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D'Alema alla guerra della comunicazione

Claudio Rinaldi

 


Questo articolo è stato pubblicato su la Repubblica del 29 settembre

Nei sette mesi del 1994 in cui imperversò a Palazzo Chigi, Silvio Berlusconi fece di tutto per onorare la sua fama di Grande Comunicatore. Si esibiva, sorrideva, dispensava battute. All'inizio baciava i bambini che le madri gli offrivano per la strada, e faceva sfoggio di amabilità nelle conversazioni con Livio Zanetti per il giornale radio. Poi, quando il suo governo cominciò a perdere colpi, ordinò alla Rai di trasmettere spot confezionati personalmente da lui. A un certo punto intimò ai suoi ministri di tenere il becco chiuso, proclamando che soltanto Giuliano Ferrara era autorizzato a parlare a nome dell' intero gabinetto. Infine sostituì il proprio portavoce, l'aitante Antonio Tajani, con l'intelligente e fascinoso Jas Gawronski, buon amico di Gianni Agnelli e del Papa.

Nessuno di questi espedienti, tuttavia, sortì il benché minimo effetto. I fatti erano più forti di qualsiasi discorso. Ed erano fatti pesanti: un decreto salva-ladri emanato e subito rinnegato a furor di popolo; una riforma delle pensioni annunciata e subito ritirata sotto la pressione delle piazze; in più molti atti di arroganza, e un'infinità di promesse non mantenute. Non c'era ormai comunicazione, per quanto professionale, astuta, brillante, che potesse salvare il governo. Difatti poco prima di Natale Berlusconi fu costretto a dimettersi.

Chissà se Massimo D' Alema si è ricordato di questo infausto precedente quando, martedì 21 settembre, ha riunito a Villa Madama i suoi ministri e sottosegretari per discutere il da farsi nei 500 giorni prima delle elezioni politiche del 2001. Stando ai resoconti, il presidente è partito da un'osservazione realistica: "Conta l'insieme dei risultati conseguiti, non le posizioni dei singoli". Ma poi ha battuto moltissimo sul tasto dolente della comunicazione. Ha indicato il limite principale del governo proprio nell'incapacità di informare compiutamente la gente sulle tante cose buone, anzi buonissime che fa. E ha invitato tutti i suoi compagni d'avventura ad astenersi da polemiche confuse e annunci a vanvera.

L'impressione, insomma, è che D'Alema, preoccupato dai più recenti sondaggi (secondo Renato Mannheimer non più del 26 per cento degli italiani approva oggi il suo operato), abbia maturato gli stessi due convincimenti del Berlusconi di cinque anni fa: primo, la questione cruciale è quella della comunicazione; secondo, soltanto Palazzo Chigi è in grado di risolverla per il meglio. "Lasciate parlare me", sembra il monito di Villa Madama, "e vedrete che tutto s'aggiusta". Ma è proprio così? Davvero le sorti del centro-sinistra dipendono dalla qualità delle sue esternazioni? E basta immettere nello staff presidenziale un Gianni Cuperlo, o altre persone di talento, per garantire a quei messaggi la qualità sperata?

Che in generale saper comunicare sia importante, è fin troppo ovvio. Non tutti i modi di comunicare, però, si equivalgono. Per l'opposizione, le parole sono assolutamente decisive: consentono di criticare le scelte della maggioranza, di assumere impegni, di delineare il futuro possibile. Per un governo, invece, le parole non sono tutto. Molto di più conta il concreto operare, le decisioni effettivamente assunte. Se queste non ci sono, o si rivelano inefficaci, anche le acrobazie verbali più suggestive diventano fastidiose. Se le decisioni ci sono, e funzionano, qualsiasi goffaggine viene perdonata.

Romano Prodi passava per un comunicatore mediocre, e forse lo era, ma bastò una grande operazione riuscita - l'aggancio alla moneta unica europea - perché tutti i sarcasmi sul suo eloquio da parroco e sulla sua faccia da mortadella svanissero. Per D'Alema oggi il problema è esattamente lo stesso. La sua popolarità è legata non alle cose che dice, bensì a quelle che fa. Deve combattere la criminalità, favorire la ripresa economica, stimolare la creazione di nuovi posti di lavoro, riformare il Welfare State e la previdenza. Se su questi terreni le mosse tardano, o non convincono, il governo si logora; e non c'è mago della chiacchiera che possa metterci una pezza.

Quanto poi alla capacità di comunicazione finora dimostrata da Palazzo Chigi, qualche dubbio è lecito. Nel suo primo anno da premier, D'Alema non si è risparmiato: ha pronunciato ottime orazioni nelle sedi ufficiali, ha tenuto conferenze stampa tutti i lunedì, ha rilasciato lunghe interviste ai telegiornali, ha scritto ampi articoli per l'"Herald Tribune" e l' "Espresso", ha pubblicato agili opuscoli e puntuali libri d'occasione, è stato ospitato nei talk-show di Bruno Vespa e di Maurizio Costanzo, ha partecipato perfino al varietà di Gianni Morandi. Per un leader sempre considerato scorbutico, e ostile ai mass media, lo sforzo di cordialità è stato notevole. Inoltre, D'Alema è stato attento a coltivare una propria immagine di normalità: per esempio facendosi fotografare sulla barca Ikarus, o moltiplicando le apparizioni nella tribuna d'onore dello stadio Olimpico.

Nonostante il gran lavorìo, però, non risulta che l' indice di gradimento del presidente del Consiglio sia cresciuto. Forse le presenze sul palcoscenico sono state troppe, e troppo ripetitive nello stile raziocinante-rassicurante dell' uomo. Forse lui stesso si rende conto di aver esagerato nell'esporsi, se è vero che ha appena deciso di abolire i briefing del lunedì: incontri più dannosi che inutili, dove la mancanza di precisi ordini del giorno obbligava a cimentarsi nell'infelice arte dei brevi cenni sull'universo.

Adesso, a quanto pare, D'Alema intende cambiare musica, e ancorare la comunicazione sua e del governo soltanto alle cose fatte. Se così sarà, il centro-sinistra potrà risalire la china prima del fatale 2001. Se invece su occupazione e sicurezza, su pensioni e par condicio le misure realmente adottate saranno poco o niente, allora tutti i discorsi a esse dedicati si trasformeranno in altrettanti boomerang. Parlare è umano, ma parlare di ciò che non si riesce a fare è diabolico.

 

 

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