Prof. Dahrendorf, spesso liberalismo viene inteso come sinonimo di democrazia. Potrebbe
spiegarci la differenza fra questi due concetti?
Democrazia, così come la intendo io, è in primo luogo il mutamento senza rivoluzione,
il mutamento senza spargimento di sangue. Si tratta dunque di un sistema costituzionale
nellambito del quale è possibile tener conto dei mutamenti intervenuti negli
interessi o nelle opinioni degli uomini, nonché dei mutamenti che intervengono nella
comunità a partire da influssi esterni, senza che per questo si giunga a sconvolgimenti
rapidi, tempestosi, violenti.
La democrazia è una componente della tradizione liberale, ma, in senso proprio,
liberalismo è un concetto che fa riferimento dei contenuti e che non è, solo e
necessariamente, collegato con democrazia. Liberalismo è Stato di diritto, libera impresa
e diritti sociali fondamentali: si tratta dunque di elementi di contenuto, mentre la
democrazia è piuttosto qualcosa di formale.
Sul versante opposto, in che modo si può definire il totalitarismo? E in che modo è
possibile distinguerlo dallautoritarismo? E fra quali forme di totalitarismo lei
opererebbe una distinzione?
Naturalmente, ci sono concetti diversi per le diverse forme di vita associata. E non è
di grande utilità cercare di imporre agli altri la propria privata terminologia.
Tuttavia, per quanto mi riguarda, e collocandomi nel solco della tradizione, vorrei
mettere in chiaro un punto: il governo autoritario ha a che fare con forme di società e
di Stato pre-moderne, il governo autoritario riposa sul presupposto che chiamato a
governare è un ceto tradizionale relativamente ristretto, unaristocrazia,
unoligarchia, che, dando prova di una relativa buona volontà e senza disporre di un
controllo totale, non attribuisce tuttavia alcun valore al fatto che un maggior numero di
uomini possa partecipare al processo politico. Nell'ambito dunque del governo autoritario,
un ceto dirigente si ritiene chiamato a governare una comunità secondo regole
tradizionali.
Totalitarismo invece è una forma specificamente moderna, nellambito della quale
un singolo Capo, con laiuto di unideologia, cerca di edificare il proprio
regime mediante una mobilitazione totale della popolazione, mediante una mobilitazione
organizzata della popolazione. Io faccio uso con molta cautela della categoria di
totalitarismo. Così ad esempio, secondo me, lItalia di Mussolini probabilmente non
era totalitaria, ma rappresentava uno stadio intermedio tra autoritarismo e totalitarismo;
anche per la Spagna di Franco si può dire che non era totalitaria; lo era invece la
Germania di Hitler e lUnione Sovietica di Stalin. Anche nel dopoguerra, in
determinati paesi in via di sviluppo, ci sono stati fenomeni di totalitarismo (Pol Pot,
Idi Amin). E dunque, abbiamo qui a che fare con un fenomeno di mobilitazione e pertanto di
una forma specificamente moderna dellordinamento statale, mentre
lautoritarismo è, in senso proprio, una forma meno recente, che rinvia al
diciannovesimo secolo.
Potrebbe chiarire ulteriormente cosa intende per forme di mobilitazione?
Il governo totalitario non riposa sul fatto che i singoli stiano tranquilli e zitti,
com'è il caso, spesso, del regime autoritario. Il governo totalitario esige invece che i
singoli si manifestino costantemente pronti ad appoggiare il Capo. Queste manifestazioni
attive vengono organizzate, la gente è raccolta in organizzazioni di massa, in un grande
partito, in organizzazioni collegate o vicine a questo partito unico. La gente deve
continuamente partecipare a marce, deve costantemente esprimersi a favore di qualcosa,
rilasciare dichiarazioni dalle quali risulta che essa appoggia il Capo, i dirigenti. Si
tratta dunque di una mobilitazione volontaria, come quella che si verifica in occasione di
unelezione democratica; è una mobilitazione dallalto, non una mobilitazione
mediante partecipazione individuale.
Lei ha parlato una volta di democrazia senza libertà. Ma la democrazia dovrebbe
definire lambito politico della libertà: potrebbe spiegarci cosa intende col
concetto di "democrazia senza libertà"?
Democrazia è un concetto che viene inteso in modo diverso: io lho definita come
"mutamento senza rivoluzione, senza violenza": si tratta di una definizione
popperiana, o che comunque è molto vicina a quella di Popper. E una definizione che
certo non è stata introdotta da Tocqueville nella storia del pensiero moderno. Per
Tocqueville la democrazia era il dominio del popolo, la partecipazione dei molti,
luguaglianza dei cittadini che partecipano al processo sociale e politico. E da
questa tradizione tocquevilliana deriva lidea che è possibile che la partecipazione
dei molti restringa lo spazio di manovra del singolo, che la partecipazione dei molti
produca quello che è stato definito, da John Stuart Mill ed altri, come la
"tirannide della maggioranza", limpossibilità per il singolo di essere a
suo modo, data la forte pressione in direzione del conformismo, dellassimilazione,
dellidentità.
Cè qui un elemento per cui la "tirannide della maggioranza" (di cui
parlano Tocqueville e Mill) può assumere forme totalitarie, mediante lappello a
'Führer' totalitari. Non dimentichiamo che alcuni degli studiosi del totalitarismo degli
anni 30, 40 e 50 hanno fatto ricorso proprio a questo elemento per
spiegare il nazionalsocialismo e anche lo stalinismo
Il totalitarismo appare allora come un fenomeno della società di massa: così ad
esempio lha interpretato Hannah Arendt, e in una certa misura anche Franz Neumann, e
prima già Theodor Geiger. Qui la democrazia, data la sua ineludibile pressione
egualitaria, appare molto vicina a una forma di tirannide, la quale pertanto esclude la
possibilità di un mutamento senza rivoluzione.
Con questa mia presa di posizione ho voluto rendere chiare le molteplici ambivalenze
del concetto di democrazia : vorrei ancora una volta sottolineare che la mia visione della
democrazia è di carattere politico-istituzionale; decisiva nella democrazia è per me la
possibilità di mutamento di una comunità, e questa possibilità di mutamento deve
rimanere aperta, senza violenza.
Tra i fenomeni che nella democrazia restringono la libertà, lei includerebbe anche, ad
esempio, la pubblicità e i mass media? Si tratta di elementi della società odierna,
della società democratica che comportano il pericolo di una restrizione della libertà?
Secondo la migliore definizione, la democrazia esige uno spazio pubblico che sia in
condizioni di mediare interessi ed opinioni degli uomini col processo decisionale delle
istituzioni politiche, o di mediarli nelle istituzioni politiche. Il caso ideale è
rappresentato da uno spazio pubblico costituito da uomini liberi, da individui che però
sincontrano per lappunto sulla piazza del mercato. Quello che è ancora usuale
nelle assemblee elettorali dei cantoni svizzeri si avvicina molto a questo spazio pubblico
ideale. In verità questo caso ideale non si è mai verificato per intero, e nelle grandi
società è molto difficile che possa verificarsi. Il caso ideale viene sempre influenzato
da altri fattori. Lo spazio pubblico, lideale spazio pubblico democratico, viene
sempre falsificato, sia mediante la rappresentanza, sia anche mediante la manipolazione. E
la manipolazione può avvenire in modi molto diversi
Nel diciannovesimo secolo e fino al nostro secolo, la manipolazione degli elettori
avveniva spesso ad opera dei potenti del posto, i grandi proprietari terrieri, o
proprietari di altro tipo, o comunque persone per questa o quella ragione potenti. Una
forma di manipolazione oggi particolarmente attuale è senza dubbio quella che avviene
mediante i mass media e i pochi proprietari dei mass media: dunque, la manipolazione dello
spazio pubblico è sempre stato un pericolo, e lo è ancora oggi.
Lei si è dichiarato a favore di unattiva politica dellistruzione; in altra
occasione ha però notato che bisognerebbe essere un cattivo sociologo per ritenere che il
mondo si possa trasformare mediante leducazione, senza trasformare le istituzioni.
Quale significato ha allora, secondo lei, listruzione nello Stato democratico?
E un diritto civile o essa è anche imposta della ragion di Stato, e comunque quale
significato riveste leducazione per il progresso?
Il mio atteggiamento riguardo il problema dellistruzione è stato sempre
determinato dalla mia fede nei diritti civili per tutti. Mi preme laccesso
allistruzione: ogni uomo e ogni donna deve aver la chance, lopportunità, di
sviluppare, nelle scuole e nelle università, i propri talenti, interessi e desideri. In
questo senso per me listruzione è un diritto civile.
Listruzione ha naturalmente anche una funzione nella formazione di uno spazio
pubblico democratico, ha naturalmente una funzione allorché si tratta di porre gli uomini
in condizioni di far uso dei propri diritti civili. Non sono mai stato convinto, come
altri, che con leducazione politica si possa giungere chissà dove: credo molto
è un tratto anglosassone in me al common sense, alla capacità di
fondo di ogni singolo uomo di formulare giudizi su questioni politiche importanti. Ma in
un mondo complicato, questa capacità esige, ad esempio, che si sia in grado di leggere un
giornale, e che lo si legga realmente, esige che si sia in grado di ascoltare e
comprendere notiziari; e qui è ancora una volta necessario un certo grado di
preparazione, di istruzione. Ma già dal modo in cui io dico questo si può dedurre che
per me listruzione non è un presupposto primario nel concetto di diritti civili,
nei concetti di organizzazione della vita umana, di organizzazione delle capacità e
opportunità di cui abbiamo bisogno nella vita.
Lei ha sintetizzato lidea di democrazia nella formula "progresso senza
violenza"; e cioè, se nella democrazia ha luogo il progresso, esso è idealmente un
progresso senza violenza; ma con ciò non è ancora detto che la democrazia garantisca il
progresso. In effetti, il nostro secolo ha visto una democrazia progredita ricadere
nel più terribile totalitarismo. E, per quel che riguarda il presente, Lei stesso ha
constatato una stagnazione, una crisi della democrazia, e ha sottolineato lurgente
necessità di inventare istituzioni nuove in confronto alla democrazia tradizionale ovvero
rappresentativa e parlamentare. Perché?
Certo, è giusto dire che la presenza di istituzioni democratiche non garantisce di per
sé il loro funzionamento. Non ha senso cioè produrre semplicemente costituzioni, o
imporle dallalto, fidandosi che vengano poi anche utilizzate. Si pensi
allAmerica latina: lAmerica latina è quasi un cimitero di costituzioni
spesso costituzioni democratiche che a un certo momento sono state introdotte e che
poi, dopo alcuni anni, sono state spazzate via dallesercito e da altri dittatori.
La democrazia, dunque, devessere radicata, devessere radicata nel confronto
vivente di gruppi sociali, nel riconoscimento delle istituzioni che fanno parte della
democrazia. Si può così in qualche modo comprendere, anche se non spiegare
compiutamente, il fatto che il nostro ventesimo secolo, almeno nella fase che alcuni hanno
definito come la seconda Guerra dei Trentanni, cioè nel periodo che va dal 1914 al
1945, ha vissuto una storia della democrazia così infausta. Certo, gli Stati Uniti, la
Gran Bretagna e un altro paio di paesi come Canada e Australia sono riusciti a
sopravvivere come paesi democratici; ma il numero dei paesi democratici che sono
sopravvissuti è stato molto ridotto. Al loro interno si sono svegliate forze che non
volevano vivere e non potevano vivere in questi rapporti democratici; al loro interno si
sono sviluppati processi che hanno portato ad esempio al totalitarismo.
Credo che in un paese sussista sempre il pericolo del totalitarismo. Il totalitarismo,
e cioè la mobilitazione totale ad opera di un Capo, di unideologia, di un partito
unico, è un processo che distrugge i suoi stessi presupposti, un processo dunque, alla
cui fine non sono più date le condizioni che lavevano messo in moto. Questo però
non significa che non ci siano altri pericoli per la democrazia; e fra questi altri
pericoli io inserisco quello peraltro già individuato da Max Weber, e cioè la
possibilità che, in un clima di mediocrità, in un clima in cui più nessuno assume
liniziativa, le istituzioni che in sé rendono possibile il mutamento, finiscano
esse stesse per impedire il mutamento. Tutto rimane fermo, comera prima. Questo è
in modo particolare il caso di quelle moderne democrazie in cui è presente un forte
elemento burocratico, un ceto burocratico, un gruppo burocratico, sul quale non riescono
ad influire né gli interessi della popolazione, né le iniziative dei dirigenti eletti.
Democrazia e burocrazia costituiscono forse il più grave problema politico nei paesi
dellOcse del ventesimo secolo, nei paesi sviluppati, nelle democrazie sviluppate.
Gli interessi e le iniziative vengono respinti da un muro di gomma, non interviene alcun
mutamento; così la rivendicazione di una maggiore attenzione per le questioni ambientali,
o la rivendicazione di una maggiore attenzione per i diritti della donna, ovvero altri
interessi che vengono dal basso, tutto ciò si scontra col muro di gomma della burocrazia,
così come con esso si scontra il tentativo dei gruppi dirigenti di introdurre, ad esempio
nelleconomia, maggiore iniziativa, riforme fiscali ecc. In tal modo il processo di
mutamento si rallenta fino al punto che si accumulano energie conflittuali, cosicché alla
fine sono le stesse istituzioni democratiche a cadere in pericolo. Tutto ciò lo dico in
termini assolutamente generali; a tale proposito, i diversi paesi si differenziano tra
loro in modo considerevole, e si può persino dire che se ci guardiamo attorno nel
mondo ci sono istituzioni che reagiscono meglio a tali mutamenti ed altre che
reagiscono peggio.
A reagire meglio è ad esempio il sistema britannico, data la peculiare combinazione
del suo diritto elettorale con i poteri del Primo Ministro e la sovranità del parlamento;
ciò vale in qualche modo anche per il sistema americano, col ruolo del presidente e la
dialettica tra presidente e Congresso. A reagire peggio è, comprensibilmente la
Repubblica Federale di Germania in cui sono presenti troppi controlli e barriere: non solo
le due Camere e i governi di coalizione, ma anche la costante minaccia del ricorso alla
giustizia, ai tribunali, la minaccia della messa in discussione delle decisioni politiche
nei tribunali. Alla fine ben poco si muove. Ci sono dunque differenze, importanti
differenze, ma resta in fondo questo grosso problema: in che modo in un mondo
burocratizzato, possiamo suscitare un mutamento senza violenza.
Lei ha parlato dellaccumularsi di interessi ed iniziative e al tempo stesso ha
differenziato positivamente il sistema britannico rispetto a quello continentale. Ma non
sussiste il pericolo che nel sistema britannico le iniziative dal basso abbiano ben poche
chances?
E vero che il sistema britannico corre il pericolo di diventare quello che una
volta un Lord cancelliere, Lord Healsham, ha definito "elective dictatorship"
cioè una dittatura elettiva, una dittatura che si caratterizza per il fatto che i
rappresentanti eletti non hanno molto da preoccuparsi, una volta che essi dispongano di
una maggioranza nella Camera bassa, anche se poi questa maggioranza nella Camera bassa e
in realtà una minoranza elettorale nel paese.
E giusto comunque dire che nel sistema britannico è insito il pericolo di
sviluppi dittatoriali, e bisogna pertanto riflettere se non siano necessarie certe
contromisure. Per questo è in atto in Gran Bretagna una vivace discussione sui mutamenti
costituzionali, soprattutto riguardo due questioni. In primo luogo il diritto elettorale,
e cioè la questione, se non ci debba essere la garanzia che dietro i rappresentanti
eletti, almeno nel momento delle elezioni, ci sia il 50% degli elettori. In secondo luogo
è in atto una discussione circa la istituzionalizzazione di certi diritti fondamentali, e
dunque circa la possibilità di mettere in discussione in ambito giuridico determinate
decisioni politiche. Ci sono buoni ragioni per spiegare queste caratteristiche del sistema
britannico; resta comunque il fatto che il sistema americano è più sensibile a ciò che
proviene dal basso.
Per padroneggiare problemi globali, per esempio quelli ecologici, che esigono misure
rapide e impopolari, possiamo permetterci di prestare attenzione prevalentemente al
carattere democratico del processo decisionale? Lei ha identificato la democrazia con il
conflitto regolato mediante leggi: in quelle democrazie in cui il problema delle chances
di vita comincia ormai a configurarsi come il problema di sopravvivenza, una tale
regolamentazione sembra doversi muovere nella direzione di Hobbes, nella direzione cioè
di una crescente irregimentazione della società. Oppure lei vede la possibilità di un
rinnovamento del liberalismo tale che esso possa offrire unalternativa a tale
irregimentazione ?
Se dovesse essere vero che lumanità in quanto umanità è dinanzi al problema
della sua sopravvivenza, allora si pongono in effetti problemi del tutto nuovi che non è
possibile risolvere con i vecchi metodi. Emerge una questione che io voglio formulare con
estrema crudezza. Ma voglio sottolineare ancora una volta: solo se dovesse essere vero che
ci troviamo dinanzi a problemi di sopravvivenza in seguito ad una minaccia nucleare
(proliferazione delle armi nucleari, ovvero catastrofi che possono verificarsi in altro
modo, come ad esempio a Chernobyl), o in seguito ad un mutamento di clima (qualunque ne
sia la causa), o in seguito agli sviluppi della biologia (in particolare le mutazioni
genetiche); soltanto in questo caso, se dovesse essere vero che si sono accumulate minacce
contro lumanità tali da mettere in questione la sua stessa sopravvivenza, allora in
effetti non servirebbero a nulla i vecchi principi formali delle istituzioni democratiche.
Ma in tal caso emergono anche questioni che, purtroppo, non sono mai state formulate con
la necessaria crudezza: ad esempio la questione e qualcuno resterà stupito da
quello che io sto ora per dire la questione se preferiamo soccombere nella libertà
o piuttosto risolvere i problemi ambientali nella illibertà.
Non facciamoci illusioni: la soluzione dei grandi problemi dellambiente se
essi sono veramente così seri, come talvolta appare esige ad esempio che noi
provvediamo a far sì che non si sviluppi più alcun paese in via di sviluppo, esige che
noi impediamo lo sviluppo piuttosto che promuoverlo. Al tempo stesso dovremmo provvedere a
che il consumo di energia, negli Stati Uniti e in Europa, venga, diciamo così, dimezzato
o ridotto ancora più drasticamente. Tutto ciò non si può ottenere con metodi
democratici. Siamo così posti dinanzi a alternative così radicali che preferiamo
indietreggiare. Tali alternative, sul piano pratico, forse non si porranno mai in questa
forma, e tuttavia bisogna discutere insieme. Né si può fare affidamento sulla buona
volontà di tutti che a un certo punto dovrebbe emergere. Tali questioni non sono così
semplici, esse vanno al di là dellorizzonte delle analisi di democrazia e
liberalismo.
Allinizio, lei ha sottolineato il se: vede Lei profilarsi situazioni che
impongono tali decisioni?
Esattamente come molti altri, non ho certezze in proposito. Ci sono coloro che
estrapolano volentieri un materiale scientifico limitato e di parte e poi dicono: è già
troppo tardi, non possiamo farci più nulla. Così, ad esempio, Denis Meadows,
lautore del primo rapporto al Club di Roma nel 1972: egli sembra essere
dellopinione secondo cui i limiti dello sviluppo sono per così dire già stati
superati, sicché la catastrofe procede inesorabilmente nel suo corso.
Io ho una fiducia piuttosto forte nella capacità dadattamento delluomo e
della natura, e non sono sicuro che siamo già a questo punto: dobbiamo affidarci agli
scienziati, e ciò comporta degli inconvenienti, dato che la scienza è unattività
problematica e negli scienziati gli errori sono altrettanto frequenti delle previsioni
esatte. Dobbiamo poi attendere le prime esperienze, e in questo caso le prime esperienze
potrebbero intervenire troppo tardi perché si possa fare qualcosa. Questa è una
situazione qualitativamente diversa. Lumanità ha sempre reagito solo quando ha già
sperimentato danni, sia pure solo limitati, siano questi danni conseguenze sociali
dellindustrializzazione, siano invece conseguenze ambientali di carattere limitato.
Ma, in questo caso, potrebbe darsi che il momento in cui siamo pronti a reagire si
verifichi già troppo tardi, e cioè cinque minuti prima dellora X. Non lo so. Devo
soltanto dire che a tale proposito non ho saggezze particolari da trasmettere, posso solo
formulare nella sua crudezza il problema dinanzi al quale ci si trova in quanto liberali o
democratici.
Ma, questo non sapere non è già di per sé sufficientemente allarmante e non esige
già, ad esempio una più stretta cooperazione internazionale?
Il non sapere non è mai allarmante, esso rappresenta uno stimolo alla conoscenza. Di
per sé, il non sapere non mi darebbe fastidio; e non credo neppure che si ottenga una
risposta migliore ascoltando 2000 piuttosto che 20 scienziati: in ultima analisi gli
scienziati hanno spirito gregario, tutti corrono nella medesima direzione, tra di loro
cè solo un paio di eccentrici. No, cè qui bisogno di esperienze più
concrete, di esperienze devo qui ripeterlo ancora una volta più
direttamente visibili, come quella verificatasi a Chernobyl. Se gli allevatori di renne in
Lapponia perdono il loro sostentamento per il fatto che si è verificato un incidente in
una centrale nucleare in Ucraina, allora si stabiliscono dei rapporti che certo erano
stati già in precedenza affermati da scienziati, senza però dispiegare alcuna efficacia,
senza condurre allazione. Non la cooperazione di 20.000 scienziati, ma una
catastrofe, sia pur limitata deve verificarsi perché si passi allazione: credo che
non ci sia un modo per evitare ciò.
In altra occasione lei ha definito la società come rinuncia alla libertà: per un
liberale, limpegno sociale, la solidarietà (di cui oggi molto si parla e che lei
stesso ha interpretato come un aumento delle chances di vita) è sempre solo un mezzo per
un fine in ultima analisi individualistico, oppure in questa solidarietà si può
riconoscere un compimento della libertà?
Le chances di vita - e di queste soprattutto si tratta nella società umana -collegano
tra di loro molteplici cose. Le chances di vita esigono la presenza di possibilità di
scelta: non ci può essere un solo partito, non ci può essere un solo giornale, e neppure
ci può essere un solo detersivo; le possibilità di scelta si riferiscono cioè ad una
molteplicità di cose.
Le chances di vita esigono determinati diritti fondamentali (ognuno deve aver accesso a
queste possibilità di scelta). Le chances di vita esigono dunque diritti civili. Ma le
chances della vita esigono anche che tali possibilità di scelta e tali diritti
fondamentali si inseriscano in un contesto di legami - Ligaturen, come io li ho definiti -
dunque in un contesto di profonde appartenenze, senza le quali ogni cosa perde il suo
senso, senza le quali anche le decisioni sono prive di un sistema di coordinate, sicché
diviene del tutto indifferente se uno fa questo o quello, se le cose vanno in un modo o
nellaltro. In tal senso le chances di vita sono una cosa molto complessa che implica
al tempo stesso legami e possibilità di scelta
Dire, come faccio io, che le chances di vita sono un contenuto desiderabile
dellagire pubblico, significa dire che esse hanno un senso in sé stesse e ciò vale
anche per il contenuto unificante delle chances di vita. Ma definendo in tal modo le
chances di vita, esse rimangono per me, in ultima analisi, pur sempre individuali: io sono
un illuminista inguaribile, il mio eroe nella storia del pensiero è Immanuel Kant e,
sulla scia di Kant, cerco chances individuali di vita, e non mi appagherei mai di una
cosiddetta "collettività felice".
Una volta lei ha parlato dello scontro tra due modi di pensare, quello del kantiano e
quello dellhegeliano: potrebbe spiegare meglio questo punto?
In campo gnoseologico, la differenza fondamentale fra Kant e Hegel, o tra kantiani e
hegeliani, è che i kantiani possono vivere con lincertezza. Essi partono dal
presupposto che ogni volta che cerchiamo di vedere, di conoscere, si tratta per
lappunto di un tentativo: ci devono dunque essere istituzioni, che rendano possibile
la correzione di questo tentativo; lerrore è parte integrante della nostra vita e
lerrore deve poter essere corretto. Ciò peraltro è in connessione col concetto di
democrazia come "mutamento senza violenza"; allo stesso modo, anche
nellambito della conoscenza, della scienza, lerrore deve poter essere
corretto.
Per Hegel, almeno in determinate situazioni storiche, e forse per determinate persone
singole cioè per lui stesso , il corso della storia può essere abbracciato
con lo sguardo: cè dunque un processo che si può descrivere dettagliatamente,
così come Hegel ha fatto nellultima parte della sua "Filosofia del
diritto". Anche successivamente, gli hegeliani, persino coloro che hanno spostato nel
futuro il compimento della storia da Hegel collocato nel presente, sono tuttavia pur
sempre partiti dal presupposto che cè uninterna necessità del processo
storico, che è possibile conoscere e alla quale ci si deve attenere, o nella quale si è
immersi, nella quale tutti sono immersi. Si tratta di una certezza rifiutata per principio
dai kantiani e che, una volta tradotta in pratica, conduce sempre e necessariamente al
dogmatismo e, in campo politico, allautoritarismo ovvero, nel caso peggiore, al
totalitarismo.
Cè qui una differenza di fondo di carattere più pratico, la differenza di fondo
della filosofia pratica, sia per quel che riguarda letica che la teoria politica.
Per i kantiani lantagonismo è una forza produttiva. Kant ha espresso ciò in un
modo molto plastico nel suo piccolo scritto "Idea di una storia universale dal punto
di vista cosmopolitico". Qui egli dice: gli uomini vorrebbero molto volentieri
larmonia, ma la natura sa meglio di loro ciò che è bene per gli uomini, essa vuole
la discordia, non la concordia; lantagonismo, infatti, promuove lo sviluppo
delluomo, fa progredire luomo, impedisce quella falsa concordia che alla fine
conduce solo ad una vita pastorale arcadica, se non proprio ad una vita di pecore,
custodite dal pastore, una vita in cui dunque non avviene nulla di sensato e nulla di
produttivo.
Al contrario, Hegel e gli hegeliani non riescono, in ultima analisi, a sopportare
lantagonismo; essi sono sempre alla ricerca di un terzo elemento, alla ricerca della
sintesi; anche se, nel corso del processo storico, a lungo andare, la sintesi costituisce
solo il punto di partenza di un nuovo processo dialettico, in qualche modo agisce in ogni
hegeliano il sogno di uno stadio finale in cui più nulla si muova. Lincubo dei
kantiani è il sogno degli hegeliani, e ciò comporta molteplici conseguenze spiacevoli
nellambito della filosofia pratica. Questa è una differenza di fondo, radicale, di
grande portata, e Popper direbbe che la Germania (e forse larga parte dellEuropa
centrale) ha sempre sofferto per il fatto di aver preferito la via di Hegel, mentre i
paesi anglosassoni sono rimasti sulla via di Kant. Forse, per quanto riguarda le
differenze nazionali, la cosa non è così semplice, ma in ogni caso io mi sento
decisamente dalla parte kantiana di questa dicotomia.
Rawls si è pronunciato per il primato della libertà rispetto alluguaglianza, a
condizione però che venga presupposto un reddito minimo per i cittadini. La presa di
posizione a favore del liberalismo esclude dunque di per sé il Terzo mondo?
No, la presa di posizione a favore del liberalismo non può escludere il Terzo mondo;
rientra nel liberalismo, anzi ne costituisce il presupposto fondamentale, il fatto che
ognuno devessere in condizione di partecipare al processo sociale, economico e
politico. Ciò esige un livello base di diritti civili di "Anrechte" come
io li definisco che sono di natura sia giuridica che economica e politica, e fra i
quali rientra dunque anche un certo tenore di vita. Il fatto che abbiamo cominciato a
realizzare questo livello base dei diritti civili nei paesi sviluppati (ancora in modo
incompleto e tuttavia con considerevoli successi) non ci deve far dimenticare che i
diritti civili rimangono del tutto incompleti fino a quando non siano diventati diritti
civili a livello mondiale.
Linquietudine che il liberale deve nutrire dinanzi alla mancanza di diritti
civili in gran parte del mondo è uno dei presupposti di fondo dellazione liberale e
del pensiero liberale; è dunque sempre motivo di insoddisfazione, e lo sarà ancora per
molto tempo il fatto che i diritti civili siano realizzati solo nei paesi ricchi.
Qualche tempo fa, in contemporanea con la celebrazione del bicentenario della
Rivoluzione francese, ha avuto luogo lincontro al vertice dei paesi più ricchi e un
contro vertice dei paesi più poveri. Quale dei tre concetti chiave della Rivoluzione
francese (Libertà, uguaglianza, fraternità) Le sembra oggi il più attuale? Secondo lei,
partendo dal presupposto che la ricchezza comporti degli obblighi, quali obblighi derivano
allEuropa unita nei confronti del Terzo Mondo?
Ho sempre considerato la fraternità come un affare privato, e dunque non rientro tra
coloro che fanno della fraternità o solidarietà un presupposto di fondo dellazione
politica. La mia concezione della necessità di legami non può essere fraintesa come la
rivendicazione di un pensiero della fraternità o della comunicazione, alla maniera di
Rousseau o anche di Habermas, rivendicazione che io ritengo errata. Si tratta anche in
questo caso della libertà e delluguaglianza nel loro legame reciproco, e il legame
peculiare che sussiste fra libertà e uguaglianza risiede nel fatto che la libertà ha
senso solo quando ci siano uguali chances iniziali per tutti, solo cioè quando cè
uguaglianza di diritti civili: non il medesimo status, non la medesima condizione di vita,
non il medesimo reddito, ma un medesimo livello-base, una piattaforma comune a tutti.
Questo è un presupposto di fondo di società libere in un mondo sviluppato; peraltro,
fortunatamente, ciò è, in larga misura, una condizione daccesso alla Comunità
europea credo e spero che la Comunità non avrà mai un membro che violi questi
presupposti di fondo. La Carta sociale discussa in occasione del vertice, e che anche in
futuro verrà discussa, è in rapporto con questi diritti fondamentali, e costituisce un
elemento fondamentale.
La Comunità europea ha fatto qualcosa per i paesi del Terzo mondo a lei vicini,
dunque, ha fatto qualcosa soprattutto per le ex-colonie francesi, inglesi e belghe, per i
paesi francofoni e anglofoni del Terzo mondo. Certo, essa non ha fatto a sufficienza, ma
qualcosa ha pur fatto, e qui risiede - ritengo -uno dei grandi compiti, ma non voglio
indulgere alle belle parole, non mi faccio alcuna illusione circa la disponibilità
dellEuropa o dei paesi dellOcse a far qualche sacrificio per il Terzo mondo:
se pure questa disponibilità esiste, essa è minima.
Secondo il suo modo di vedere è compito anche dei sociologi contribuire a che il
razionale diventi reale: in altre parole, passare dallanalisi alliniziativa
concreta. Dunque la sociologia implica la teoria politica e anche la prassi politica?
Mi si chiede se la sociologia implica la prassi politica. La mia risposta è
decisamente negativa: è unillusione credere che ci possa essere una collaborazione
senza problemi e persino armonica tra scienza e prassi. Questa è una frase vuota degli
hegeliani, di regola utilizzata da coloro che non hanno alcuna idea della prassi. Scienza
e prassi obbediscono a priorità diverse, fanno riferimento a orizzonti temporali diversi:
in linea di principio, la ricerca scientifica è sempre temporalmente illimitata, non si
sa se la risposta a un problema scientifico riusciamo a trovarla questa sera, tra un anno,
tra dieci anni o mai.
La prassi, la prassi politica o economica, o la prassi vitale in generale, è sempre
legata ad orizzonti temporali che non è possibile scegliere autonomamente: bisogna
prendere decisione, se improvvisamente la moglie si ammala, i genitori muoiono, o comunque
avviene qualcosa nellambito della nostra vita; e bisogna prendere una decisione,
allorché si tratta di combattere una battaglia elettorale o di rendere noto un dividendo
ai propri azionisti. In tal caso i tempi sono fissati dallesterno, e non cè
il tempo necessario per la ricerca scientifica, dato che devono essere prese decisioni.
Ciò conduce a un modo di vedere completamente diverso. Sono daccordo senza riserve
con le distinzioni tracciate da Max Weber, nei suoi due grandi discorsi sulla Scienza come
professione e la Politica come professione; si tratta di due mondi diversi.
Ma se la domanda non dovesse suonare: è possibile unificare scienza e prassi politica?
, bensì: deve lo scienziato essere attivo anche sul piano pratico e luomo pratico
essere al tempo stesso scienziato?, in tal caso darei una risposta un po diversa da
quella di Weber, anche se Weber, nella prassi della sua vita, ha dato una risposta
perfettamente identica a quella che io sto per dare.
Ritengo senzaltro possibile, realizzabile e persino desiderabile, che ci siano
uomini i quali, nel corso della loro vita, in tempi diversi, siano attivi talora in un
campo, talora nellaltro. Ritengo dunque del tutto sensato che una persona, già
attiva, nella scienza, si dia alla prassi per poi tornare alla scienza. Non è facile dire
in che modo luna agisca fruttuosamente sullaltra, bisogna qui guardarsi da
formulazioni semplicistiche. In ogni caso, si tratta di una possibilità di vita
interessante, importante. Come potrei esprimermi diversamente, io che ho vissuto
conformemente a questa massima? Farei ancora un piccolo passo in avanti e direi: ci sono
anche coloro che, ai giorni nostri, cercano in una certa misura di mantenersi, per così
dire a cavallo dei due mondi, occupandosi un po delluno, un po
dellaltro. Questo è soprattutto il caso della consulenza in campo politico, di
quella scienza dunque che è strettamente legata alla prassi: si tratta di un ambito
problematico, ma non del tutto privo di importanza, che ha sviluppato una propria forza e
ha raggiunto un notevole peso. Nella sostanza però mi tengo fermo alla tesi che a me, in
quanto kantiano, popperiano, weberiano, appare molto importante, la tesi per cui teoria e
prassi sono due mondi diversi che è possibile unificare soltanto mediante frasi vuote.
Lei ha parlato dei problemi della moderna democrazia; soprattutto negli ultimi tempi,
sono venuti apertamente alla luce i problemi del comunismo. Cè un nuovo modello
ideale che gli scienziati e i politici devono tenere presente?
Alla fine degli anni ottanta diventa chiaro che il comunismo ha costituito solo un
episodio storico. Un episodio storico che è iniziato in Unione Sovietica (si tratta pur
sempre di una teoria applicabile ai paesi in via di sviluppo e non ai paesi sviluppati) e
si è poi estesa ai nuovi paesi del Terzo Mondo. Risulta ora chiaro che questa teoria non
appaga i bisogni degli uomini né sul piano economico, né su quello politico. Il
comunismo si è impantanato in un burocratismo della Nomenklatura che non riesce a dar da
mangiare alluomo, né gli consente di esprimere la propria opinione e di sfruttare
le nuove possibilità della vita moderna. In tal modo il comunismo è semplicemente finito
in un vicolo cieco
Ai paesi in via di sviluppo riesce un po più facile rinunciare alladesione
a parole al comunismo da essi in un primo momento espressa; sempre più numerosi sono i
paesi che cancellano dizioni come "Repubblica popolare socialista" dalla
denominazione ufficiale del loro paese, per percorrere vie nuove. Ciò vale persino per i
grandi paesi modello del comunismo o del socialismo africano, come la Tanzania; ciò vale
per la Birmania, per la Cambogia e per tutta una serie di paesi in via di sviluppo. Adesso
persino i paesi originari del comunismo, persino la grande madre-patria del comunismo,
hanno scoperto che con esso non si va avanti, e lUnione Sovietica cerca di trovare
una sua via propria.
Si pone allora la questione: a cosa conduce tutto ciò? A tale proposito credo che
bisogna guardarsi da un falso ottimismo. Ci sono almeno due alternative. La prima
alternativa è economia di mercato più democrazia; dico questo in modo brutale, ci sono
forse varianti, anche nei grandi paesi democratici leconomia di mercato non è
dappertutto la medesima il Giappone ha certo una struttura economica completamente
diversa da quella della Gran Bretagna, ecc., ecc. Comunque, in sostanza lopzione
economica di mercato più democrazia è molto più dolorosa di quanto comunemente si
creda. Le istituzioni democratiche non creano benessere automaticamente, i cittadini
cominciano allora a chiedersi: "Che cosa ricaviamo noi dalla nostra glasnost e dalla
nostra perestroika? Nei nostri negozi non si trova nulla".
Emerge dunque un problema complesso. E possibile che venga seguita una seconda
alternativa, unalternativa molto meno piacevole, nellambito della quale vecchi
movimenti (come lantisemitismo, come la nostalgia per rapporti di vita etnicamente
omogenei, nellambito dei quali non è necessario vivere con gente di religione o
origine diversa) si collegano con nuove tendenze del fondamentalismo. Una miscela
estremamente spiacevole, una miscela che secondo me ha chances almeno altrettanto elevate
di quanto ne abbia lordinamento basato sulla democrazia e sulleconomia di
mercato. Questa è lalternativa dinanzi alla quale si trovano i paesi comunisti:
lalternativa è ancora del tutto aperta.
Oggi si parla molto di post-moderno e non mancano le correnti irrazionalistiche alla
moda: in che modo giudica la consistenza teoretica e le conseguenze pratiche
dellostilità nei confronti della scienza?
Post-moderno non è un concetto che rientri nel mio vocabolario. Sono un uomo del mondo
moderno, sostengo le ragioni della modernità e non vedo motivo alcuno per discostarmi da
ciò.
In tutto il corso della sua storia, la modernità è sempre stata attaccata: alla fine
del diciannovesimo secolo cè stata una lunga fase caratterizzata dalla critica
della civiltà e dallostilità nei confronti della tecnica e dellindustria;
nel ventesimo secolo cè stato il periodo terribile della rivolta fascista contro le
possibilità del mondo moderno; e di nuovo oggi cè una serie di tendenze che si
oppongono alle possibilità del moderno. Queste tendenze sono in parte antimoderne in
senso romantico è il caso dei Verdi in parte costituiscono una miscela di
integralismo di questo o quel tipo, di nazionalismo e altre forme di rifiuto del mondo
moderno, un mondo certo complesso, eterogeneo, ma ricco di chances di vita. Contro tutto
ciò bisogna lottare; si tratta di tendenze che, come ho già detto, si sono sempre
manifestate, e che oggi di nuovo si manifestano, tendenze contro le quali noi che ci
schieriamo a favore del moderno, siamo chiamati a formulare chiaramente le nostre
posizioni.
Cosa pensa Lei, in quanto liberale, delle idee russoiane di democrazia diretta che
spesso si collegano con lostilità nei confronti della scienza e della tecnica?
Sono tra coloro che in Rousseau vedono piuttosto un precursore del pensiero totalitario
che un precursore del pensiero democratico: tuttavia non dimentico il ruolo pratico svolto
da Rousseau sia in Francia che negli Stati Uniti e non dimentico neppure che in Rousseau
ci sono temi che possono essere interpretati in modo diverso.
Cè un passo molto interessante della Filosofia del diritto di Hegel, in cui egli
si misura con il concetto di volontà generale. In questo passaggio Kant viene accusato di
esser rimasto del tutto fermo al livello della società civile e di intendere la volontà
generale al massimo come volontà della maggioranza, o come qualcosa che conta su un
consenso sufficiente per potersi affermare. Rousseau viene da Hegel valutato più
positivamente per il fatto che almeno definisce la volontà generale come volontà di
tutti, ed esige che per lappunto tutti giungano ad una comune conclusione, magari
nell'ambito di un discorso sottratto al dominio. Questo è per Hegel già molto bello,
anche se ancora piuttosto meccanico, dato che tutti vengono presi in considerazione e
messi in conto. Hegel però va oltre e pensa la volontà generale, per così dire, come la
figura concreta dello spirito del mondo esprimentesi nella forza di persuasione di uno
Stato che appaga tutti i desideri di Hegel medesimo, anche se non appaga quello dei liberi
cittadini. Rousseau occupa dunque qui una posizione mediana: sì, mi sembra del tutto
adeguato definire in tal modo la sua collocazione.
Ritengo che questa sottolineatura dellaccordo di tutti sia piuttosto un ostacolo
che un elemento positivo. Sono daltro canto dellopinione che il russoianesimo
latente del movimento studentesco e di altri movimenti che sono scaturiti dal 68,
ritengo che il desiderio di giungere ad una soluzione mediante una discussione permanente
e generalizzata di tutti con tutti, ritengo che tale atteggiamento sia corresponsabile
della sonnolenza e dellimmobilismo della democrazia negli anni 80 e alla fine
degli anni 80, corresponsabile quindi del mancato mutamento. La visione di Rousseau
conduce alla discussione permanente, non al progresso, e pertanto rientra - secondo me -
nellaspetto discutibile e negativo dello sviluppo della teoria politica.
A partire degli anni 70, la concezione unidimensionale del progresso e dello
sviluppo si è sempre più rivelata un boomerang: credo bisogna ammettere che la
razionalità strumentale di tipo tecnico-scientifico-economico ha raggiunto i suoi limiti.
Lei ritiene possibile venire incontro sul piano razionale al crescente interesse etico e
al crescente bisogno di orientamento? E possibile cioè sviluppare una razionalità
di valori che risponda non alla domanda: cosa possiamo fare, bensì alla domanda cosa
dobbiamo fare di quel che è possibile fare? E possibile sviluppare una razionalità
di valori che risponda a questultima domanda con argomenti, e non con semplici
opinioni e professioni di fede?
La filosofia pratica costituisce ovviamente un elemento importante del processo del
discorso pubblico; e certo era del tutto errato il tentativo di soffocare la filosofia
pratica in un piatto positivismo. Non ho mai avuto indulgenze per il piatto positivismo.
Il principio dellincertezza, e cioè la consapevolezza che non conosciamo tutte le
risposte e, persino quando le conosciamo, non possiamo essere sicuri che esse siano
corrette, questo elemento di incertezza è per me il punto di partenza sia della teoria
della scienza che della filosofia pratica e della teoria politica. Penso che, partendo da
ciò, possiamo giungere ad ulteriori risultati che ci possono essere daiuto
allorché parliamo degli effetti collaterali, degli effetti negativi dello sviluppo
tecnico ed economico. E cioè, quando parlo di democrazia, faccio sempre riferimento al
tempo stesso alle riforme strategiche.
Non si tratta dunque di tradurre, per così dire, in pratica un programma che è stato
prima sviluppato sul piano scientifico. Le scoperte delle contraddizioni della modernità
che abbiamo fatto negli ultimi 15 anni, forse a partire dal 1973, sono importanti e
conducono senza dubbio a mutamenti nel nostro comportamento tramite una preliminare
discussione pubblica. Cè dunque un atteggiamento kantiano che non si trova in alcun
modo in difficoltà dinanzi alla necessità di una filosofia pratica, sia politica che
morale.
Riesce relativamente facile comprendere il fatto che molte cose nel mondo rispondono a
leggi irrazionali: ma quali sono, secondo lei, queste forze irrazionali e da dove
derivano?
Io non opero una distinzione tra razionale e irrazionale nel senso che talvolta
traspare in formulazioni semplicistiche; non credo neppure che ci siano leggi irrazionali.
Piuttosto mi sembra interessante vedere se riescono ad imporsi forze come il
fondamentalismo, come leccessiva semplificazione, la ricerca di un ambiente sociale
omogeneo, forze dunque, in cui manca la disponibilità a vivere nella complessità, manca
la disponibilità a vivere con leterogeneità sociale e culturale. Questo mi sembra
il problema. Razionale e irrazionale non sono categorie cui io faccio ricorso.
Lequilibrio del terrore sembra oggi cedere il posto ad una più intensa
cooperazione tra le superpotenze. Lei vede in ciò la possibilità della formazione di una
sorta di governo mondiale, indipendentemente dallONU?
Un governo mondiale, una società civile mondiale, regole che valgano al livello
mondiale, un autentico diritto internazionale, sono tutti fini che, per utopici che
possano talvolta apparire, a un liberale stanno a cuore, devono stare a cuore. Facciamo
ancora una volta riferimento a Kant: Lidea di una storia universale dal punto di
vista cosmopolitico e anche il piccolo scritto "Per la pace perpetua
"scaturiscono direttamente dalla visione filosofica di fondo di Kant.
Condivido in pieno lopinione, secondo cui non possiamo esser paghi fin quando non
avremo trovato regole che valgano a livello mondiale. Per queste regole ci sono per ora
scarsi elementi. Cè stato nel dopoguerra - e qui ci vorrebbe un commento- una fase
in cui sono state create istituzioni mondiali che per un periodo di tempo relativamente
lungo hanno funzionato relativamente bene. Le Nazioni Unite delle origini, il sistema
monetario internazionale a partire da Bretton-Woods, il sistema commerciale internazionale
fondato sul GATT, una serie di organismi dellONU, hanno gettato le basi di una
collaborazione internazionale, almeno per un certo periodo di tempo. Tutto ciò è andato
in frantumi negli anni 70, e non cè il minimo indizio che possa essere
riedificato alla fine degli anni 80.
Se si rivolge lo sguardo agli anni del dopoguerra e ci si chiede perché allora tutto
ciò ha funzionato, si giunge ad una conclusione piuttosto inquietante; si giunge cioè
alla conclusione che in quegli anni tutto ciò ha funzionato, per il fatto che questo
primo ordinamento mondiale era una sorta di pax americana, instaurata dallAmerica.
Senza il dollaro come moneta-guida non ci sarebbe stato il sistema monetario; senza gli
Stati Uniti come potenza economica non ci sarebbe stato il GATT (il primo importante
GATT-round è stato non a caso il Kennedy-round); senza gli Stati Uniti come potenza
garante non ci sarebbero state le Nazioni Unite delle origini. Ma questo significa che
unaltra grande potenza, e cioè lUnione Sovietica, in ultima analisi, non
faceva parte di tale ordinamento mondiale. In effetti, causa della guerra fredda è stata
la convinzione che lUnione Sovietica non voleva partecipare al sistema monetario
internazionale, al sistema commerciale internazionale; si trattava cioè di un ordinamento
mondiale limitato e di un ordinamento mondiale garantito da una grande potenza.
Simpone qui la difficile questione teoretica e pratica se è possibile un
ordinamento mondiale che scaturisca dal consenso volontario dei partecipanti o se invece
ogni ordinamento mondiale presuppone in qualche modo una forza dominante. E un
problema che ha a che fare con quello del rapporto Rousseau-Kant e con quello
dellorganizzazione interna della comunità politica. Per ora voglio lasciare senza
risposta tale problema, e tuttavia da esso voglio trarre la conseguenza che la fine della
guerra fredda non significa affatto che ci siano chiari indizi di un ordinamento mondiale.
Ci sono piuttosto indizi di una forte decentralizzazione, si direbbe quasi proliferazione,
delle posizioni di potere nel mondo, e tale proliferazione rende molti problemi di
difficile soluzione, così per esempio in Medio Oriente, o in Cambogia e Vietnam e in
altre parti del mondo. Per ora dunque lordinamento mondiale resta solo una speranza.