Caffe' Europa
Attualita'



Fine secolo berlinese: se ritornano gli ebrei

Raffaele Oriani


Questo articolo è pubblicato Io Donna del 30 ottobre

Per Oren Berlino e’ il paradiso degli architetti, per Sheryl una citta’ che sa amare gli artisti, per Ari semplicemente Europa: il posto migliore per far conoscere la musica che compone. Inna ci vive da due anni, e’ giovane, parla un tedesco quasi perfetto, ma la cadenza troppo dolce le ricordera’ per sempre che viene da una valle degli Urali; quando scese alla stazione dello Zoo, Jakob era invece troppo vecchio per aver voglia di rifarsi una vita: non va oltre il Guten Tag e solo quando nomina Odessa i suoi occhi scuri dicono tutto quello che occorre. Giovani e vecchi, artisti e disoccupati, americani, russi e ucraini; nomi propri e storie comuni per una morale davvero speciale: a Berlino sono tornati gli ebrei.

Berlin01.jpg (26379 byte)

La nuova capitale tedesca ha fretta di chiudere il secolo, entrare nel Duemila, riiniziare da capo. O meglio: da settant’anni fa, quando New York era ancora un altro mondo e Berlino era l’epicentro di una modernita’ che sembrava non dover avere mai fine. Le tele di Georg Grosz gia’ vedevano il ghigno della storia dietro l’euforia della cronaca, ma era appena un accenno: i colori prendevano poi il sopravvento e confondevano visi, merci, parole, i grandi magazzini Wertheim, la musica di Kurt Weill, il labirinto di rotaie di Potsdamer Platz che gia’ meritava il titolo di "centro piu’ trafficato d’Europa". E’ la Berlino dei ruggenti anni Venti ed e’ soprattutto una metropoli ebraica.

Chi dice 160mila, chi 200mila: in quegli anni gli ebrei sono tanti e alla sinagoga hanno ormai sostituito i teatri, i giornali, le accademie, le banche, il cinema che proprio a Berlino con Lubitsch e Pabst si scopre un futuro da settima arte. E gli ebrei di Berlino sono soprattutto tedeschi: il sionismo e’ un movimento marginale e Walther Rathenau rappresenta la stragrande maggioranza dei suoi correligionari quando dichiara di non avere ‘altro sangue che quello tedesco, altro patria che la Germania’. Diverra’ ministro degli esteri, ma con il suo assassinio si comincera’ a capire che i conti sono destinati a non tornare.

Dopo la Shoah sono stati quarant’anni di gelo, con la comunita’ ridotta all’osso e i suoi seimila membri che non riuscivano a liberarsi della "sindrome della valigia" per cui si vive, si lavora, ma si e’ sempre pronti ad andarsene. Cosi’ una generazione ha organizzato la propria esistenza sottotraccia, coltivando la memoria delle vittime senza mai dare troppo nell’occhio, avvertendo attorno il disagio di chi in ogni ebreo vivo vedeva l’accusa di sei milioni di morti. Ora, a dieci anni dal crollo del Muro, basta un dato a capire quanto tutto sia cambiato: dopo Israele la Germania e’ il paese al mondo col piu’ alto tasso di incremento di popolazione ebraica. E in Germania e’ proprio Berlino a far la parte del leone, la meta piu’ ambita di chi sceglie di tornare in Europa o di approdare in Occidente dal caos sociale ed economico dell’ex Unione sovietica.

Berlin02.jpg (22898 byte)

‘Berlino e’ di nuovo presente sulla mappa delle citta’ ebraiche’, dice Andreas Nachama, berlinese di nascita, greco di famiglia, figlio di un mitico cantore di sinagoga e attuale presidente della comunita’: ‘In dieci anni -aggiunge- siamo passati da seimila a undicimila membri ufficialmente iscritti alla Jüdische Gemeinde, a cui vanno aggiunti mille iscritti a un’associazione parallela e altri ebrei che preferiscono un’appartenenza meno ufficiale. In tutto a Berlino vivono ormai almeno quindicimila ebrei’. C’e’ chi dice addirittura ventimila: niente in confronto all’inizio del secolo, una cifra impensabile nei lunghi anni del dopoguerra. E soprattutto una cifra che fa massa critica, garantisce visibilita’, contribuisce a plasmare il volto della nuova capitale tedesca.

Parallelamente all’itinerario del ricordo, a Berlino va infatti crescendo una rete di luoghi da frequentare senza paura, di locali che presentano l’ebraismo com’era, e’, avrebbe potuto essere se nella Germania di sessant’anni fa non si fosse spalancato l’abisso dell’Olocausto. Qualcuno lo chiama folklore e storce il naso, qualcuno pensa che cosi’ si vuol colmare un’assenza che invece dovrebbe restare tale, certo e’ che i tedeschi, abituati a pensare agli ebrei come a un irrisolto e irrisolvibile problema di coscienza, cominciano a gustarne con sollievo la cucina, a ballarne la musica, piu’ di qualcuno a frequentarne le scuole e impararne la lingua.

E come prima della guerra Berlino diventa teatro di ebraismi molto diversi tra loro: in Sophiestrasse, accanto a Jazz Radio 101, alla galleria Contemporary fine arts, e all’agenzia Players, c’e’ ad esempio ‘Barcomi’, il locale dell’ebraismo yankee che con i suoi bagels al salmone e’ ormai un cult delle serate allo Scheunenviertel, l’antico quartiere ebraico della citta’. E oltre a Barcomi, la cucina mediorientale di Rimon, le sale ovattate di Oren accanto alla Nuova Sinagoga, lo Hackesches Hof Theater che in un mese arriva a presentare anche dodici diversi gruppi di musica e teatro yiddish. Mark Aizikowitcz, attore ucraino che ricorda come un fratello il nostro Moni Ovadia, qui con il klezmer e’ diventato una piccola star: ‘I tedeschi -sostiene- oggi ci amano. Ma l’amore e’ un sentimento pericoloso, troppo vicino all’odio: ci vorrebbe un po’ piu’ di normalita’ nel rapporto tra le nostre due culture’.

Normalita’, normalita’... quante generazioni dovranno passare? In fondo e’ perche’ la storia pesa ancora che il governo tedesco garantisce libero accesso, diritto di soggiorno e assistenza sociale agli ebrei provenienti dall’ex Unione sovietica. Di normalita’ non parla neanche Joel Levy, che a Berlino guida la Lauder Foundation per la salvaguardia della cultura ebraica e che con una battuta coglie tensioni e limiti del rapporto tra ebrei e tedeschi: ‘Le premesse certo sono buone ma tutto e’ ancora troppo forzato per essere normale. Sa come si riconosce un ebreo da un tedesco? Che a uno piace la musica klezmer. E non e’ l’ebreo’.

Non parliamo di normalita’ allora, chiamiamola presenza: da un anno, a pochi metri da Potsdamer Platz, ha aperto l’unica sede europea dell’American Jeewish Committee, potente lobby per i diritti umani che conta 75000 aderenti e 32 sedi negli Usa; nel 2000 verra’ inaugurato il nuovo Museo ebraico di Daniel Liebeskind, che gia’ oggi e’ una delle attrazioni architettoniche della citta’ e che da un anno e mezzo e’ guidato da Michael Blumenthal, classe 1926, fuga da Berlino nel 1939, ritorno a fine ‘97; tre anni fa e’ ritornato anche Heinz Bergruen, uno dei piu’ celebri galleristi parigini, che da Berlino scappo’ nel ‘36 e alla sua citta’ ha ora affidato i pezzi migliori della sua collezione personale (Picasso, Klee, Cezanne, Braque… in mostra permanente accanto al Castello di Charlottenburg); e ancora: a presiedere la prussianissima Akademie der Kuenste e’ stato chiamato lo scrittore ebreo-ungherese György Konrad, a guidare l’American Academy e’ ora Gary Smith, filosofo ebreo-americano di famiglia berlinese.

Berlin03.jpg (13625 byte)

Tra tante personalita’ e istituzioni un’efficientissima scuola: 250 allievi alle elementari, 250 alle superiori che seguono il classico cursus tedesco e in piu’ imparano l’ebraico, mangiano kosher, studiano il talmud. Come per la musica klezmer, anche qui gli allievi migliori sono tedeschi non ebrei che i genitori mandano alla Jüdische Schule per slancio ecumenico, sensi di colpa o semplicemente perche’ questa e’ la scuola piu’ vicina a casa: ‘E piu’ la motivazione e’ banale - sostiene ancora Nachama - piu’ e’ importante. Perche’ vuol dire che siamo davvero al punto di non ritorno e che gli ebrei vengono sentiti dalla citta’ come una presenza radicata e scontata’.

Vergangenheitsbewältigung’ la chiamano i tedeschi: il vocabolo e’ ostico, il concetto pure. Significa "elaborazione del passato" ed e’ il lavoro personale e culturale con cui una nazione e’ approdata alla faticosa normalita’ dei nostri giorni, un lavoro che solo a Berlino e’ testimoniato da 25 memorials alla deportazione ebraica (fonte: Jewish Berlin, Goldapple Publishing 1998). Eppure il passato fa ancora discutere, tanto che ci sono voluti dieci anni per decidere se, come, quando erigere il grande monumento alle vittime dell’Olocausto che sorgera’ alle spalle della Porta di Brandeburgo. Ora il Parlamento ha dato l’agognato e definitivo via libera, ma al cronista che provi a sollecitare reazioni gli ebrei berlinesi rispondono con alzate di spalle e sorrisi di sufficienza: c’e’ chi dice che e’ stata una prova meschina, chi che la discussione e’ arrivata con quarant’anni di ritardo. La storia nel frattempo sembra aver scelto altre strade per cicatrizzare le sue ferite.

 

Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui

Archivio Attualita'

 


homearchivio sezionearchivio
Copyright © Caffe' Europa 1999

Home | Rassegna italiana | Rassegna estera | Editoriale | Attualita' | Dossier | Reset Online | Libri | Cinema | Costume | Posta del cuore | Immagini | Nuovi media | Archivi | A domicilio | Scriveteci | Chi siamo