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A ciascuno il suo Berlinguer

Filippo Ceccarelli


Questo articolo è apparso su La Stampa (www.lastampa.it) del 15 settembre

C’è qualcosa di irresistibile - ma anche d’inespresso - nel fatto che diversi esponenti post-comunisti di rilievo, tutti ex giovani e ora sulla cinquantina, scrivano libri su Enrico Berlinguer. Uno lo ha scritto D’Alema (con lo storico Paul Ginbsborg); un altro Walter Veltroni; questo Frequentare il futuro. Le sfide di Berlinguer e la sinistra di domani, con bella e malinconica foto del leader di tre quarti in copertina, è opera del nuovo presidente dei senatori ds, Gavino Angius, che è sardo come Berlinguer e che con Berlinguer si può dire che ha mosso i primi passi come dirigente nazionale.

Ora, a parte forse il titolo, che suona terribilmente craxiano, o craxoide (Governare il futuro: così Bettino si presentò in libreria appena eletto segretario del psi), ecco, il libro si costruisce per una prima metà su Berlinguer. Ed è tutto sommato un lavoro onesto e perfino interessante, tanto più originale quando pare di cogliere spunti autobiografici (il ricordo del leader prima di decidere l’ostruzionismo sulla scala mobile, il triste ritorno ritorno in aereo con la salma). Mentre per la seconda metà - ahi! - l’impressione è che Angius, come fanno del resto tanti altri politici (ma questa è un’aggravante) abbia assemblato materiale di routine: relazioni, interventi, discorsi parlamentari. Tra le due parti il salto è brusco, e pazienza.

Il punto paradossale - e anche un po’ provocatorio - è che [Image] Berlinguer non l’avrebbe mai fatto. Craxi, su cui Angius scrive tante cose giuste, sì; Craxi era più "moderno" e infatti pubblicava a tutto spiano, minimo un libro all’anno. Berlinguer era all’antica. Basta intendersi sull’espressione. Anche a costo di forzare, Angius rilegge Berlinguer sulla base di categorie del presente: bipolarismo maggioritario, globalizzazione, personalizzazione della leadership, progresso tecnologico. Ma Berlinguer, come disse una volta proprio Craxi, non aveva la tv a colori.

Si riteneva eminentemente un dirigente politico e come tale non scriveva libri. O meglio, o forse: nella mistica comunista, indipendentemente dalla sua persona, egli rappresentava la Razionalità della Storia. Un paio di volte consentì a che la casa editrice del pci pubblicasse raccolte di suoi scritti e interventi - i due volumi intitolati La questione comunista nel 1975, per dire - e anche allora si trattava di testi difficili, in altre parole di "mattonate". Erano altri tempi, certo. Ma sono proprio rigori del genere, rinunce presenzialistiche di questo tipo a confermare l’eccezionalità di un capo e di un uomo come Enrico Berlinguer. Di cui restano le elaborazioni teoriche e l’esempio concreto, ma anche lo stile e, in definitiva, quel che Angius qualifica più volte "tensione etica", "respiro ideale", "concezione alta della politica".

È qui che si comprende l’inconfessata, forse l’inconfessabile ragione che spinge tanti post-comunisti a occuparsi di questa figura. Fede, passione, intransigenza, sobrietà di costumi: Berlinguer è l’incarnazione di tutto ciò che i cinquantenni che oggi guidano l’ex pci hanno accettato di perdere per sempre. Per nessuno più che per loro Berlinguer è un "addio giovinezza", è dubbio sulle proprie scelte, è rimorso o magari è anche un’ultima strada per salvarsi l’anima. Chissà.

 

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