La glorificazione del
capitalismo e l'apologia dei magici poteri del libero mercato cui oggi assistiamo
presentano sorprendenti analogie con quanto avvenne alla fine del secolo scorso. Oggi come
allora, l'adorazione era molto più entusiastica negli Stati Uniti che altrove. In ogni
caso, l'odierna infatuazione ha assunto proporzioni globali e le sue possibili
implicazioni dovrebbero allarmare i governi di gran parte dei paesi del mondo.
Ma per spiegarne i motivi sarà bene procedere con ordine. Fra la fine
della disastrosa Guerra civile e lo scoppio del primo conflitto mondiale, gli Stati Uniti
conobbero una crescita economica talmente rapida da assicurarsi fin da subito il ruolo di
potenza economica dominante del mondo. Contrariamente a certe dicerie, peraltro assai
diffuse, quella trasformazione non fu esclusivamente frutto del libero mercato: il governo
centrale e quelli dei vari Stati diedero una mano ai capitani díindustria - li chiamavano
robber baron, "baroni-predoni" - introducendo il sistema di tassazione
regressiva e molti altri provvedimenti favorevoli alle imprese.
Una delle armi principali in mano ai capitalisti di quel tempo fu il
potere giudiziario. Per quasi quarant'anni, a partire dal 1896, i presidenti repubblicani
nominarono, in particolare alla Corte Suprema, solo giudici inclini a proteggere i loro
privilegi da eventuali erosioni populiste. E i giudici lo fecero a volte con spietata
efficienza, ad esempio dichiarando incostituzionali certe leggi statali adottate per
limitare gli eccessi del capitalismo sul posto di lavoro, o per agevolare le
organizzazioni operaie costringendo i datori di lavoro ad accettare la contrattazione
collettiva. Secondo la litania ripetuta all'infinito da quei giudici, lo Stato non aveva
il diritto di regolamentare i rapporti contrattuali fra privati.
E così gli americani, ma anche i tanti immigrati addetti a lavori
umili, abboccarono beatamente alla favola della libertà d'impresa, specie negli anni di
boom economico che seguirono la Grande Guerra. Per riportarli con i piedi per terra ci
vollero il crollo in Borsa del 1929 e la Grande Depressione che lo seguì. Mentre il paese
si dibatteva in un baratro economico e morale, nel 1932 gli elettori americani mandarono
un democratico alla Casa Bianca. Fu l'avvio del New Deal, che diede vita al welfare state
ma introdusse anche - cosa non meno importante - provvedimenti in forza dei quali lo Stato
interveniva per regolamentare e controllare le imprese finanziarie, commerciali e
industriali del paese.
Anche l'Europa e il Giappone conobbero alcuni decenni di crescita
economica seguiti da un crollo negli anni Trenta. Ma nel loro caso, a differenza degli
Stati Uniti, lo Stato svolse un ruolo molto più attivo nella trasformazione industriale.
In Giappone, la restaurazione Meiji vide una stretta collaborazione fra lo Stato, le sue
principali istituzioni e il settore privato. Un analogo intervento dello Stato nello
sviluppo dell'economia si ebbe sia in Germania, sia in Italia. In Francia, infine, lo
Stato dirigista affondava le radici nel mercantilismo del XVI secolo. Lo spietato
individualismo e la fede inconcussa nel mercato che contraddistinguono l'America -- dove
lo Stato rimane relativamente passivo e tutt'al più si limita a dare una mano
dall'esterno -- erano del tutto estranei alla tradizione europea.
Ma in Europa, a temperare l'adorazione del capitalismo e del libero
mercato, intervenivano anche fattori strutturali. Fra questi l'azione della Chiesa
cattolica, con le ben note riserve dottrinarie circa la proprietà privata e i suoi
presunti diritti, e anche i partiti di sinistra, che a partire dalla fine del secolo
scorso presero a esercitare un peso crescente sulla scena politica europea. Alla fine
della prima guerra mondiale, le critiche mosse al capitalismo dai marxisti e da altri
filoni di pensiero socialista assunsero un rilievo ancor maggiore per effetto della
rivoluzione bolscevica.
Un altro fattore importante fu il nazionalismo, che poneva le esigenze
reali o immaginarie della nazione al di sopra di tutto e di tutti e predicava che,
all'occorrenza, il mercato e le sue principali istituzioni avrebbero dovuto piegarsi a
esse. Con l'insorgere della Grande Depressione, fu quindi relativamente facile e naturale,
per le autorità centrali di vari paesi, rendere più incisivo il proprio intervento nella
sfera economica. L'Italia degli anni successivi al 1929 rappresenta il caso-limite di
queste politiche interventiste.
Oggi, al tramonto del XX secolo, il pendolo ha compiuto un'oscillazione
in senso opposto e si torna a profondere elogi sperticati nei confronti del capitalismo,
del mercato e della libera impresa. L'entusiastica adorazione del mercato ha assunto
proporzioni tali da indurre molti a individuare nel liberalismo economico all'americana
addirittura una condizione preliminare per l'affermazione della democrazia. Questa tesi,
per la verità assai discutibile, viene oggi proclamata ai quattro angoli della terra da
istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Non solo: è fatta
propria da numerose personalità e organizzazioni del mondo politico un tempo apertamente
ostili al capitalismo, o quanto meno a quello di stampo americano.
Perchè ho detto all'inizio che il tipo di ragionamento su cui poggia
quest'euforia capitalistica dovrebbe allarmare i governi di gran parte dei paesi del
mondo? La risposta più ovvia è che a differenza di quanto accadde in passato, la critica
o il dissenso nei confronti del capitalismo e del libero mercato o sono scomparsi, o sono
stati messi a tacere. Le posizioni di stampo bolscevico sono finite sotto le macerie del
Muro di Berlino, e quello è senz'altro il posto che gli spetta. Ma anche la sinistra
democratica in Europa sembra aver perso la sua voce critica. Almeno per il momento, la
cosiddetta "terza via" fra il socialismo ormai ampiamente screditato e un
capitalismo potenzialmente rampante è poco più che una figura retorica o una pia
illusione.
Come negli Stati Uniti, anche in Europa la sinistra ha di fatto
abbracciato il credo di politica economica propugnato da Margaret Thatcher e Ronald
Reagan. I cosiddetti governi di sinistra si sono precipitati a privatizzare non soltanto
le imprese di Stato, ma anche molti servizi pubblici un tempo considerati appannaggio
esclusivo del settore pubblico. E quando i governi non si mostrano abbastanza solerti in
tal senso, ecco spuntare i tecnocrati che dettano loro alla lettera le politiche da
seguire. Nella folle corsa a professare la propria conversione al libero mercato, si
levano ormai ben poche voci di dissenso.
Ma c'è un motivo ancor più valido per allarmarsi, ed è la
sorprendente trasformazione che sta subendo l'impresa capitalistica. Per indicare questo
fenomeno è oggi invalso l'uso del termine "globalizzazione": uno slogan facile
che come tale fa colpo e cattura la fantasia. Per le masse, Internet e il ciberspazio sono
molto più affascinanti di quanto lo furono a loro tempo le spedizioni nel cosmo, per la
buona ragione che a quelle partecipavano soltanto gli astronauti. Perchè mai l'uomo
qualunque non dovrebbe entusiasmarsi di fronte alla prospettiva di un unico mercato
globale, di una diffusione mondiale delle immagini e delle informazioni?
Ma "globalizzazione", in essenza, significa nascita di
imprese finanziarie, commerciali e industriali altamente integrate, in grado di operare su
scala mondiale. Se dovessero proseguire le tendenze attuali, vedremmo un numero sempre
più ristretto di organizzazioni dominare in misura crescente i segmenti di mercato in cui
operano. Poichè si tratta di soggetti privati, è logico aspettarsi che la loro attività
vada principalmente a vantaggio di coloro che possiedono e gestiscono tali organizzazioni.
Non meno logicamente, il benessere della comunità nel suo complesso non costituisce la
loro finalità precipua nè il loro compito principale.
E invece, sulla scia delle privatizzazioni e della deregolamentazione
dei mercati, oggi non assistiamo all'aumento della concorrenza, bensì alla sua riduzione.
Giorno dopo giorno, e a quanto pare con l'approvazione dei governi nazionali, si creano
oligopoli di portata globale. Quando lo stesso fenomeno si verificò un secolo fa, i
governi erano in condizione di apportare correttivi, e intervennero introducendo vari tipi
di regolamentazione. Oggi invece i vari sistemi di regolamentazione del capitalismo - nel
caso degli Stati Uniti, quello creato sotto il New Deal - sono in via di smantellamento.
Una delle conseguenze più gravi è che quando, fra qualche anno, se ne avvertirà di
nuovo l'esigenza - come appare assai probabile - non esisterà più alcuna istituzione in
grado di apportare correttivi del genere.
Le prove di questo squilibrio di poteri abbondano fin d'ora. La
globalizzazione procede per fusioni, acquisizioni e accordi d'altro genere fra imprese
private che scavalcano i confini nazionali. I governi nazionali e l'Unione Europea sono a
malapena riusciti a esercitare una supervisione sporadica e marginale sulla formazione di
queste megacorporation. Probabilmente, Bill Gates e la Microsoft stanno per dare al mondo
la dimostrazione che neanche il governo americano è in grado di disciplinare
efficacemente un'impresa i cui ricavi mensili superano i Pil di dozzine di paesi sommati
insieme.
L'impresa globale, dunque, è ormai in grado di eludere anche i più
efficaci controlli dei singoli paesi. Ciò non vale soltanto per i flussi di capitali, ma
anche quando c'è da decidere in che parte del mondo deve avvenire la produzione e la
distribuzione di beni e servizi e la registrazione di profitti e perdite. Se è vero, come
oggi sostengono in molti, che l'"impresa globale" non ha nazione, bisogna però
aggiungere che è esente da qualsiasi controllo efficace da parte del governo di questo o
quel paese.
Per correggere questa situazione occorrerà sia un più attento
coordinamento delle politiche di regolamentazione dei vari governi nazionali, sia la
creazione - o il rafforzamento - di apposite istituzioni internazionali. Ma in una fase di
crescita economica incessante e senza precedenti come quella che attraversano attualmente
alcuni paesi, è assai improbabile che chiunque, Unione Europea compresa, si muova in
questa direzione. Forse, l'unica cosa che riuscirebbe a produrre questo risultato sarebbe
un fenomeno indesiderabile come un terremoto economico di epiche proporzioni. Come già in
passato, esso rammenterebbe al mondo che nè il capitalismo nè il mercato, se del tutto
privi di controllo, possono produrre esiti esclusivamente benigni o assicurare il
benessere.
(Tradotto da Marina Astrologo)