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Il futuro delle biblioteche

Geoffrey Nunberg

 

 

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In un’intervista rilasciata al Washington Post un paio d’anni fa, Bill Gates espose la sua intenzione di dare via la maggior parte del suo patrimonio e rivelò di voler fare con il personal computer “qualcosa di simile a ciò che fece Carnegie con le biblioteche quando disse: ‘I libri danno un tale potere che la gente... deve poterne usufruire’.” Probabilmente fu proprio questo stesso slancio che portò all’annuncio, alla fine del 1997, della concessione di due donazioni in favore di biblioteche pubbliche, una del valore di 200 milioni di dollari sotto forma di software a nome della Microsoft Corporation, l’altra dello stesso importo proveniente direttamente dal patrimonio personale di Bill e Melinda Gates, con lo scopo di fornire tecnologia digitale e accesso ad Internet a tutte le biblioteche che ne fossero state sprovviste.

Come si può prevedere, l’annuncio non mancò di suscitare un certo scetticismo. Le donazioni furono considerate un semplice strumento pubblicitario, dal quale Gates e la Microsoft avrebbero probabilmente tratto ottimi guadagni diffondendo la propria tecnologia nel settore delle biblioteche. Quando fu sollevata la questione nel Consiglio della American Library Association, un consigliere definì le donazioni “un anticipo sull’acquisto delle biblioteche pubbliche”. Alla fine, però, prevalse una posizione più accomodante, dal momento che il consiglio votò a favore del progetto “apprezzando e ringraziando Bill e Melinda Gates... per questa iniziativa lungimirante”.


E’ vero che le elargizioni di Gates non sono state disinteressate quanto quelle di Andrew Carnegie, che devolse un’ingente parte del suo patrimonio alla costruzione di circa 2.000 biblioteche negli Stati Uniti. Ma Gates è senza alcun dubbio sincero quando si dice convinto che i computer in rete possano rappresentare una benedizione per le biblioteche e per il settore dell’educazione in generale, una posizione dopo tutto ampiamente condivisa e che costituisce una pietra miliare della politica educativa dell’amministrazione Clinton. E sarebbe certo ingenuo ritenere che egli non intenda usare questa iniziativa per migliorare la sua immagine pubblica, ultimamente molto appannata. Dopo tutto, Carnegie fece la stessa cosa, ed aveva molto di più da far dimenticare (per quanto discutibili siano i metodi con cui Gates ha ampliato il suo patrimonio, le vittime che egli ha mietuto sono solo figurate).

Ciò che invece colpisce maggiormente dell’iniziativa di Gates è che, ancora una volta, l’uomo più ricco d’America abbia scelto come oggetto della sua filantropia le biblioteche pubbliche, dopo quasi un secolo durante il quale questa istituzione è andata più o meno languendo nella coscienza popolare, e in un momento in cui molta gente ritiene che le biblioteche, nell’era di Internet, non abbiano più alcun futuro. Perché le biblioteche oggi? è quanto ci interessa sapere e, a titolo di risposta, serve anche chiedersi: Perché allora?

Il periodo che va dal 1850 alla prima guerra mondiale ha costituito l’età d’oro delle biblioteche pubbliche americane. Il loro numero passò da 50 nel 1850 a 300 nel 1875, fino a raggiungere alcune migliaia all’inizio del secolo. Questo enorme sviluppo è da attribuirsi in gran parte alla generosa liberalità di Carnegie, ma certamente egli rispondeva ad una convinzione molto diffusa secondo cui le biblioteche costituivano un’istituzione necessaria al progresso sociale, tanto che egli poté affermare che la biblioteca pubblica “supera qualsiasi altra iniziativa che una comunità possa compiere per aiutare coloro che ne fanno parte”. Il movimento a favore delle biblioteche si fondava sull’ideologia di fine ottocento che vedeva nell’alfabetizzazione uno strumento indispensabile per il miglioramento sociale e che potesse inoltre garantire la possibilità di una discussione civica davvero illuminata. Come scriveva J. P. Quincy nel 1876, "[Grazie alla biblioteca pubblica] possiamo prevedere fiduciosi il graduale affrancamento del popolo dai raggiri del retore e del consumato oratore... Man mano che la varia intelligenza che sanno offrire i libri viene assimilata in misura sempre maggiore, gli elementi essenziali di ogni questione politica e sociale potranno essere sottoposti senza timore a quell’istruito senso comune sul quale poggiavano i fondatori del nostro governo”.

I fondatori del movimento per la creazione delle biblioteche avevano in mente un’idea di biblioteca pubblica che, per raggiungere gli obiettivi sopra descritti, fosse socia alla pari della scuola statale. Dopo tutto, era un periodo in cui la scolarità era più limitata di quanto non sia oggi (nel 1890 solo un quarto degli studenti americani finiva le superiori) e i programmi di studio soffrivano di una concezione meccanicistica di apprendimento che poco aveva a che fare con le forme di istruzione a cui aspiravano i riformatori (nel 1890, Charles Eliot stimò che un diplomato del Massachusetts avrebbe impiegato solo 46 ore per leggere ad alta voce tutti i libri che gli erano stati assegnati negli ultimi sei anni di corso). La libreria pubblica, al contrario, sembrava costituire un luogo di incontro accessibile a tutti, “che attrae ed alimenta ogni idiosincrasia”, come disse un suo entusiastico sostenitore. E man mano che si diffondevano le librerie, in esse trovavano lavoro i tanti “apostoli della cultura”, come li definisce lo storico Dee Garrison, molti dei quali diplomati presso le library school di recente istituzione, la prima delle quali fu fondata alla Columbia University nel 1887 da Melvil Dewey (più noto per l’omonimo sistema decimale).

 

Con qualunque criterio tangibile lo si voglia giudicare, nel diciannovesimo secolo il movimento americano per le biblioteche raggiunse un importante successo che lasciò agli Stati Uniti un sistema di biblioteche pubbliche che servì da un modello per tutte le altre nazioni. Con il passare degli anni, tuttavia, la biblioteca pubblica venne sempre più data per scontata. Come istituzione pubblica, assunse così un ruolo rispettabile ma decisamente di secondo piano, con un personale pieno di buone intenzioni ma sottopagato e quasi esclusivamente femminile: nel 1920 circa il 90% degli addetti alle biblioteche pubbliche era di sesso femminile, una percentuale superiore anche rispetto alle insegnanti e alle assistenti sociali (per far capire quale fosse diventata la figura del bibliotecario nell’immaginario collettivo americano, basti pensare alla scena del film La vita è meravigliosa di Frank Capra in cui George Bailey scopre che se non fosse mai nato sua moglie Mary sarebbe stata condannata a una vita da zitella bibliotecaria).

Nel corso del Novecento, la funzione delle biblioteche pubbliche è stata ulteriormente circoscritta. La radio, il cinema e la televisione hanno contribuito a rendere la biblioteca una fonte di intrattenimento e di informazione meno essenziale; né, d’altra parte, le biblioteche hanno fatto molto per competere su questo stesso terreno, visto che le loro collezioni sono ancora prevalentemente costituite da libri. In tempi ancor più recenti, i supermercati del libro hanno ulteriormente indebolito l’importanza delle biblioteche tra coloro che ne costituivano i principali fruitori, la classe media. Man mano che aumenta il reddito disponibile, ci si rende conto che acquistare i libri costituisce un’interessante alternativa al prenderli in prestito, soprattutto visto che i negozianti sono in grado di offrire una selezione illimitata dei titoli più recenti ed un ambiente più congeniale per curiosare e socializzare.

Questo non significa che la gente ha smesso di frequentare le biblioteche: da un recente sondaggio sponsorizzato dalla W. K. Kellogg Foundation è emerso che il 68% degli adulti si è recato almeno una volta presso una biblioteca pubblica nell’anno precedente, mentre il 38% ha affermato di esserci andato più di cinque volte. Tuttavia, con il passare degli anni, la biblioteca ha chiaramente perso importanza nella coscienza pubblica. Se gli stati ed i comuni riconoscono a parole l’importanza delle biblioteche, finiscono per tenerne ben poco conto in sede di bilancio, senza menzionare il fatto che è molto più probabile che un cittadino dotato di civismo versi un contributo in favore di un’emittente locale piuttosto che all’associazione Amici delle Biblioteche. Come ha detto una bibliotecaria intervistata durante il sondaggio della Kellogg Foundation: “Chi è contro le biblioteche? Nessuno. Il fatto è che nessuno si accorge poi molto della loro esistenza”.

E’ certo che la maggiore disponibilità di computer in rete potrà solo ridurre ulteriormente il ruolo tradizionale delle biblioteche pubbliche. Uno studio condotto nel 1998 dal Dipartimento per il Commercio ha mostrato che 62 milioni di persone utilizzano Internet, mentre stando ad altre fonti questo numero sarebbe ancora più alto. La maggior parte di queste persone appartiene a quella fascia di popolazione che ha sempre costituito la principale clientela delle biblioteche: più giovani rispetto agli altri adulti, con redditi superiori ed un’alta percentuale di impiegati (il 45%, rispetto ad una media nazionale del 27%). Si tratta di persone che già utilizzano la biblioteca pubblica con minore frequenza rispetto ai loro genitori, che vi cercavano letture istruttive e di evasione. Oggi non è più necessario ricorrere alla biblioteca nemmeno per il genere di informazione che di solito non si ottiene dalla Radio Pubblica Nazionale o da Barnes and Noble: un articolo biografico su Charles Babbage, il testo di un progetto di legge, la mappa dell’Uruguay. Può ancora essere utile una biblioteca nei paraggi da utilizzare come ultima risorsa, ma esistono numerose alternative molto più comode alle quali ricorrere prima di ripiegare su di essa.

Ma a differenza delle altre fonti d’informazione e intrattenimento emerse nel ventesimo secolo, i computer in rete hanno attirato l’attenzione sulle biblioteche più di quanto sia mai accaduto negli ultimi cento anni. Dietro questo rinnovato interesse si cela un nuovo concetto di alfabetizzazione, questa volta non espresso secondo l’importanza dei libri e della lettura, ma secondo la nozione più vaga di “accesso alle informazioni”. Da un lato, l’alfabetizzazione informatica è considerata essenziale per la mobilità sociale; da ciò il rischio che il mancato accesso universale alla tecnologia determini un divario economico-sociale tra coloro che sono in possesso delle informazioni e coloro che ne sono sprovvisti. Al tempo stesso, la gente è convinta che l’accesso universale alle informazioni sia un requisito indispensabile per un sano dibattito civico; per citare un recente rapporto della Benton Foundation, “il libero flusso di informazioni verso tutti coloro che lo desiderano, indipendentemente dalla razza, dal reddito o da altri fattori, è di vitale importanza per il funzionamento di una società libera”.

La donazione di Gates è un segno, molto pubblicizzato, del nuovo interesse sorto intorno alle biblioteche, ma ce ne sono molti altri. La National Science Foundation ha sponsorizzato un’iniziativa in favore delle biblioteche digitali che prevede un primo finanziamento di oltre 25 milioni di dollari per un’ampia gamma di progetti. Biblioteche importanti come la Biblioteca del Congresso e la Biblioteca Pubblica di New York hanno dato il via ad ambiziosi progetti di biblioteche digitali, al pari delle biblioteche nazionali di Inghilterra, Francia e Germania. Società come la IBM hanno fatto della “biblioteca digitale” il tema di nuovi gruppi di applicazioni. E il settore della biblioteconomia, finora assopito, si è “reinventato” attraverso programmi nuovi o adattati ai tempi moderni, talvolta ricorrendo a nomi diversi per cancellare gli stereotipi tradizionali (e, dobbiamo dirlo, tutti al femminile) della professione libraria (alla University of California di Berkeley, la School of Library and Information Studies è stata chiusa alcuni anni fa e sostituita dopo qualche tempo con una School of Information Management and Systems, in cui ai docenti della vecchia facoltà sono stati aggiunti esperti di informatica, economisti, professori di scienze politiche e di diritto).

In tutto questo c’è senz’altro un aspetto legato alla moda del momento, ma non più di quanta ce ne fosse nel movimento delle biblioteche del secolo scorso. Il problema è piuttosto un altro. Quando sarà passata l’attuale ondata di entusiasmo, le infrastrutture e le istituzioni che resteranno saranno solide quanto quelle che nacquero un secolo fa? E quale sarà il ruolo effettivo che dovranno svolgere le biblioteche tradizionali nel nuovo ordine informatico?

Il problema, quando si parla del futuro delle biblioteche, è che non sempre è chiaro che cosa intenda la gente con questo termine. Per molte persone, l’espressione “biblioteca digitale” evoca un’immagine di trasformazione dell’attuale biblioteca in una forma elettronica disincarnata. Nessuno si spinge al punto da prevedere la fine della biblioteca tradizionale; questa istituzione deve perlomeno essere mantenuta per svolgere un ruolo di archivio nel quale conservare i “lasciti” di libri e documenti cartacei, nonché come rete di sicurezza per i “poveri dell’informazione”. Ma, come istituzione, la biblioteca è sostanzialmente assente dalla maggior parte dei possibili scenari prefigurati per il nostro futuro. Il vice presidente degli Stati Uniti, Al Gore, descrive spesso come immagina nel futuro “una scolara della mia cittadina natale, Carthage, nel Tennessee, che torna a casa, accende il computer e si collega con la Biblioteca del Congresso” (forse vi chiederete se a Carthage non esista una bella biblioteca pubblica la cui collezione di testi è più che sufficiente per le necessità di chiunque possa essere definito scolaro). Intanto la IBM ha appena distribuito uno spot pubblicitario nel quale un viticoltore toscano spiega con orgoglio alla nipote di essersi appena laureato nientedimeno che all’Università dell’Indiana, proprio perché gli è stato possibile accedere online all’intera biblioteca dell’università grazie alla IBM.

Questo spot dell’IBM ha creato una certa confusione sull’attuale stato della digitalizzazione delle biblioteche, al punto che il responsabile delle biblioteche dell’Università dell’Indiana ha dovuto rilasciare una dichiarazione spiegando che le biblioteche dell’università non erano state rese disponibili online, e che solo una parte della sezione musicale era stata digitalizzata in collaborazione con l’IBM e prima o poi sarebbe stata accessibile sulla Rete. Si comprende ora come le gente ritenga che questi scenari siano del tutto credibili, non già a causa dell’attuale clima da “bombardamento tecnologico”, ma perché non passa neanche una settimana senza che venga annunciato un progetto teso a convertire in forma digitale una raccolta presente in qualche biblioteca: dai testi musicali dell’Indiana alla raccolta di libri matematici dell’’800 a Cornell, dal progetto “Memoria americana” della Biblioteca del Congresso ai miliardi di pagine attualmente conservate presso l’UMI, la ex University Microfilm. Giornali, periodici, riviste specializzate: tutto diventa accessibile online e si può prevedere che queste pubblicazioni elettroniche saranno presto il principale mezzo di diffusione di articoli ed informazioni scientifiche, dati gli elevati costi legati alla stampa, la generale disponibilità di computer in rete nell’ambito della comunità scientifica e l’importanza di ridurre al massimo i tempi tra una pubblicazione e l’altra.

Non deve dunque sorprendere che la gente comune consideri la scomparsa delle biblioteche tradizionali non solo inevitabile ma addirittura imminente e che non intenda spendere neanche un centesimo per sostituire o ampliare le attuali biblioteche: perché curarsene, se i libri possono diventare obsoleti da un giorno all’altro? Il fatto è, però, che ci vorrà molto tempo prima che la maggior parte delle raccolte presenti nelle biblioteche sia resa disponibile online, e ci sono ancora alcuni problemi fondamentali da risolvere prima che si possa procedere a qualsiasi forma di conversione su vasta scala. Innanzitutto, non esistono ancora criteri generali per la scannerizzazione, l’archiviazione o il formato dei documenti che devono essere digitalizzati (criteri che non sarà facile stabilire nell’universo decentralizzato di Internet, soprattutto in ambito internazionale e in un contesto tecnologico in continua evoluzione). Inoltre, non è chiaro chi dovrà addossarsi i costi legati alla conversione. In questo momento, costerebbe circa un miliardo di dollari digitalizzare solo i 17 milioni di libri presenti nella Biblioteca del Congresso, senza contare i 95 milioni di altri documenti contenuti nella stessa biblioteca ed i documenti provenienti da altre raccolte che non sono qui rappresentate; ci sarebbero poi anche i costi annuali legati all’archiviazione e all’”aggiornamento” della raccolta per tenere il passo con il deterioramento e l’obsolescenza dei supporti magnetici. A differenza dei costi di elaborazione e archiviazione, tuttavia, quelli legati alla conversione non subiranno un’eccessiva riduzione nei prossimi anni, poiché si tratta di un’attività che necessariamente richiede un uso intensivo di personale. Possiamo dunque prevedere che il processo di conversione richiederà un periodo molto lungo; è evidente che le centinaia di migliaia di “libri fragili” e di altri documenti in condizioni precarie presenti nelle raccolte delle biblioteche si saranno completamente decomposti prima che qualcuno riesca a digitalizzarli.

(segue)

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