Caffe' Europa
Attualita'



Ridiamo un'anima alle nostre città

Marco Romano

 


Secondo un’opinione diffusa l’importante è che la città funzioni, se poi dovesse essere anche bella, sarebbe un extra, una sorta di ciliegina sulla torta.

Certo se la bellezza della città dovesse consistere nel suo "arredo" - garbate pavimentazioni stradali, belle panchine, aiuole distensive, lampioni gradevoli - questa opinione non sarebbe poi del tutto fuori luogo, ma in realtà in Europa l’estetica della città è forse il problema sociale fondamentale.

Le città europee che si formano verso l'anno Mille sono, proprio come oggi, delle civitas democratiche, dove ciascuno può ascendere fino ai vertici la scala sociale in forza solo della sua capacità nel lavoro - artigiano o giurista, mercante o architetto - a prescindere dalla sua condizione di nascita.

Poiché però, secondo la tradizione franca, le istituzioni e le persone esistono socialmente solo in quanto accettino i diritti e i doveri della loro condizione e siano titolari del possesso di una terra, la città ha giurisdizione sul proprio territorio e a loro volta i cittadini sono tali soltanto purché giurino di rispettare lo statuto della civitas e possiedano una casa nella città. Le medesime condizioni vengono richieste anche oggi: quando trasferiamo la residenza in un nuovo Comune è implicita l’adesione allo Statuto cittadino e ci viene chiesto quale sia l’indirizzo della nostra nuova casa.

Sicché la civitas, l’insieme morale dei cittadini, è strettamente connessa all’urbs, l’insieme materiale delle loro case, che sono per questo unite come il palmo e il dorso della mano.

Poiché le case sono la cittadinanza, le loro facciate e il loro sito rispecchiano lo status - di ricchezza, di cultura - dei cittadini che le abitano. Alla metà dell’XI secolo i terreni edificabili nel centro di Milano costavano tre volte tanto quelli della periferia, più o meno il rapporto di oggi: divari troppo superiori rispecchierebbero differenze di ceto tra i cittadini eccessive, incompatibili con lo sfondo egualitario della democrazia cittadina. La spesa per decorare le facciate è a sua volta spesso nel mirino dei predicatori - di Alessandro Neckam o di Bernardino da Siena - che considerano quei denari buttati e meglio spesi nell’elemosina ai poveri.

La città è poi punteggiata da temi collettivi dove la civitas - proprio come il singolo cittadino nella propria casa - in quanto soggetto olistico esprime la propria consapevolezza di sé rispetto ai suoi propri cittadini, che vi vedono simbolicamente rappresentata la loro identità collettiva, e rispetto alle altre città in un serrato confronto di rango.

I temi collettivi, che costituiscono il pegno di uno scambio simbolico della civitas con i suoi cittadini e di una città con tutte le altre, non sono regolati dalla razionalità dei fini e dei mezzi ma da quel vistoso e visibile spreco che caratterizza la sfera del dono. Cattedrali, palazzi municipali, archi trionfali, strade monumentali, teatri, parchi, stadi sono spese gigantesche per un’utilizzazione pratica in genere molto ridotta, e devono inoltre ostentare un’architettura monumentale che a sua volta ne aumenta ulteriormente il costo.

urb02.jpg (22351 byte)

La loro realizzazione è preceduta dal maturare in Europa, nel corso di un paio di secoli, della consapevolezza del rilievo sociale di un determinato comportamento o sentimento, finché le città non sono dovunque pronte a confrontarsi tra loro costruendo un manufatto fisico che lo rappresenti. Così per molte generazioni l’assemblea civica veniva tenuta in un prato fuori porta, le riunioni del Consiglio nella chiesa, quella della Giunta in casa, e infine gli archivi in un campanile o in una torre.

Dopo la pace di Costanza, con la quale nel 1183 l’imperatore riconosceva i Comuni come soggetti politici, tutte le città costruiscono invece il loro palazzo municipale e inventano la piazza - le piazze non esistevano ancora - per l’assemblea. Così il primo sostenitore moderno del mens sana in corpore sano, Jahn, inventa la ginnastica verso il 1810, mentre le palestre cominceranno a diffondersi cinquant’anni dopo, le Olimpiadi e gli sport a fine Ottocento, gli stadi nel corso del nostro secolo.

Non tutti i cittadini sono d’accordo sulla realizzazione di un determinato tema collettivo, perché ogni gruppo vorrebbe quello che gli sta a cuore - chi un parco, chi uno stadio, chi una biblioteca - e lascerebbe perdere quelli degli altri, sicché la loro costruzione inizia spesso con molto ritardo rispetto ad altre città (i milanesi inizieranno il Duomo trecento anni dopo i pisani) o non inizia mai (Bari non ha mai avuto un giardino pubblico in centro) e prosegue, come quella del nuovo Piccolo Teatro a Milano, tra feroci polemiche.

I temi collettivi non vanno confusi con i servizi, che concernono prestazioni comunali cui il cittadino ha diritto in forza soltanto della solidarietà della civitas, che sono connaturate alla sua fondazione mille anni fa e la cui gamma non può venire arricchita: sono poi la scuola pubblica sine latino che si vede a Siena al centro del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti, e l’assistenza sanitaria materializzata nell’ospedale (e naturalmente anche il sussidio di povertà, che darà luogo agli Hotel Dieu o agli immensi Alberghi dei poveri di Palermo, di Napoli, di Genova). Questi, essendo edifici obbligatori, non pretendono spreco. Sulla loro realizzazione, al contrario che per i temi collettivi, non c’è contrasto tra i cittadini, perché nessuno potrebbe dichiarare che un cittadino non abbia diritto alla scuola o al presidio sanitario.

La presenza dei temi collettivi testimonia ai cittadini la loro appartenenza a una civitas democratica della quale condividono il destino, e che è per loro come un organismo olistico - "un padre", dirà Brunetto Latini - con un proprio destino e una propria volontà di ordine, superiore a quella dei cittadini che la compongono.

E’ allora chiaro perché la città sia in Europa, per sua intrinseca natura, l’espressione di una volontà estetica espressa nelle facciate delle case e nei temi collettivi, e come quindi la bellezza non sia affatto una ciliegina ma sia al contrario l’anima del suo modo di esistere; resta da vedere in che modo costituisca un problema.

La sottolineature simbolica dell’appartenenza del cittadino alla città che i temi collettivi procurano è in Europa essenziale perché, mentre in tutte le altre società gli uomini appartengono prima di tutto a una gens, a un clan, a una tribù, a un’etnia, a una fede, soltanto in Europa essi appartengono - nella forma della cellula familiare che noi conosciamo benissimo - prima di tutto a una città.

Prometeo fu incatenato a una rupe per aver dato agli uomini - altrimenti incapaci di sollevare la mente dal pensiero ossessivo della propria morte - la speranza e il fuoco, la capacità di fare progetti tecnicamente realizzabili dove si annida l’irragionevole speranza dell’immortalità. Ma questa speranza ha un senso solo purché gli uomini appartengano a una società che duri più della loro vita individuale, una società che, venendo da un tempo immemorabile, prometta di durare senza fine, una società sentimentalmente percepita come immortale nella quale noi stessi saremo immortali.

Per questo i selvaggi mangiano ritualmente i corpi dei trapassati, per questo la gens tramandava i lari, per questo è necessario il culto degli antenati - la dimensione antica dello storicismo positivista -, per questo la nostra città dev’essere immortale e immortali sono i suoi temi collettivi, la cui presenza ci assicura sentimentalmente e materialmente che le apparteniamo. Ed essa appare immortale perché è intrisa della volontà estetica dei suoi cittadini come individui e come civitas, e nella tradizione occidentale la bellezza dell’opera d’arte è eterna.

L’espressione simbolica dell’appartenenza di ogni cittadino alla città, assicurata dai temi collettivi, dovrebbe, nella prospettiva democratica della civitas, essere egualitaria, ma il fatto è che alcune case - quelle più costose sui terreni centrali - sono più vicine alla cattedrale, mentre quelle della periferia sono spesso in un deserto del senso.

urb04.jpg (13682 byte)

Il problema dell’urbanistica da mille anni a questa parte è precisamente questo: come sia possibile far convivere l’immagine di una civitas democratica ed egualitaria, che regola la nostra percezione del mondo, con il fatto evidente che l’urbs, nella cui consistenza fisica si specchia la gerarchia sociale, denuncia visivamente lo scarto tra l’orizzonte immaginario e la realtà.

Per intanto i lotti edificabili saranno stretti, in modo da consentire a ciascuno di affacciarsi su una strada e poter mostrare pubblicamente la propria identità attraverso la facciata della casa. Se è poi ovvio che i maggiorenti abbiano casa nella piazza principale, bisognerà fare in modo che le strade secondarie abbiano almeno uno sbocco sulla piazza, e se la strada principale gode della veduta della porta della città, le strade secondarie abbiano almeno la veduta di una torre: questo è l’espediente adottato da Arnolfo di Cambio a San Giovanni Valdarno, anche se così le torri dall’esterno non apparivano equidistanti.

Quando nel Quattrocento la popolazione delle città ricominciò ad aumentare - una sensazione piuttosto che un riscontro statistico - divenne evidente che lo stock dei temi collettivi disponibile era relativamente scarso rispetto alle loro nuove dimensioni (la cattedrale o il palazzo municipale non possono evidentemente venire duplicati), sicché le strade dritte con il fondale della porta o di una torre, progettate tra il Duecento e il Trecento, nelle città nuove verranno riprese su una scala molto più ampia. In questo modo sembrarono una soluzione ragionevole, anche se non esaustiva. Nel progetto della sua città ideale, la Sforzinda, Filarete disegna strade lunghe, dalla piazza centrale alla porta corrispondente, addirittura tre chilometri, e la prime realizzazioni, a Ferrara la Giovecca e a Roma la via Alessandrina e la via della Lungara, sono dell’ordine dei mille metri.

Lo schema di sfruttare al massimo l’efficacia simbolica dei temi collettivi, collocandoli al termine di lunghe prospettive, avrà una rapida e duratura diffusione - tutti conoscono gli Champs-Elysées a Parigi, il viale della Libertà a Palermo, la via di Toledo a Napoli, il viale Carducci a Livorno, il viale della Vittoria a Ancona - e sarà fino a cinquant’anni fa l’artificio più corrente per assicurare anche ai cittadini delle periferie più nuove e lontane il sentimento della loro dignità di cittadini.

Sarà l’urbanistica moderna, con il suo principio funzionalista, ad incrinare questa tradizione, ad immaginare che la città sia l’insieme di quartieri o di edifici isolati tra loro che potrebbero appartenere a qualsiasi città e fors’anche a nessuna, e mentre nella parte ottocentesca di una grande città come Milano o Parigi il senso dell’appartenenza è mantenuto vivo da temi collettivi di architettura consapevolmente cospicua situati al termine di lunghe prospettive, che coinvolgono tutte le zone intermedie, nella periferia moderna di città molto meno grandi le nuove case sono sorte senza affacciarsi sulle strade che testimoniavano la continuità del loro legame fisico attraverso i secoli, dove anche i temi collettivi hanno perso il loro risvolto simbolico, le chiese sembrano capannoni e le delegazioni municipali, invece d’essere le grandiose mairie degli arrondissement di Parigi o di Bruxelles, sembrano palazzine.

Le città nuove, ovviamente, non funzionano gran che meglio delle antiche, perché la funzionalità è connessa a una razionalità tecnico-economica i cui termini, legati al progresso, cambiano per loro natura più rapidamente dei muri delle città, legati alla stabilità nel tempo di una immagine simbolica, sicché sono piene di scuole derelitte, di campi di gioco in disuso, di case popolari fatiscenti. Nella città antica, quando la regola aggregativa degli edifici era prima di tutto estetica, vecchi conventi diventavano caserme e poi scuole e oggi forse musei, mentre una città fatta di funzioni rigide diventa rapidamente obsoleta.

In tutto questo intravediamo l’inconsapevole disprezzo delle élite per i ceti meno privilegiati, di architetti - di sinistra - che si guardano bene dall’andare ad abitare nelle periferie da loro stessi progettate e che trattano gli uomini come mezzi per i loro esercizi formali, anziché vivere con rispetto il problema della dignità di ogni uomo.

E’ tecnicamente del tutto possibile stendere un progetto che riprenda il filo interrotto dei progetti ottocenteschi - io stesso ne ho steso uno per Moderna - ma l’ostacolo più serio è la riconversione delle mentalità: come diceva Maxwell parlando delle teorie scientifiche, "una nuova teoria non si impone per la sua verità ma solo perché muoiono i sostenitori della vecchia".

 

 

Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui

Archivio Attualita'

 


homearchivio sezionearchivio
Copyright © Caffe' Europa 1999

Home | Rassegna italiana | Rassegna estera | Editoriale | Attualita' | Dossier | Reset Online | Libri | Cinema | Costume | Posta del cuore | Immagini | Nuovi media | Archivi | A domicilio | Scriveteci | Chi siamo