Nei sette mesi del 1994 in
cui imperversò a Palazzo Chigi, Silvio Berlusconi fece di tutto per onorare la sua fama
di Grande Comunicatore. Si esibiva, sorrideva, dispensava battute. All'inizio baciava i
bambini che le madri gli offrivano per la strada, e faceva sfoggio di amabilità nelle
conversazioni con Livio Zanetti per il giornale radio. Poi, quando il suo governo
cominciò a perdere colpi, ordinò alla Rai di trasmettere spot confezionati personalmente
da lui. A un certo punto intimò ai suoi ministri di tenere il becco chiuso, proclamando
che soltanto Giuliano Ferrara era autorizzato a parlare a nome dell' intero gabinetto.
Infine sostituì il proprio portavoce, l'aitante Antonio Tajani, con l'intelligente e
fascinoso Jas Gawronski, buon amico di Gianni Agnelli e del Papa.
Nessuno di questi espedienti, tuttavia, sortì il benché minimo
effetto. I fatti erano più forti di qualsiasi discorso. Ed erano fatti pesanti: un
decreto salva-ladri emanato e subito rinnegato a furor di popolo; una riforma delle
pensioni annunciata e subito ritirata sotto la pressione delle piazze; in più molti atti
di arroganza, e un'infinità di promesse non mantenute. Non c'era ormai comunicazione, per
quanto professionale, astuta, brillante, che potesse salvare il governo. Difatti poco
prima di Natale Berlusconi fu costretto a dimettersi.
Chissà se Massimo D' Alema si è ricordato di questo infausto
precedente quando, martedì 21 settembre, ha riunito a Villa Madama i suoi ministri e
sottosegretari per discutere il da farsi nei 500 giorni prima delle elezioni politiche del
2001. Stando ai resoconti, il presidente è partito da un'osservazione realistica:
"Conta l'insieme dei risultati conseguiti, non le posizioni dei singoli". Ma poi
ha battuto moltissimo sul tasto dolente della comunicazione. Ha indicato il limite
principale del governo proprio nell'incapacità di informare compiutamente la gente sulle
tante cose buone, anzi buonissime che fa. E ha invitato tutti i suoi compagni d'avventura
ad astenersi da polemiche confuse e annunci a vanvera.
L'impressione, insomma, è che D'Alema, preoccupato dai più recenti
sondaggi (secondo Renato Mannheimer non più del 26 per cento degli italiani approva oggi
il suo operato), abbia maturato gli stessi due convincimenti del Berlusconi di cinque anni
fa: primo, la questione cruciale è quella della comunicazione; secondo, soltanto Palazzo
Chigi è in grado di risolverla per il meglio. "Lasciate parlare me", sembra il
monito di Villa Madama, "e vedrete che tutto s'aggiusta". Ma è proprio così?
Davvero le sorti del centro-sinistra dipendono dalla qualità delle sue esternazioni? E
basta immettere nello staff presidenziale un Gianni Cuperlo, o altre persone di talento,
per garantire a quei messaggi la qualità sperata?
Che in generale saper comunicare sia importante, è fin troppo ovvio.
Non tutti i modi di comunicare, però, si equivalgono. Per l'opposizione, le parole sono
assolutamente decisive: consentono di criticare le scelte della maggioranza, di assumere
impegni, di delineare il futuro possibile. Per un governo, invece, le parole non sono
tutto. Molto di più conta il concreto operare, le decisioni effettivamente assunte. Se
queste non ci sono, o si rivelano inefficaci, anche le acrobazie verbali più suggestive
diventano fastidiose. Se le decisioni ci sono, e funzionano, qualsiasi goffaggine viene
perdonata.
Romano Prodi passava per un comunicatore mediocre, e forse lo era, ma
bastò una grande operazione riuscita - l'aggancio alla moneta unica europea - perché
tutti i sarcasmi sul suo eloquio da parroco e sulla sua faccia da mortadella svanissero.
Per D'Alema oggi il problema è esattamente lo stesso. La sua popolarità è legata non
alle cose che dice, bensì a quelle che fa. Deve combattere la criminalità, favorire la
ripresa economica, stimolare la creazione di nuovi posti di lavoro, riformare il Welfare
State e la previdenza. Se su questi terreni le mosse tardano, o non convincono, il governo
si logora; e non c'è mago della chiacchiera che possa metterci una pezza.
Quanto poi alla capacità di comunicazione finora dimostrata da Palazzo
Chigi, qualche dubbio è lecito. Nel suo primo anno da premier, D'Alema non si è
risparmiato: ha pronunciato ottime orazioni nelle sedi ufficiali, ha tenuto conferenze
stampa tutti i lunedì, ha rilasciato lunghe interviste ai telegiornali, ha scritto ampi
articoli per l'"Herald Tribune" e l' "Espresso", ha pubblicato agili
opuscoli e puntuali libri d'occasione, è stato ospitato nei talk-show di Bruno Vespa e di
Maurizio Costanzo, ha partecipato perfino al varietà di Gianni Morandi. Per un leader
sempre considerato scorbutico, e ostile ai mass media, lo sforzo di cordialità è stato
notevole. Inoltre, D'Alema è stato attento a coltivare una propria immagine di
normalità: per esempio facendosi fotografare sulla barca Ikarus, o moltiplicando le
apparizioni nella tribuna d'onore dello stadio Olimpico.
Nonostante il gran lavorìo, però, non risulta che l' indice di
gradimento del presidente del Consiglio sia cresciuto. Forse le presenze sul palcoscenico
sono state troppe, e troppo ripetitive nello stile raziocinante-rassicurante dell' uomo.
Forse lui stesso si rende conto di aver esagerato nell'esporsi, se è vero che ha appena
deciso di abolire i briefing del lunedì: incontri più dannosi che inutili, dove la
mancanza di precisi ordini del giorno obbligava a cimentarsi nell'infelice arte dei brevi
cenni sull'universo.
Adesso, a quanto pare, D'Alema intende cambiare musica, e ancorare la
comunicazione sua e del governo soltanto alle cose fatte. Se così sarà, il
centro-sinistra potrà risalire la china prima del fatale 2001. Se invece su occupazione e
sicurezza, su pensioni e par condicio le misure realmente adottate saranno poco o niente,
allora tutti i discorsi a esse dedicati si trasformeranno in altrettanti boomerang.
Parlare è umano, ma parlare di ciò che non si riesce a fare è diabolico.