In Francia, infine, lo Stato dirigista affondava le radici nel mercantilismo del XVI secolo. Lo spietato individualismo e la fede inconcussa nel mercato che contraddistinguono l'America -- dove lo Stato rimane relativamente passivo e tutt'al più si limita a dare una mano dall'esterno -- erano del tutto estranei alla tradizione europea.

Ma in Europa, a temperare l'adorazione del capitalismo e del libero mercato, intervenivano anche fattori strutturali. Fra questi l'azione della Chiesa cattolica, con le ben note riserve dottrinarie circa la proprietà privata e i suoi presunti diritti, e anche i partiti di sinistra, che a partire dalla fine del secolo scorso presero a esercitare un peso crescente sulla scena politica europea. Alla fine della prima guerra mondiale, le critiche mosse al capitalismo dai marxisti e da altri filoni di pensiero socialista assunsero un rilievo ancor maggiore per effetto della rivoluzione bolscevica.

Un altro fattore importante fu il nazionalismo, che poneva le esigenze reali o immaginarie della nazione al di sopra di tutto e di tutti e predicava che, all'occorrenza, il mercato e le sue principali istituzioni avrebbero dovuto piegarsi a esse. Con l'insorgere della Grande Depressione, fu quindi relativamente facile e naturale, per le autorità centrali di vari paesi, rendere più incisivo il proprio intervento nella sfera economica. L'Italia degli anni successivi al 1929 rappresenta il caso-limite di queste politiche interventiste.

Oggi, al tramonto del XX secolo, il pendolo ha compiuto un'oscillazione in senso opposto e si torna a profondere elogi sperticati nei confronti del capitalismo, del mercato e della libera impresa. L'entusiastica adorazione del mercato ha assunto proporzioni tali da indurre molti a individuare nel liberalismo economico all'americana addirittura una condizione preliminare per l'affermazione della democrazia. Questa tesi, per la verità assai discutibile, viene oggi proclamata ai quattro angoli della terra da istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Non solo: è fatta propria da numerose personalità e organizzazioni del mondo politico un tempo apertamente ostili al capitalismo, o quanto meno a quello di stampo americano.

Perchè ho detto all'inizio che il tipo di ragionamento su cui poggia quest'euforia capitalistica dovrebbe allarmare i governi di gran parte dei paesi del mondo? La risposta più ovvia è che a differenza di quanto accadde in passato, la critica o il dissenso nei confronti del capitalismo e del libero mercato o sono scomparsi, o sono stati messi a tacere. Le posizioni di stampo bolscevico sono finite sotto le macerie del Muro di Berlino, e quello è senz'altro il posto che gli spetta. Ma anche la sinistra democratica in Europa sembra aver perso la sua voce critica. Almeno per il momento, la cosiddetta "terza via" fra il socialismo ormai ampiamente screditato e un capitalismo potenzialmente rampante è poco più che una figura retorica o una pia illusione.

Come negli Stati Uniti, anche in Europa la sinistra ha di fatto abbracciato il credo di politica economica propugnato da Margaret Thatcher e Ronald Reagan. I cosiddetti governi di sinistra si sono precipitati a privatizzare non soltanto le imprese di Stato, ma anche molti servizi pubblici un tempo considerati appannaggio esclusivo del settore pubblico. E quando i governi non si mostrano abbastanza solerti in tal senso, ecco spuntare i tecnocrati che dettano loro alla lettera le politiche da seguire. Nella folle corsa a professare la propria conversione al libero mercato, si levano ormai ben poche voci di dissenso.

Ma c'è un motivo ancor più valido per allarmarsi, ed è la sorprendente trasformazione che sta subendo l'impresa capitalistica. Per indicare questo fenomeno è oggi invalso l'uso del termine "globalizzazione": uno slogan facile che come tale fa colpo e cattura la fantasia. Per le masse, Internet e il ciberspazio sono molto più affascinanti di quanto lo furono a loro tempo le spedizioni nel cosmo, per la buona ragione che a quelle partecipavano soltanto gli astronauti. Perchè mai l'uomo qualunque non dovrebbe entusiasmarsi di fronte alla prospettiva di un unico mercato globale, di una diffusione mondiale delle immagini e delle informazioni?

Ma "globalizzazione", in essenza, significa nascita di imprese finanziarie, commerciali e industriali altamente integrate, in grado di operare su scala mondiale. Se dovessero proseguire le tendenze attuali, vedremmo un numero sempre più ristretto di organizzazioni dominare in misura crescente i segmenti di mercato in cui operano. Poichè si tratta di soggetti privati, è logico aspettarsi che la loro attività vada principalmente a vantaggio di coloro che possiedono e gestiscono tali organizzazioni. Non meno logicamente, il benessere della comunità nel suo complesso non costituisce la loro finalità precipua nè il loro compito principale.

E invece, sulla scia delle privatizzazioni e della deregolamentazione dei mercati, oggi non assistiamo all'aumento della concorrenza, bensì alla sua riduzione. Giorno dopo giorno, e a quanto pare con l'approvazione dei governi nazionali, si creano oligopoli di portata globale. Quando lo stesso fenomeno si verificò un secolo fa, i governi erano in condizione di apportare correttivi, e intervennero introducendo vari tipi di regolamentazione. Oggi invece i vari sistemi di regolamentazione del capitalismo - nel caso degli Stati Uniti, quello creato sotto il New Deal - sono in via di smantellamento. Una delle conseguenze più gravi è che quando, fra qualche anno, se ne avvertirà di nuovo l'esigenza - come appare assai probabile - non esisterà più alcuna istituzione in grado di apportare correttivi del genere.

Le prove di questo squilibrio di poteri abbondano fin d'ora. La globalizzazione procede per fusioni, acquisizioni e accordi d'altro genere fra imprese private che scavalcano i confini nazionali. I governi nazionali e l'Unione Europea sono a malapena riusciti a esercitare una supervisione sporadica e marginale sulla formazione di queste megacorporation. Probabilmente, Bill Gates e la Microsoft stanno per dare al mondo la dimostrazione che neanche il governo americano è in grado di disciplinare efficacemente un'impresa i cui ricavi mensili superano i Pil di dozzine di paesi sommati insieme.

L'impresa globale, dunque, è ormai in grado di eludere anche i più efficaci controlli dei singoli paesi. Ciò non vale soltanto per i flussi di capitali, ma anche quando c'è da decidere in che parte del mondo deve avvenire la produzione e la distribuzione di beni e servizi e la registrazione di profitti e perdite. Se è vero, come oggi sostengono in molti, che l'"impresa globale" non ha nazione, bisogna però aggiungere che è esente da qualsiasi controllo efficace da parte del governo di questo o quel paese.

Per correggere questa situazione occorrerà sia un più attento coordinamento delle politiche di regolamentazione dei vari governi nazionali, sia la creazione - o il rafforzamento - di apposite istituzioni internazionali. Ma in una fase di crescita economica incessante e senza precedenti come quella che attraversano attualmente alcuni paesi, è assai improbabile che chiunque, Unione Europea compresa, si muova in questa direzione. Forse, l'unica cosa che riuscirebbe a produrre questo risultato sarebbe un fenomeno indesiderabile come un terremoto economico di epiche proporzioni. Come già in passato, esso rammenterebbe al mondo che nè il capitalismo nè il mercato, se del tutto privi di controllo, possono produrre esiti esclusivamente benigni o assicurare il benessere.

(Tradotto da Marina Astrologo)

 

 

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