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Conversazione con Ralf Dahrendorf

Alberto Burgio


Questa intervista è tratta dall’Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, un’opera realizzata da Rai-educational in collaborazione con l’Istituto italiano per gli studi filosofici e con il patrocinio dell’Unesco, del Presidente della Repubblica Italiana, del Segretario Generale del Consiglio d’Europa.

L'obbiettivo è quello di diffondere nel mondo, tramite le nuove forme d’espressione e comunicazione sociale consentite oggi dalla tecnica, la conoscenza della filosofia nel suo svolgimento storico e nei termini vivi della cultura contemporanea.

Per ulteriori informazioni potete visitare il sito Internet: www.emsf.rai.it

Prof. Dahrendorf, spesso liberalismo viene inteso come sinonimo di democrazia. Potrebbe spiegarci la differenza fra questi due concetti?

Democrazia, così come la intendo io, è in primo luogo il mutamento senza rivoluzione, il mutamento senza spargimento di sangue. Si tratta dunque di un sistema costituzionale nell’ambito del quale è possibile tener conto dei mutamenti intervenuti negli interessi o nelle opinioni degli uomini, nonché dei mutamenti che intervengono nella comunità a partire da influssi esterni, senza che per questo si giunga a sconvolgimenti rapidi, tempestosi, violenti.

La democrazia è una componente della tradizione liberale, ma, in senso proprio, liberalismo è un concetto che fa riferimento dei contenuti e che non è, solo e necessariamente, collegato con democrazia. Liberalismo è Stato di diritto, libera impresa e diritti sociali fondamentali: si tratta dunque di elementi di contenuto, mentre la democrazia è piuttosto qualcosa di formale.

 

Sul versante opposto, in che modo si può definire il totalitarismo? E in che modo è possibile distinguerlo dall’autoritarismo? E fra quali forme di totalitarismo lei opererebbe una distinzione?

Naturalmente, ci sono concetti diversi per le diverse forme di vita associata. E non è di grande utilità cercare di imporre agli altri la propria privata terminologia. Tuttavia, per quanto mi riguarda, e collocandomi nel solco della tradizione, vorrei mettere in chiaro un punto: il governo autoritario ha a che fare con forme di società e di Stato pre-moderne, il governo autoritario riposa sul presupposto che chiamato a governare è un ceto tradizionale relativamente ristretto, un’aristocrazia, un’oligarchia, che, dando prova di una relativa buona volontà e senza disporre di un controllo totale, non attribuisce tuttavia alcun valore al fatto che un maggior numero di uomini possa partecipare al processo politico. Nell'ambito dunque del governo autoritario, un ceto dirigente si ritiene chiamato a governare una comunità secondo regole tradizionali.

Totalitarismo invece è una forma specificamente moderna, nell’ambito della quale un singolo Capo, con l’aiuto di un’ideologia, cerca di edificare il proprio regime mediante una mobilitazione totale della popolazione, mediante una mobilitazione organizzata della popolazione. Io faccio uso con molta cautela della categoria di totalitarismo. Così ad esempio, secondo me, l’Italia di Mussolini probabilmente non era totalitaria, ma rappresentava uno stadio intermedio tra autoritarismo e totalitarismo; anche per la Spagna di Franco si può dire che non era totalitaria; lo era invece la Germania di Hitler e l’Unione Sovietica di Stalin. Anche nel dopoguerra, in determinati paesi in via di sviluppo, ci sono stati fenomeni di totalitarismo (Pol Pot, Idi Amin). E dunque, abbiamo qui a che fare con un fenomeno di mobilitazione e pertanto di una forma specificamente moderna dell’ordinamento statale, mentre l’autoritarismo è, in senso proprio, una forma meno recente, che rinvia al diciannovesimo secolo.

 

Potrebbe chiarire ulteriormente cosa intende per forme di mobilitazione?

Il governo totalitario non riposa sul fatto che i singoli stiano tranquilli e zitti, com'è il caso, spesso, del regime autoritario. Il governo totalitario esige invece che i singoli si manifestino costantemente pronti ad appoggiare il Capo. Queste manifestazioni attive vengono organizzate, la gente è raccolta in organizzazioni di massa, in un grande partito, in organizzazioni collegate o vicine a questo partito unico. La gente deve continuamente partecipare a marce, deve costantemente esprimersi a favore di qualcosa, rilasciare dichiarazioni dalle quali risulta che essa appoggia il Capo, i dirigenti. Si tratta dunque di una mobilitazione volontaria, come quella che si verifica in occasione di un’elezione democratica; è una mobilitazione dall’alto, non una mobilitazione mediante partecipazione individuale.

 

Lei ha parlato una volta di democrazia senza libertà. Ma la democrazia dovrebbe definire l’ambito politico della libertà: potrebbe spiegarci cosa intende col concetto di "democrazia senza libertà"?

Democrazia è un concetto che viene inteso in modo diverso: io l’ho definita come "mutamento senza rivoluzione, senza violenza": si tratta di una definizione popperiana, o che comunque è molto vicina a quella di Popper. E’ una definizione che certo non è stata introdotta da Tocqueville nella storia del pensiero moderno. Per Tocqueville la democrazia era il dominio del popolo, la partecipazione dei molti, l’uguaglianza dei cittadini che partecipano al processo sociale e politico. E da questa tradizione tocquevilliana deriva l’idea che è possibile che la partecipazione dei molti restringa lo spazio di manovra del singolo, che la partecipazione dei molti produca quello che è stato definito, da John Stuart Mill ed altri, come la "tirannide della maggioranza", l’impossibilità per il singolo di essere a suo modo, data la forte pressione in direzione del conformismo, dell’assimilazione, dell’identità.

C’è qui un elemento per cui la "tirannide della maggioranza" (di cui parlano Tocqueville e Mill) può assumere forme totalitarie, mediante l’appello a 'Führer' totalitari. Non dimentichiamo che alcuni degli studiosi del totalitarismo degli anni ’30, ’40 e ’50 hanno fatto ricorso proprio a questo elemento per spiegare il nazionalsocialismo e anche lo stalinismo

Il totalitarismo appare allora come un fenomeno della società di massa: così ad esempio l’ha interpretato Hannah Arendt, e in una certa misura anche Franz Neumann, e prima già Theodor Geiger. Qui la democrazia, data la sua ineludibile pressione egualitaria, appare molto vicina a una forma di tirannide, la quale pertanto esclude la possibilità di un mutamento senza rivoluzione.

Con questa mia presa di posizione ho voluto rendere chiare le molteplici ambivalenze del concetto di democrazia : vorrei ancora una volta sottolineare che la mia visione della democrazia è di carattere politico-istituzionale; decisiva nella democrazia è per me la possibilità di mutamento di una comunità, e questa possibilità di mutamento deve rimanere aperta, senza violenza.

 

Tra i fenomeni che nella democrazia restringono la libertà, lei includerebbe anche, ad esempio, la pubblicità e i mass media? Si tratta di elementi della società odierna, della società democratica che comportano il pericolo di una restrizione della libertà?

Secondo la migliore definizione, la democrazia esige uno spazio pubblico che sia in condizioni di mediare interessi ed opinioni degli uomini col processo decisionale delle istituzioni politiche, o di mediarli nelle istituzioni politiche. Il caso ideale è rappresentato da uno spazio pubblico costituito da uomini liberi, da individui che però s’incontrano per l’appunto sulla piazza del mercato. Quello che è ancora usuale nelle assemblee elettorali dei cantoni svizzeri si avvicina molto a questo spazio pubblico ideale. In verità questo caso ideale non si è mai verificato per intero, e nelle grandi società è molto difficile che possa verificarsi. Il caso ideale viene sempre influenzato da altri fattori. Lo spazio pubblico, l’ideale spazio pubblico democratico, viene sempre falsificato, sia mediante la rappresentanza, sia anche mediante la manipolazione. E la manipolazione può avvenire in modi molto diversi

Nel diciannovesimo secolo e fino al nostro secolo, la manipolazione degli elettori avveniva spesso ad opera dei potenti del posto, i grandi proprietari terrieri, o proprietari di altro tipo, o comunque persone per questa o quella ragione potenti. Una forma di manipolazione oggi particolarmente attuale è senza dubbio quella che avviene mediante i mass media e i pochi proprietari dei mass media: dunque, la manipolazione dello spazio pubblico è sempre stato un pericolo, e lo è ancora oggi.

 

Lei si è dichiarato a favore di un’attiva politica dell’istruzione; in altra occasione ha però notato che bisognerebbe essere un cattivo sociologo per ritenere che il mondo si possa trasformare mediante l’educazione, senza trasformare le istituzioni. Quale significato ha allora, secondo lei, l’istruzione nello Stato democratico? E’ un diritto civile o essa è anche imposta della ragion di Stato, e comunque quale significato riveste l’educazione per il progresso?

Il mio atteggiamento riguardo il problema dell’istruzione è stato sempre determinato dalla mia fede nei diritti civili per tutti. Mi preme l’accesso all’istruzione: ogni uomo e ogni donna deve aver la chance, l’opportunità, di sviluppare, nelle scuole e nelle università, i propri talenti, interessi e desideri. In questo senso per me l’istruzione è un diritto civile.

L’istruzione ha naturalmente anche una funzione nella formazione di uno spazio pubblico democratico, ha naturalmente una funzione allorché si tratta di porre gli uomini in condizioni di far uso dei propri diritti civili. Non sono mai stato convinto, come altri, che con l’educazione politica si possa giungere chissà dove: credo molto — è un tratto anglosassone in me — al common sense, alla capacità di fondo di ogni singolo uomo di formulare giudizi su questioni politiche importanti. Ma in un mondo complicato, questa capacità esige, ad esempio, che si sia in grado di leggere un giornale, e che lo si legga realmente, esige che si sia in grado di ascoltare e comprendere notiziari; e qui è ancora una volta necessario un certo grado di preparazione, di istruzione. Ma già dal modo in cui io dico questo si può dedurre che per me l’istruzione non è un presupposto primario nel concetto di diritti civili, nei concetti di organizzazione della vita umana, di organizzazione delle capacità e opportunità di cui abbiamo bisogno nella vita.

 

Lei ha sintetizzato l’idea di democrazia nella formula "progresso senza violenza"; e cioè, se nella democrazia ha luogo il progresso, esso è idealmente un progresso senza violenza; ma con ciò non è ancora detto che la democrazia garantisca il progresso. In effetti, il nostro secolo ha visto una democrazia progredita ricadere nel più terribile totalitarismo. E, per quel che riguarda il presente, Lei stesso ha constatato una stagnazione, una crisi della democrazia, e ha sottolineato l’urgente necessità di inventare istituzioni nuove in confronto alla democrazia tradizionale ovvero rappresentativa e parlamentare. Perché?

Certo, è giusto dire che la presenza di istituzioni democratiche non garantisce di per sé il loro funzionamento. Non ha senso cioè produrre semplicemente costituzioni, o imporle dall’alto, fidandosi che vengano poi anche utilizzate. Si pensi all’America latina: l’America latina è quasi un cimitero di costituzioni — spesso costituzioni democratiche — che a un certo momento sono state introdotte e che poi, dopo alcuni anni, sono state spazzate via dall’esercito e da altri dittatori.

La democrazia, dunque, dev’essere radicata, dev’essere radicata nel confronto vivente di gruppi sociali, nel riconoscimento delle istituzioni che fanno parte della democrazia. Si può così in qualche modo comprendere, anche se non spiegare compiutamente, il fatto che il nostro ventesimo secolo, almeno nella fase che alcuni hanno definito come la seconda Guerra dei Trent’anni, cioè nel periodo che va dal 1914 al 1945, ha vissuto una storia della democrazia così infausta. Certo, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e un altro paio di paesi come Canada e Australia sono riusciti a sopravvivere come paesi democratici; ma il numero dei paesi democratici che sono sopravvissuti è stato molto ridotto. Al loro interno si sono svegliate forze che non volevano vivere e non potevano vivere in questi rapporti democratici; al loro interno si sono sviluppati processi che hanno portato ad esempio al totalitarismo.

Credo che in un paese sussista sempre il pericolo del totalitarismo. Il totalitarismo, e cioè la mobilitazione totale ad opera di un Capo, di un’ideologia, di un partito unico, è un processo che distrugge i suoi stessi presupposti, un processo dunque, alla cui fine non sono più date le condizioni che l’avevano messo in moto. Questo però non significa che non ci siano altri pericoli per la democrazia; e fra questi altri pericoli io inserisco quello peraltro già individuato da Max Weber, e cioè la possibilità che, in un clima di mediocrità, in un clima in cui più nessuno assume l’iniziativa, le istituzioni che in sé rendono possibile il mutamento, finiscano esse stesse per impedire il mutamento. Tutto rimane fermo, com’era prima. Questo è in modo particolare il caso di quelle moderne democrazie in cui è presente un forte elemento burocratico, un ceto burocratico, un gruppo burocratico, sul quale non riescono ad influire né gli interessi della popolazione, né le iniziative dei dirigenti eletti.

Democrazia e burocrazia costituiscono forse il più grave problema politico nei paesi dell’Ocse del ventesimo secolo, nei paesi sviluppati, nelle democrazie sviluppate. Gli interessi e le iniziative vengono respinti da un muro di gomma, non interviene alcun mutamento; così la rivendicazione di una maggiore attenzione per le questioni ambientali, o la rivendicazione di una maggiore attenzione per i diritti della donna, ovvero altri interessi che vengono dal basso, tutto ciò si scontra col muro di gomma della burocrazia, così come con esso si scontra il tentativo dei gruppi dirigenti di introdurre, ad esempio nell’economia, maggiore iniziativa, riforme fiscali ecc. In tal modo il processo di mutamento si rallenta fino al punto che si accumulano energie conflittuali, cosicché alla fine sono le stesse istituzioni democratiche a cadere in pericolo. Tutto ciò lo dico in termini assolutamente generali; a tale proposito, i diversi paesi si differenziano tra loro in modo considerevole, e si può persino dire che — se ci guardiamo attorno nel mondo — ci sono istituzioni che reagiscono meglio a tali mutamenti ed altre che reagiscono peggio.

A reagire meglio è ad esempio il sistema britannico, data la peculiare combinazione del suo diritto elettorale con i poteri del Primo Ministro e la sovranità del parlamento; ciò vale in qualche modo anche per il sistema americano, col ruolo del presidente e la dialettica tra presidente e Congresso. A reagire peggio è, comprensibilmente la Repubblica Federale di Germania in cui sono presenti troppi controlli e barriere: non solo le due Camere e i governi di coalizione, ma anche la costante minaccia del ricorso alla giustizia, ai tribunali, la minaccia della messa in discussione delle decisioni politiche nei tribunali. Alla fine ben poco si muove. Ci sono dunque differenze, importanti differenze, ma resta in fondo questo grosso problema: in che modo in un mondo burocratizzato, possiamo suscitare un mutamento senza violenza.

 

Lei ha parlato dell’accumularsi di interessi ed iniziative e al tempo stesso ha differenziato positivamente il sistema britannico rispetto a quello continentale. Ma non sussiste il pericolo che nel sistema britannico le iniziative dal basso abbiano ben poche chances?

E’ vero che il sistema britannico corre il pericolo di diventare quello che una volta un Lord cancelliere, Lord Healsham, ha definito "elective dictatorship" cioè una dittatura elettiva, una dittatura che si caratterizza per il fatto che i rappresentanti eletti non hanno molto da preoccuparsi, una volta che essi dispongano di una maggioranza nella Camera bassa, anche se poi questa maggioranza nella Camera bassa e in realtà una minoranza elettorale nel paese.

E’ giusto comunque dire che nel sistema britannico è insito il pericolo di sviluppi dittatoriali, e bisogna pertanto riflettere se non siano necessarie certe contromisure. Per questo è in atto in Gran Bretagna una vivace discussione sui mutamenti costituzionali, soprattutto riguardo due questioni. In primo luogo il diritto elettorale, e cioè la questione, se non ci debba essere la garanzia che dietro i rappresentanti eletti, almeno nel momento delle elezioni, ci sia il 50% degli elettori. In secondo luogo è in atto una discussione circa la istituzionalizzazione di certi diritti fondamentali, e dunque circa la possibilità di mettere in discussione in ambito giuridico determinate decisioni politiche. Ci sono buoni ragioni per spiegare queste caratteristiche del sistema britannico; resta comunque il fatto che il sistema americano è più sensibile a ciò che proviene dal basso.

 

Per padroneggiare problemi globali, per esempio quelli ecologici, che esigono misure rapide e impopolari, possiamo permetterci di prestare attenzione prevalentemente al carattere democratico del processo decisionale? Lei ha identificato la democrazia con il conflitto regolato mediante leggi: in quelle democrazie in cui il problema delle chances di vita comincia ormai a configurarsi come il problema di sopravvivenza, una tale regolamentazione sembra doversi muovere nella direzione di Hobbes, nella direzione cioè di una crescente irregimentazione della società. Oppure lei vede la possibilità di un rinnovamento del liberalismo tale che esso possa offrire un’alternativa a tale irregimentazione ?

Se dovesse essere vero che l’umanità in quanto umanità è dinanzi al problema della sua sopravvivenza, allora si pongono in effetti problemi del tutto nuovi che non è possibile risolvere con i vecchi metodi. Emerge una questione che io voglio formulare con estrema crudezza. Ma voglio sottolineare ancora una volta: solo se dovesse essere vero che ci troviamo dinanzi a problemi di sopravvivenza in seguito ad una minaccia nucleare (proliferazione delle armi nucleari, ovvero catastrofi che possono verificarsi in altro modo, come ad esempio a Chernobyl), o in seguito ad un mutamento di clima (qualunque ne sia la causa), o in seguito agli sviluppi della biologia (in particolare le mutazioni genetiche); soltanto in questo caso, se dovesse essere vero che si sono accumulate minacce contro l’umanità tali da mettere in questione la sua stessa sopravvivenza, allora in effetti non servirebbero a nulla i vecchi principi formali delle istituzioni democratiche. Ma in tal caso emergono anche questioni che, purtroppo, non sono mai state formulate con la necessaria crudezza: ad esempio la questione — e qualcuno resterà stupito da quello che io sto ora per dire — la questione se preferiamo soccombere nella libertà o piuttosto risolvere i problemi ambientali nella illibertà.

Non facciamoci illusioni: la soluzione dei grandi problemi dell’ambiente — se essi sono veramente così seri, come talvolta appare — esige ad esempio che noi provvediamo a far sì che non si sviluppi più alcun paese in via di sviluppo, esige che noi impediamo lo sviluppo piuttosto che promuoverlo. Al tempo stesso dovremmo provvedere a che il consumo di energia, negli Stati Uniti e in Europa, venga, diciamo così, dimezzato o ridotto ancora più drasticamente. Tutto ciò non si può ottenere con metodi democratici. Siamo così posti dinanzi a alternative così radicali che preferiamo indietreggiare. Tali alternative, sul piano pratico, forse non si porranno mai in questa forma, e tuttavia bisogna discutere insieme. Né si può fare affidamento sulla buona volontà di tutti che a un certo punto dovrebbe emergere. Tali questioni non sono così semplici, esse vanno al di là dell’orizzonte delle analisi di democrazia e liberalismo.

 

All’inizio, lei ha sottolineato il se: vede Lei profilarsi situazioni che impongono tali decisioni?

Esattamente come molti altri, non ho certezze in proposito. Ci sono coloro che estrapolano volentieri un materiale scientifico limitato e di parte e poi dicono: è già troppo tardi, non possiamo farci più nulla. Così, ad esempio, Denis Meadows, l’autore del primo rapporto al Club di Roma nel 1972: egli sembra essere dell’opinione secondo cui i limiti dello sviluppo sono per così dire già stati superati, sicché la catastrofe procede inesorabilmente nel suo corso.

Io ho una fiducia piuttosto forte nella capacità d’adattamento dell’uomo e della natura, e non sono sicuro che siamo già a questo punto: dobbiamo affidarci agli scienziati, e ciò comporta degli inconvenienti, dato che la scienza è un’attività problematica e negli scienziati gli errori sono altrettanto frequenti delle previsioni esatte. Dobbiamo poi attendere le prime esperienze, e in questo caso le prime esperienze potrebbero intervenire troppo tardi perché si possa fare qualcosa. Questa è una situazione qualitativamente diversa. L’umanità ha sempre reagito solo quando ha già sperimentato danni, sia pure solo limitati, siano questi danni conseguenze sociali dell’industrializzazione, siano invece conseguenze ambientali di carattere limitato. Ma, in questo caso, potrebbe darsi che il momento in cui siamo pronti a reagire si verifichi già troppo tardi, e cioè cinque minuti prima dell’ora X. Non lo so. Devo soltanto dire che a tale proposito non ho saggezze particolari da trasmettere, posso solo formulare nella sua crudezza il problema dinanzi al quale ci si trova in quanto liberali o democratici.

 

Ma, questo non sapere non è già di per sé sufficientemente allarmante e non esige già, ad esempio una più stretta cooperazione internazionale?

Il non sapere non è mai allarmante, esso rappresenta uno stimolo alla conoscenza. Di per sé, il non sapere non mi darebbe fastidio; e non credo neppure che si ottenga una risposta migliore ascoltando 2000 piuttosto che 20 scienziati: in ultima analisi gli scienziati hanno spirito gregario, tutti corrono nella medesima direzione, tra di loro c’è solo un paio di eccentrici. No, c’è qui bisogno di esperienze più concrete, di esperienze — devo qui ripeterlo ancora una volta — più direttamente visibili, come quella verificatasi a Chernobyl. Se gli allevatori di renne in Lapponia perdono il loro sostentamento per il fatto che si è verificato un incidente in una centrale nucleare in Ucraina, allora si stabiliscono dei rapporti che certo erano stati già in precedenza affermati da scienziati, senza però dispiegare alcuna efficacia, senza condurre all’azione. Non la cooperazione di 20.000 scienziati, ma una catastrofe, sia pur limitata deve verificarsi perché si passi all’azione: credo che non ci sia un modo per evitare ciò.

 

In altra occasione lei ha definito la società come rinuncia alla libertà: per un liberale, l’impegno sociale, la solidarietà (di cui oggi molto si parla e che lei stesso ha interpretato come un aumento delle chances di vita) è sempre solo un mezzo per un fine in ultima analisi individualistico, oppure in questa solidarietà si può riconoscere un compimento della libertà?

Le chances di vita - e di queste soprattutto si tratta nella società umana -collegano tra di loro molteplici cose. Le chances di vita esigono la presenza di possibilità di scelta: non ci può essere un solo partito, non ci può essere un solo giornale, e neppure ci può essere un solo detersivo; le possibilità di scelta si riferiscono cioè ad una molteplicità di cose.

Le chances di vita esigono determinati diritti fondamentali (ognuno deve aver accesso a queste possibilità di scelta). Le chances di vita esigono dunque diritti civili. Ma le chances della vita esigono anche che tali possibilità di scelta e tali diritti fondamentali si inseriscano in un contesto di legami - Ligaturen, come io li ho definiti - dunque in un contesto di profonde appartenenze, senza le quali ogni cosa perde il suo senso, senza le quali anche le decisioni sono prive di un sistema di coordinate, sicché diviene del tutto indifferente se uno fa questo o quello, se le cose vanno in un modo o nell’altro. In tal senso le chances di vita sono una cosa molto complessa che implica al tempo stesso legami e possibilità di scelta

Dire, come faccio io, che le chances di vita sono un contenuto desiderabile dell’agire pubblico, significa dire che esse hanno un senso in sé stesse e ciò vale anche per il contenuto unificante delle chances di vita. Ma definendo in tal modo le chances di vita, esse rimangono per me, in ultima analisi, pur sempre individuali: io sono un illuminista inguaribile, il mio eroe nella storia del pensiero è Immanuel Kant e, sulla scia di Kant, cerco chances individuali di vita, e non mi appagherei mai di una cosiddetta "collettività felice".

 

Una volta lei ha parlato dello scontro tra due modi di pensare, quello del kantiano e quello dell’hegeliano: potrebbe spiegare meglio questo punto?

In campo gnoseologico, la differenza fondamentale fra Kant e Hegel, o tra kantiani e hegeliani, è che i kantiani possono vivere con l’incertezza. Essi partono dal presupposto che ogni volta che cerchiamo di vedere, di conoscere, si tratta per l’appunto di un tentativo: ci devono dunque essere istituzioni, che rendano possibile la correzione di questo tentativo; l’errore è parte integrante della nostra vita e l’errore deve poter essere corretto. Ciò peraltro è in connessione col concetto di democrazia come "mutamento senza violenza"; allo stesso modo, anche nell’ambito della conoscenza, della scienza, l’errore deve poter essere corretto.

Per Hegel, almeno in determinate situazioni storiche, e forse per determinate persone singole — cioè per lui stesso —, il corso della storia può essere abbracciato con lo sguardo: c’è dunque un processo che si può descrivere dettagliatamente, così come Hegel ha fatto nell’ultima parte della sua "Filosofia del diritto". Anche successivamente, gli hegeliani, persino coloro che hanno spostato nel futuro il compimento della storia da Hegel collocato nel presente, sono tuttavia pur sempre partiti dal presupposto che c’è un’interna necessità del processo storico, che è possibile conoscere e alla quale ci si deve attenere, o nella quale si è immersi, nella quale tutti sono immersi. Si tratta di una certezza rifiutata per principio dai kantiani e che, una volta tradotta in pratica, conduce sempre e necessariamente al dogmatismo e, in campo politico, all’autoritarismo ovvero, nel caso peggiore, al totalitarismo.

C’è qui una differenza di fondo di carattere più pratico, la differenza di fondo della filosofia pratica, sia per quel che riguarda l’etica che la teoria politica. Per i kantiani l’antagonismo è una forza produttiva. Kant ha espresso ciò in un modo molto plastico nel suo piccolo scritto "Idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico". Qui egli dice: gli uomini vorrebbero molto volentieri l’armonia, ma la natura sa meglio di loro ciò che è bene per gli uomini, essa vuole la discordia, non la concordia; l’antagonismo, infatti, promuove lo sviluppo dell’uomo, fa progredire l’uomo, impedisce quella falsa concordia che alla fine conduce solo ad una vita pastorale arcadica, se non proprio ad una vita di pecore, custodite dal pastore, una vita in cui dunque non avviene nulla di sensato e nulla di produttivo.

Al contrario, Hegel e gli hegeliani non riescono, in ultima analisi, a sopportare l’antagonismo; essi sono sempre alla ricerca di un terzo elemento, alla ricerca della sintesi; anche se, nel corso del processo storico, a lungo andare, la sintesi costituisce solo il punto di partenza di un nuovo processo dialettico, in qualche modo agisce in ogni hegeliano il sogno di uno stadio finale in cui più nulla si muova. L’incubo dei kantiani è il sogno degli hegeliani, e ciò comporta molteplici conseguenze spiacevoli nell’ambito della filosofia pratica. Questa è una differenza di fondo, radicale, di grande portata, e Popper direbbe che la Germania (e forse larga parte dell’Europa centrale) ha sempre sofferto per il fatto di aver preferito la via di Hegel, mentre i paesi anglosassoni sono rimasti sulla via di Kant. Forse, per quanto riguarda le differenze nazionali, la cosa non è così semplice, ma in ogni caso io mi sento decisamente dalla parte kantiana di questa dicotomia.

 

Rawls si è pronunciato per il primato della libertà rispetto all’uguaglianza, a condizione però che venga presupposto un reddito minimo per i cittadini. La presa di posizione a favore del liberalismo esclude dunque di per sé il Terzo mondo?

No, la presa di posizione a favore del liberalismo non può escludere il Terzo mondo; rientra nel liberalismo, anzi ne costituisce il presupposto fondamentale, il fatto che ognuno dev’essere in condizione di partecipare al processo sociale, economico e politico. Ciò esige un livello base di diritti civili — di "Anrechte" come io li definisco — che sono di natura sia giuridica che economica e politica, e fra i quali rientra dunque anche un certo tenore di vita. Il fatto che abbiamo cominciato a realizzare questo livello base dei diritti civili nei paesi sviluppati (ancora in modo incompleto e tuttavia con considerevoli successi) non ci deve far dimenticare che i diritti civili rimangono del tutto incompleti fino a quando non siano diventati diritti civili a livello mondiale.

L’inquietudine che il liberale deve nutrire dinanzi alla mancanza di diritti civili in gran parte del mondo è uno dei presupposti di fondo dell’azione liberale e del pensiero liberale; è dunque sempre motivo di insoddisfazione, e lo sarà ancora per molto tempo il fatto che i diritti civili siano realizzati solo nei paesi ricchi.

 

Qualche tempo fa, in contemporanea con la celebrazione del bicentenario della Rivoluzione francese, ha avuto luogo l’incontro al vertice dei paesi più ricchi e un contro vertice dei paesi più poveri. Quale dei tre concetti chiave della Rivoluzione francese (Libertà, uguaglianza, fraternità) Le sembra oggi il più attuale? Secondo lei, partendo dal presupposto che la ricchezza comporti degli obblighi, quali obblighi derivano all’Europa unita nei confronti del Terzo Mondo?

Ho sempre considerato la fraternità come un affare privato, e dunque non rientro tra coloro che fanno della fraternità o solidarietà un presupposto di fondo dell’azione politica. La mia concezione della necessità di legami non può essere fraintesa come la rivendicazione di un pensiero della fraternità o della comunicazione, alla maniera di Rousseau o anche di Habermas, rivendicazione che io ritengo errata. Si tratta anche in questo caso della libertà e dell’uguaglianza nel loro legame reciproco, e il legame peculiare che sussiste fra libertà e uguaglianza risiede nel fatto che la libertà ha senso solo quando ci siano uguali chances iniziali per tutti, solo cioè quando c’è uguaglianza di diritti civili: non il medesimo status, non la medesima condizione di vita, non il medesimo reddito, ma un medesimo livello-base, una piattaforma comune a tutti.

Questo è un presupposto di fondo di società libere in un mondo sviluppato; peraltro, fortunatamente, ciò è, in larga misura, una condizione d’accesso alla Comunità europea — credo e spero che la Comunità non avrà mai un membro che violi questi presupposti di fondo. La Carta sociale discussa in occasione del vertice, e che anche in futuro verrà discussa, è in rapporto con questi diritti fondamentali, e costituisce un elemento fondamentale.

La Comunità europea ha fatto qualcosa per i paesi del Terzo mondo a lei vicini, dunque, ha fatto qualcosa soprattutto per le ex-colonie francesi, inglesi e belghe, per i paesi francofoni e anglofoni del Terzo mondo. Certo, essa non ha fatto a sufficienza, ma qualcosa ha pur fatto, e qui risiede - ritengo -uno dei grandi compiti, ma non voglio indulgere alle belle parole, non mi faccio alcuna illusione circa la disponibilità dell’Europa o dei paesi dell’Ocse a far qualche sacrificio per il Terzo mondo: se pure questa disponibilità esiste, essa è minima.

 

Secondo il suo modo di vedere è compito anche dei sociologi contribuire a che il razionale diventi reale: in altre parole, passare dall’analisi all’iniziativa concreta. Dunque la sociologia implica la teoria politica e anche la prassi politica?

Mi si chiede se la sociologia implica la prassi politica. La mia risposta è decisamente negativa: è un’illusione credere che ci possa essere una collaborazione senza problemi e persino armonica tra scienza e prassi. Questa è una frase vuota degli hegeliani, di regola utilizzata da coloro che non hanno alcuna idea della prassi. Scienza e prassi obbediscono a priorità diverse, fanno riferimento a orizzonti temporali diversi: in linea di principio, la ricerca scientifica è sempre temporalmente illimitata, non si sa se la risposta a un problema scientifico riusciamo a trovarla questa sera, tra un anno, tra dieci anni o mai.

La prassi, la prassi politica o economica, o la prassi vitale in generale, è sempre legata ad orizzonti temporali che non è possibile scegliere autonomamente: bisogna prendere decisione, se improvvisamente la moglie si ammala, i genitori muoiono, o comunque avviene qualcosa nell’ambito della nostra vita; e bisogna prendere una decisione, allorché si tratta di combattere una battaglia elettorale o di rendere noto un dividendo ai propri azionisti. In tal caso i tempi sono fissati dall’esterno, e non c’è il tempo necessario per la ricerca scientifica, dato che devono essere prese decisioni. Ciò conduce a un modo di vedere completamente diverso. Sono d’accordo senza riserve con le distinzioni tracciate da Max Weber, nei suoi due grandi discorsi sulla Scienza come professione e la Politica come professione; si tratta di due mondi diversi.

Ma se la domanda non dovesse suonare: è possibile unificare scienza e prassi politica? , bensì: deve lo scienziato essere attivo anche sul piano pratico e l’uomo pratico essere al tempo stesso scienziato?, in tal caso darei una risposta un po’ diversa da quella di Weber, anche se Weber, nella prassi della sua vita, ha dato una risposta perfettamente identica a quella che io sto per dare.

Ritengo senz’altro possibile, realizzabile e persino desiderabile, che ci siano uomini i quali, nel corso della loro vita, in tempi diversi, siano attivi talora in un campo, talora nell’altro. Ritengo dunque del tutto sensato che una persona, già attiva, nella scienza, si dia alla prassi per poi tornare alla scienza. Non è facile dire in che modo l’una agisca fruttuosamente sull’altra, bisogna qui guardarsi da formulazioni semplicistiche. In ogni caso, si tratta di una possibilità di vita interessante, importante. Come potrei esprimermi diversamente, io che ho vissuto conformemente a questa massima? Farei ancora un piccolo passo in avanti e direi: ci sono anche coloro che, ai giorni nostri, cercano in una certa misura di mantenersi, per così dire a cavallo dei due mondi, occupandosi un po’ dell’uno, un po’ dell’altro. Questo è soprattutto il caso della consulenza in campo politico, di quella scienza dunque che è strettamente legata alla prassi: si tratta di un ambito problematico, ma non del tutto privo di importanza, che ha sviluppato una propria forza e ha raggiunto un notevole peso. Nella sostanza però mi tengo fermo alla tesi che a me, in quanto kantiano, popperiano, weberiano, appare molto importante, la tesi per cui teoria e prassi sono due mondi diversi che è possibile unificare soltanto mediante frasi vuote.

 

Lei ha parlato dei problemi della moderna democrazia; soprattutto negli ultimi tempi, sono venuti apertamente alla luce i problemi del comunismo. C’è un nuovo modello ideale che gli scienziati e i politici devono tenere presente?

Alla fine degli anni ottanta diventa chiaro che il comunismo ha costituito solo un episodio storico. Un episodio storico che è iniziato in Unione Sovietica (si tratta pur sempre di una teoria applicabile ai paesi in via di sviluppo e non ai paesi sviluppati) e si è poi estesa ai nuovi paesi del Terzo Mondo. Risulta ora chiaro che questa teoria non appaga i bisogni degli uomini né sul piano economico, né su quello politico. Il comunismo si è impantanato in un burocratismo della Nomenklatura che non riesce a dar da mangiare all’uomo, né gli consente di esprimere la propria opinione e di sfruttare le nuove possibilità della vita moderna. In tal modo il comunismo è semplicemente finito in un vicolo cieco

Ai paesi in via di sviluppo riesce un po’ più facile rinunciare all’adesione a parole al comunismo da essi in un primo momento espressa; sempre più numerosi sono i paesi che cancellano dizioni come "Repubblica popolare socialista" dalla denominazione ufficiale del loro paese, per percorrere vie nuove. Ciò vale persino per i grandi paesi modello del comunismo o del socialismo africano, come la Tanzania; ciò vale per la Birmania, per la Cambogia e per tutta una serie di paesi in via di sviluppo. Adesso persino i paesi originari del comunismo, persino la grande madre-patria del comunismo, hanno scoperto che con esso non si va avanti, e l’Unione Sovietica cerca di trovare una sua via propria.

Si pone allora la questione: a cosa conduce tutto ciò? A tale proposito credo che bisogna guardarsi da un falso ottimismo. Ci sono almeno due alternative. La prima alternativa è economia di mercato più democrazia; dico questo in modo brutale, ci sono forse varianti, anche nei grandi paesi democratici l’economia di mercato non è dappertutto la medesima —il Giappone ha certo una struttura economica completamente diversa da quella della Gran Bretagna, ecc., ecc. Comunque, in sostanza l’opzione economica di mercato più democrazia è molto più dolorosa di quanto comunemente si creda. Le istituzioni democratiche non creano benessere automaticamente, i cittadini cominciano allora a chiedersi: "Che cosa ricaviamo noi dalla nostra glasnost e dalla nostra perestroika? Nei nostri negozi non si trova nulla".

Emerge dunque un problema complesso. E’ possibile che venga seguita una seconda alternativa, un’alternativa molto meno piacevole, nell’ambito della quale vecchi movimenti (come l’antisemitismo, come la nostalgia per rapporti di vita etnicamente omogenei, nell’ambito dei quali non è necessario vivere con gente di religione o origine diversa) si collegano con nuove tendenze del fondamentalismo. Una miscela estremamente spiacevole, una miscela che secondo me ha chances almeno altrettanto elevate di quanto ne abbia l’ordinamento basato sulla democrazia e sull’economia di mercato. Questa è l’alternativa dinanzi alla quale si trovano i paesi comunisti: l’alternativa è ancora del tutto aperta.

 

Oggi si parla molto di post-moderno e non mancano le correnti irrazionalistiche alla moda: in che modo giudica la consistenza teoretica e le conseguenze pratiche dell’ostilità nei confronti della scienza?

Post-moderno non è un concetto che rientri nel mio vocabolario. Sono un uomo del mondo moderno, sostengo le ragioni della modernità e non vedo motivo alcuno per discostarmi da ciò.

In tutto il corso della sua storia, la modernità è sempre stata attaccata: alla fine del diciannovesimo secolo c’è stata una lunga fase caratterizzata dalla critica della civiltà e dall’ostilità nei confronti della tecnica e dell’industria; nel ventesimo secolo c’è stato il periodo terribile della rivolta fascista contro le possibilità del mondo moderno; e di nuovo oggi c’è una serie di tendenze che si oppongono alle possibilità del moderno. Queste tendenze sono in parte antimoderne in senso romantico — è il caso dei Verdi — in parte costituiscono una miscela di integralismo di questo o quel tipo, di nazionalismo e altre forme di rifiuto del mondo moderno, un mondo certo complesso, eterogeneo, ma ricco di chances di vita. Contro tutto ciò bisogna lottare; si tratta di tendenze che, come ho già detto, si sono sempre manifestate, e che oggi di nuovo si manifestano, tendenze contro le quali noi che ci schieriamo a favore del moderno, siamo chiamati a formulare chiaramente le nostre posizioni.

 

Cosa pensa Lei, in quanto liberale, delle idee russoiane di democrazia diretta che spesso si collegano con l’ostilità nei confronti della scienza e della tecnica?

Sono tra coloro che in Rousseau vedono piuttosto un precursore del pensiero totalitario che un precursore del pensiero democratico: tuttavia non dimentico il ruolo pratico svolto da Rousseau sia in Francia che negli Stati Uniti e non dimentico neppure che in Rousseau ci sono temi che possono essere interpretati in modo diverso.

C’è un passo molto interessante della Filosofia del diritto di Hegel, in cui egli si misura con il concetto di volontà generale. In questo passaggio Kant viene accusato di esser rimasto del tutto fermo al livello della società civile e di intendere la volontà generale al massimo come volontà della maggioranza, o come qualcosa che conta su un consenso sufficiente per potersi affermare. Rousseau viene da Hegel valutato più positivamente per il fatto che almeno definisce la volontà generale come volontà di tutti, ed esige che per l’appunto tutti giungano ad una comune conclusione, magari nell'ambito di un discorso sottratto al dominio. Questo è per Hegel già molto bello, anche se ancora piuttosto meccanico, dato che tutti vengono presi in considerazione e messi in conto. Hegel però va oltre e pensa la volontà generale, per così dire, come la figura concreta dello spirito del mondo esprimentesi nella forza di persuasione di uno Stato che appaga tutti i desideri di Hegel medesimo, anche se non appaga quello dei liberi cittadini. Rousseau occupa dunque qui una posizione mediana: sì, mi sembra del tutto adeguato definire in tal modo la sua collocazione.

Ritengo che questa sottolineatura dell’accordo di tutti sia piuttosto un ostacolo che un elemento positivo. Sono d’altro canto dell’opinione che il russoianesimo latente del movimento studentesco e di altri movimenti che sono scaturiti dal ’68, ritengo che il desiderio di giungere ad una soluzione mediante una discussione permanente e generalizzata di tutti con tutti, ritengo che tale atteggiamento sia corresponsabile della sonnolenza e dell’immobilismo della democrazia negli anni ’80 e alla fine degli anni ’80, corresponsabile quindi del mancato mutamento. La visione di Rousseau conduce alla discussione permanente, non al progresso, e pertanto rientra - secondo me - nell’aspetto discutibile e negativo dello sviluppo della teoria politica.

 

A partire degli anni ’70, la concezione unidimensionale del progresso e dello sviluppo si è sempre più rivelata un boomerang: credo bisogna ammettere che la razionalità strumentale di tipo tecnico-scientifico-economico ha raggiunto i suoi limiti. Lei ritiene possibile venire incontro sul piano razionale al crescente interesse etico e al crescente bisogno di orientamento? E’ possibile cioè sviluppare una razionalità di valori che risponda non alla domanda: cosa possiamo fare, bensì alla domanda cosa dobbiamo fare di quel che è possibile fare? E’ possibile sviluppare una razionalità di valori che risponda a quest’ultima domanda con argomenti, e non con semplici opinioni e professioni di fede?

La filosofia pratica costituisce ovviamente un elemento importante del processo del discorso pubblico; e certo era del tutto errato il tentativo di soffocare la filosofia pratica in un piatto positivismo. Non ho mai avuto indulgenze per il piatto positivismo. Il principio dell’incertezza, e cioè la consapevolezza che non conosciamo tutte le risposte e, persino quando le conosciamo, non possiamo essere sicuri che esse siano corrette, questo elemento di incertezza è per me il punto di partenza sia della teoria della scienza che della filosofia pratica e della teoria politica. Penso che, partendo da ciò, possiamo giungere ad ulteriori risultati che ci possono essere d’aiuto allorché parliamo degli effetti collaterali, degli effetti negativi dello sviluppo tecnico ed economico. E cioè, quando parlo di democrazia, faccio sempre riferimento al tempo stesso alle riforme strategiche.

Non si tratta dunque di tradurre, per così dire, in pratica un programma che è stato prima sviluppato sul piano scientifico. Le scoperte delle contraddizioni della modernità che abbiamo fatto negli ultimi 15 anni, forse a partire dal 1973, sono importanti e conducono senza dubbio a mutamenti nel nostro comportamento tramite una preliminare discussione pubblica. C’è dunque un atteggiamento kantiano che non si trova in alcun modo in difficoltà dinanzi alla necessità di una filosofia pratica, sia politica che morale.

 

Riesce relativamente facile comprendere il fatto che molte cose nel mondo rispondono a leggi irrazionali: ma quali sono, secondo lei, queste forze irrazionali e da dove derivano?

Io non opero una distinzione tra razionale e irrazionale nel senso che talvolta traspare in formulazioni semplicistiche; non credo neppure che ci siano leggi irrazionali. Piuttosto mi sembra interessante vedere se riescono ad imporsi forze come il fondamentalismo, come l’eccessiva semplificazione, la ricerca di un ambiente sociale omogeneo, forze dunque, in cui manca la disponibilità a vivere nella complessità, manca la disponibilità a vivere con l’eterogeneità sociale e culturale. Questo mi sembra il problema. Razionale e irrazionale non sono categorie cui io faccio ricorso.

 

L’equilibrio del terrore sembra oggi cedere il posto ad una più intensa cooperazione tra le superpotenze. Lei vede in ciò la possibilità della formazione di una sorta di governo mondiale, indipendentemente dall’ONU?

Un governo mondiale, una società civile mondiale, regole che valgano al livello mondiale, un autentico diritto internazionale, sono tutti fini che, per utopici che possano talvolta apparire, a un liberale stanno a cuore, devono stare a cuore. Facciamo ancora una volta riferimento a Kant: L’idea di una storia universale dal punto di vista cosmopolitico e anche il piccolo scritto "Per la pace perpetua "scaturiscono direttamente dalla visione filosofica di fondo di Kant.

Condivido in pieno l’opinione, secondo cui non possiamo esser paghi fin quando non avremo trovato regole che valgano a livello mondiale. Per queste regole ci sono per ora scarsi elementi. C’è stato nel dopoguerra - e qui ci vorrebbe un commento- una fase in cui sono state create istituzioni mondiali che per un periodo di tempo relativamente lungo hanno funzionato relativamente bene. Le Nazioni Unite delle origini, il sistema monetario internazionale a partire da Bretton-Woods, il sistema commerciale internazionale fondato sul GATT, una serie di organismi dell’ONU, hanno gettato le basi di una collaborazione internazionale, almeno per un certo periodo di tempo. Tutto ciò è andato in frantumi negli anni ’70, e non c’è il minimo indizio che possa essere riedificato alla fine degli anni ’80.

Se si rivolge lo sguardo agli anni del dopoguerra e ci si chiede perché allora tutto ciò ha funzionato, si giunge ad una conclusione piuttosto inquietante; si giunge cioè alla conclusione che in quegli anni tutto ciò ha funzionato, per il fatto che questo primo ordinamento mondiale era una sorta di pax americana, instaurata dall’America. Senza il dollaro come moneta-guida non ci sarebbe stato il sistema monetario; senza gli Stati Uniti come potenza economica non ci sarebbe stato il GATT (il primo importante GATT-round è stato non a caso il Kennedy-round); senza gli Stati Uniti come potenza garante non ci sarebbero state le Nazioni Unite delle origini. Ma questo significa che un’altra grande potenza, e cioè l’Unione Sovietica, in ultima analisi, non faceva parte di tale ordinamento mondiale. In effetti, causa della guerra fredda è stata la convinzione che l’Unione Sovietica non voleva partecipare al sistema monetario internazionale, al sistema commerciale internazionale; si trattava cioè di un ordinamento mondiale limitato e di un ordinamento mondiale garantito da una grande potenza.

S’impone qui la difficile questione teoretica e pratica se è possibile un ordinamento mondiale che scaturisca dal consenso volontario dei partecipanti o se invece ogni ordinamento mondiale presuppone in qualche modo una forza dominante. E’ un problema che ha a che fare con quello del rapporto Rousseau-Kant e con quello dell’organizzazione interna della comunità politica. Per ora voglio lasciare senza risposta tale problema, e tuttavia da esso voglio trarre la conseguenza che la fine della guerra fredda non significa affatto che ci siano chiari indizi di un ordinamento mondiale. Ci sono piuttosto indizi di una forte decentralizzazione, si direbbe quasi proliferazione, delle posizioni di potere nel mondo, e tale proliferazione rende molti problemi di difficile soluzione, così per esempio in Medio Oriente, o in Cambogia e Vietnam e in altre parti del mondo. Per ora dunque l’ordinamento mondiale resta solo una speranza.


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