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La nuova destra in Austria e Germania

Barbara Spinelli


Questo articolo è apparso su La Stampa(www.lastampa.it) del 3 ottobre.

Il premio Nobel conferito nei giorni a scorsi a Günter Grass è stato accolto in Germania con quasi unanime senso di sollievo, come accade a chi corre precipitosamente verso mete sconosciute e può scendere un attimo dal treno per contemplare il paesaggio, per compiacersi delle azioni intraprese, per osservare da lontano la storia che avanza veloce e inevitabilmente trasforma uomini, nazioni, continenti. I commentatori tedeschi smettono per qualche ora le ansiose dispute contemporanee, interrompono i dibattiti agitati sul passato che non vuol passare, e grazie allo scrittore nato a Danzica hanno l'impressione di poter infine riposare. Di poter chiudere, una buona volta e nel migliore dei modi, quel che chiamano il "terribile secolo tedesco".

Sulla "Frankfurter Allgemeine Zeitung", Frank Schirrmacher giunge sino a comparare quest'ultimo miracolo letterario col miracolo economico della Germania postbellica, la figura del romanziere festeggiato con la figura di Kohl. L'omaggio dei giurati di Oslo è un'"assoluzione tardiva" - scrive - pronunciata sulla generazione che ricominciò la storia tedesca nel '45: generazione che preparò la rinascita economica della nazione, e preparò anche la rinascita spirituale che oggi viene confermata e remunerata. Generazione che trionfò politicamente nell'89-'90, grazie all'intelligente strategia della riunificazione attuata dall'ex cancelliere, e che oggi trionfa intellettualmente tramite Grass. Quest'ultimo ha lungamente e acrimoniosamente osteggiato l'unificazione, in cui vedeva appunto un immeritato verdetto assolutorio del passato nazionale.

Ma il Nobel premia l'una e l'altra cosa: l'ossessione di Kohl come quella di Grass, l'unificazione senza tracotanze nazionaliste e la memoria inquieta, sempre insoddisfatta, che lo scrittore rappresenta. I due uomini si somigliano più di quel che forse vorrebbero: stessa inquietudine, stesse ferite portate fin dal dopoguerra, stesso perpetuo stato d'allarme. Stesso desiderio - sotterraneo, intenso - di ricreare le difficili se non impossibili condizioni di un ritorno all'innocenza. Il Nobel è un monumento alle irrequietezze, che dai tempi di Adenauer e Brandt fondano la politica non solo tedesca ma europea della memoria. E' un omaggio alla potenza virtuosa dei tabù, che sia Kohl sia Grass hanno custodito con tenacia, per decenni, fin quando la Repubblica di Bonn è diventata - sotto Schröder - la Repubblica di Berlino.

Ma il sollievo che si è percepito nei giorni scorsi, in Germania come in Europa, nasce anche da un occultamento, da una sorta di escamotage. Grass vince la corsa di Oslo, è vero, ma la sua speciale irrequietudine non si è rivelata vincente, non ha saputo erigere baluardi efficaci contro le tanto temute ricadute nel passato. Lo scrittore voleva fermare la storia, perpetuare l'anormalità di una nazione condannata a non crescere più, come il bambino Oskar Mazerath che volontariamente cade e rifiuta di divenire adulto nel "Tamburo di latta". Per questo era così affezionato alla vecchia dimezzata Repubblica Federale, e alla sua vocazione di impersonare - nella divisione, nella sovranità negata, nell'infanzia forzata - il perenne castigo del popolo tedesco.

Grass e buona parte della sinistra sognavano l'immobilità delle guerre ideologiche europee, e hanno avuto quel che in segreto temevano: il crollo del muro di Berlino, la liberazione dei 17 milioni di tedeschi imprigionati nella Germania comunista, l'eman cipazione dell'Europa svenduta a Stalin. L'eterna anormalità tedesca garantiva uno status quo che nell'89 fu difeso dal romanziere senza rispetto dei popoli sequestrati, senza coscienza dei disastri comunisti, con lo sguardo fisso sull'esperienza unica, incomparabile, narcisista, dell'orrore germanico e del Secolo Tedesco. Status quo che si è infranto, travolgendo Grass assieme ai suoi compagni di fede e mettendoli di fronte a una nuova, prorompente voglia di ritorno alla normalità democratica. Questo è il vero paesaggio che abbiamo di fronte in questo fine secolo, e non le paralisi nazionali ed europee sognate negli Anni 60 e 70, che il romanziere simboleggia.

Di fronte agli occhi non abbiamo un paesaggio ben delimitato da tabù ma piuttosto una tendenza diffusa a farli cadere e gettarli via, senza più complessi: gioiosamente, provocatoriamente, con slancio neoromantico e neonichilista. Non ha pudore né rispetto di tabù Jürg Haider in Austria, che catalizza quella che Carlo Bastasin ha chiamato giustamente - nella sua bella inchiesta su "La Stampa" - la rivolta dei soddisfatti, degli annoiati, degli stanchi di democrazia, di partitocrazia. Nel cuore d'Europa, nell'Austria che non ha mai lavorato sulla propria memoria e sul proprio passato, che si è sempre sentita vittima della storia e del nazismo tedesco, il pensiero nazional-socialista viene riabilitato, alla vigilia delle elezioni legislative di questa domenica.

Haider esalta la politica del lavoro attuata da Hitler, parla della repubblica del dopoguerra come di un "aborto", promette di cacciare gli immigrati, chiede classi separate per gli studenti non austriaci. Non ha remore, perché il suo successo consiste precisamente nell'abolizione dei tabù, nello svincolamento delle coscienze. Non è costretto a fare i conti con i morsi della coscienza e con le resistenze dell'opinione democratica - come accade in Germania ai pensatori neonichilisti - perché l'Austria ha perso l'impero e poi l'onore, fra la prima e la seconda guerra, ma senza consapevolezza delle proprie responsabilità. E' divenuta una nazione più provinciale, retrattile: salvata dall'amnesia, e da un misto sapiente di furbizia, rimozione, e pusillanimità. Non a caso è stato detto, della nazione che fondò un grandioso impero e diede però anche i natali al Führer: "l'Austria è una nazione assai furba, perché è riuscita a far credere che Hitler fosse tedesco e Beethoven austriaco".

Ma l'ansia di abbattere tabù in nome della normalità non è solo austriaca. A Vienna essa si esprime ancora una volta in un leader politico di successo , ma altrove assume le forme di una controffensiva mentale, ideologica. E' il caso del filosofo Sloterdijk, che proprio in Germania abbatte il tabù più scabroso della nazione: il tabù che impediva di parlare di Allevamento (Züchtung) dell'uomo nuovo, di selezione genetica e di razza, di eugenetica e di miglioramento dell'evoluzione biologica. Viene riscoperto Nietzsche, e le sue idee sull'allevamento e l'avvento del Superuomo sono banalizzate, sbandierate più che spiegate. Rüdiger Safranski, autore di libri su Heidegger e sul Male, si indigna e ricorda i due volti di Friedrich Nietzsche (quello intimo, "da musica da camera", che esalta l'arte di padroneggiare e allevare se stessi; quello inserito invece nel "teatro del mondo", ben più pericoloso) ma gli abbattitori di tabù non sembrano aver tempo per fini distinzioni.

Si è creato un vuoto, dopo il tracollo delle ideologie che promettevano l'Uomo Nuovo prodotto da ingegnerie sociali o politiche, e in questo vuoto Sloterdijk si è precipitato. Sono fallite le teorie umanistiche che ammansivano la bestialità degli individui, sono finite le fedi nel progresso sociale, sono decaduti maestri e sacerdoti, e in Occidente non restano secondo il filosofo che élite mediocri, attente solo alle volontà dei due nuovi padroni del pensiero: i media e il mercato mondializzato. Sicché le speranze utopistiche s'aggrappano tutte alla scienza: nuovo idolo che suscita fedi immense. Fedi solo apparentemente moderne, figlie dei Lumi. Proprio a causa dell'immensità della fede, Sloterdijk si rivela piuttosto erede del positivismo romantico, e di un nichilismo arcaicizzante che rifiuta lo spirito critico moderno. Che sogna rifugi in ventri materni manipolati geneticamente, e dunque sempre più rassicuranti, protettivi, immunizzanti. Così grande è il desiderio di immunità che il filosofo tedesco non esita a usare vocaboli provocatori, quando propone le sue "regole per il parco-uomini", le sue idee sulla "politica dell'allevamento di uomini migliori", i suoi codici di "antropo-tecnica selettiva".

Ma Sloterdijk fa di più. Annuncia il decesso delle Teorie Critiche e della Scuola di Francoforte, e contesta radicalmente non solo certe ingenuità di Habermas sulle virtù riparatrici del dialogo e dell'"azione comunicativa", ma una intera cultura tedesca - ed europea - condizionata dalla memoria del secolo. Decreta che i tempi del dopoguerra sono finiti, e che l'intellettuale moderno non può più esser frenato da assurdi vincoli del passato.

Sloterdijk stesso si presenta come l'Uomo Nuovo, che incarnerà lo spirito della Repubblica di Berlino. Solo con lui si può fare quello che il premio a Grass sembrava promettere: scendere dal treno della storia, per entrare tanto più spudoratamente nel futuro. Combattere il panico che quest'ultimo procura, nelle varie nazioni d'Europa, uccidendo i brutti ricordi del passato. Rientrare nel tempo con i mortiferi vocaboli di Hitler, senza tema di esser contaminati. Ha ragione Carlo Bastasin, quando dice che un personaggio come Haider non è altro che fragore: che "principalmente è aria scossa". Ma anche Hitler non fu più di questo, in principio. Anche di lui lo scrittore Tucholsky diceva, prima del '33 : "Quest'uomo di per sé è inesistente. E' solo il clamore da lui suscitato, che esiste". "Der Mann ist gar nicht da. Es ist nur der Lärm, den er verursacht".

 

 

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