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pubblicato su la Repubblica (www.repubblica.it)
dell'11 novembre
Dieci anni dopo la caduta del Muro di Berlino, l'Unione Europea si
accinge forse a mantenere, finalmente, la promessa di associare gli Stati ex comunisti. La
Commissione europea di Romano Prodi ha concepito una lungimirante strategia di
allargamento dell' Unione. I suoi tratti distintivi sono una maggiore apertura e
flessibilità nei negoziati, e più chiari incentivi agli aspiranti membri ad avvicinarsi
agli standard politici, economici e istituzionali dell'UE. Se tutto questo funzionerà,
l'Unione diventerà il massimo esempio nel mondo di democrazia prospera e fondata sul
libero mercato.
L'allargamento dell'Unione non è un compito di poco conto. Adattare le
usanze e le regole dei potenziali nuovi arrivati a quelle dell'UE richiede tempo; la
negoziazione delle condizioni d'ingresso può essere diabolicamente complicata; e la
stessa UE deve riformare le sue istituzioni in vista di un'Unione futura che conterà
forse 30 membri. Se si scava sotto la superficie, si troverà che l'altruismo collettivo
dell'UE nei confronti dell'Est ha spesso mascherato il perseguimento del vantaggio
nazionale. In un'Unione divisa tra pagatori netti e beneficiari netti, il fatto economico
dell'allargamento è che porterà dentro paesi molto più poveri. O gli attuali datori
forniscono una torta più grande, o gli attuali prenditori si accontentano di fette più
piccole. Siccome su ciascun trattato di accessione deve esserci un' intesa unanime, i
rischi potenziali di stallo sono fin troppo evidenti. Spagnoli e irlandesi brontolano che
non accetteranno di pagare un prezzo a beneficio di polacchi, ungheresi o lettoni.
Così finora, almeno sulla carta, l'UE si è rifiutata di avviare
conversazioni (in vista dell'allargamento) con paesi candidati che non abbiano prima
soddisfatto una serie di criteri assai onerosi. Nel caso dei paesi con cui i negoziati
sono cominciati nel 1998 (Cipro, la Repubblica ceca, l'Estonia, l'Ungheria, la Polonia e
la Slovenia), l'asticella è stata piazzata molto in alto, benché sia possibile discutere
se essi abbiano davvero superato l'ostacolo. Di conseguenza, la prospettiva dell'ingresso
nell'Unione costituiva un assai modesto incentivo agli occhi di paesi per i quali il
soddisfacimento di siffatti rigidi criteri era oggettivamente fuori della loro portata.
Ma se questi paesi non progrediscono, l'Europa rischia di diventare un
continente diviso: per una metà la fortezza dei ricchi, per l'altra il ribollente
calderone dei poveri. Lo shock delle guerre etniche ha rafforzato l'idea di usare
l'allargamento come una carota per allettare i ritardatari sulla via delle riforme. Ora la
Commissione di Prodi propone di negoziare con qualunque paese che soddisfi i criteri
politici (democrazia stabile, e rispetto dei diritti umani e di quelli delle minoranze), e
di non insistere sul soddisfacimento dei difficili criteri economici (un'economia di
mercato funzionante e la capacità di reggere la concorrenza UE) come prerequisito del
negoziato. La Commissione suggerisce pertanto di avviare i negoziati con altri sei paesi:
Bulgaria, Lettonia, Lituania, Malta, Romania e Slovacchia. La possibilità di un negoziato
è prospettata anche ad altri paesi balcanici, purché risolvano le loro dispute di
frontiera, rispettino i diritti delle minoranze e realizzino una cooperazione su scala
regionale.
Avendo ammorbidito i criteri per l'avviamento dei negoziati, la
Commissione propone altresì di renderli più flessibili. In passato, una volta partiti i
negoziati, tutti i candidati all'ammissione erano costretti a tenere più o meno lo stesso
passo mentre l' Unione smaltiva la lista fissa di aree tematiche ("capitoli",
nel gergo bruxellese) da negoziare con ciascun paese. Ora la Commissione vuole aprire
nuove aree di negoziato con qualunque paese candidato non appena questo sia pronto. Questa
nuova flessibilità fornisce un incentivo a procedere sulla via delle riforme il più
celermente possibile, e la Commissione contempla esplicitamente una sorta di gara: il tale
paese potrà raggiungere e sorpassare i paesi che si trovavano in testa, ma che, avendo
rallentato i loro sforzi, sono ora in ritardo. Un difetto di questa linea è che la corsa
all'ammissione rischia di scoraggiare la cooperazione tra i candidati. Ma a ciò si può
rimediare introducendo incentivi alla cooperazione nei meccanismi attraverso i quali l'UE
fornisce la sua assistenza. Questi stimoli possono essere resi più attraenti dalla
possibilità, prospettata dalla Commissione, che alcuni paesi vengano ammessi già nel
2003.
Sebbene questi ingressi precoci non siano una certezza, la data del
2003 deve spingere gli attuali paesi membri a completare la riforma interna delle
istituzioni dell'Unione. Esse furono create per i sei paesi fondatori, e il vincolo
dell'unanimità per la maggior parte delle decisioni rende il loro funzionamento sempre
più macchinoso. Prima che nuovi membri vengano ammessi, si dovrà poter decidere a
maggioranza su un maggior numero di questioni, senza di che l'allargamento farà scoppiare
gli attuali programmi dell' UE. Con dodici candidati che bussano alla porta e altri
all'orizzonte, i membri odierni non possono permettersi indugi.
Rimangono due questioni che la Commissione, e più in generale l'Unione
non ha affrontato in modo adeguato. Innanzitutto, occorre che nel processo per l'entrata
nell'UE s'impegnino non soltanto i governi, ma anche le società dei paesi post-
comunisti. Oggi l'assistenza fornita dall'UE nel quadro del "programma Phare"
passa quasi per intero attraverso i governi candidati, o attraverso controparti residenti
nell'Unione. Ciò favorisce la corruzione e l'inefficienza. E le nuove direttive Phare non
offrono alcun rimedio. Ma società realmente aperte esigono istituzioni civiche attive e
settori privati indipendenti dai governi; e ciò rende indispensabile che le società,
ancor più dei governi, soddisfino i requisiti in questione. I programmi Phare debbono
incoraggiare il processo mediante una maggiore competitività e aprendosi a tutti coloro
che ne hanno i titoli; e, ogniqualvolta sia possibile, debbono avere una portata
regionale.
In secondo luogo, benché l'allargamento possa accrescere la sicurezza
europea, i paesi che destano maggiori preoccupazioni rimangono molto lontani dal
soddisfare i requisiti per l' ammissione all'Unione. Ciò è particolarmente vero dei
Balcani occidentali, ma anche dei paesi situati a est e a sud dell'Unione. Offrire la
prospettiva dell'ingresso finale è importante, ma se si vuole che l'ammissione diventi
qualcosa di più di un miraggio l'UE deve compiere alcuni passi decisivi. La Commissione
riconosce la necessità di una politica provvisoria, ma le sue proposte rimangono vaghe.
L'Europa non può limitarsi a reagire alle crisi che scoppiano lungo le sue frontiere
(come ha fatto finora), ma deve prendere l'iniziativa, deve prevenire. Il Patto di
Stabilità per l' Europa sudorientale è un primo passo, ma è poco più di una cornice
vuota, che contiene solamente tre tavoli di discussione. L'Unione deve mettere sul tavolo
qualcosa di concreto.
E questo qualcosa deve essere l'accesso al mercato unico europeo e un
aiuto all'introduzione del principio di legalità e alla costruzione di amministrazioni
efficienti. Una politica del genere attirerebbe il capitale privato, favorirebbe la
crescita economica e aiuterebbe i paesi a prepararsi all'ammissione. La crisi dei Balcani
non è affatto finita. A Belgrado, malgrado il suo isolamento, Milosevic rimane aggrappato
al potere; il Kosovo non è pacificato; la tensione monta in Montenegro.
Il circolo vizioso della violenza può essere spezzato soltanto
costruendo società democratiche, aperte, in cui diminuisca l'importanza delle frontiere e
dei governi. Il raggiungimento di questa meta richiederà azioni che esorbitano dalla
competenza del Commissario all'Allargamento della Unione.
Occorre che essa sia formulata esplicitamente dal Presidente della
Commissione, e avallata dal Consiglio europeo in occasione del vertice di Helsinki in
programma per dicembre. I popoli dell'Europa centrale e orientale hanno aspettato
abbastanza.
George Soros è Presidente del Soros Fund Management e Chairman
dell'Open Society Institute.