Violoncello solo per Maisky
Josè Luis Sànchez-Martìn
Durante gli anni '60 uno dei più brillanti musicisti della seconda
metà del Novecento, Leonard Bernstein, tenne per la televisione
americana una serie di "lezioni" sulla musica, dedicate
specialmente ai giovani: si svolgevano infatti in un grande auditorium
colmo esclusivamente di ragazzi e ragazze attentissimi. Bernstein era
accompagnato dall'orchestra filarmonica di New York e aveva dichiarate
intenzioni didattiche ma, come gli era solito, il suo approccio
appassionato, diretto e informale risultava affascinante e divertente
al tempo stesso, togliendo quella maschera di tetra cupezza dietro la
quale molti musicisti "classici" amano nascondersi e
nascondere la musica, forse per conservare un certo alone di
elitarietà, di "inarrivabile profondità" e di presunta
genialità.
Già quelle caratteristiche di accessibilità, di leggerezza, di
chiarezza e di divertente "divulgazione", rendevano quelle
popolarissime trasmissioni momenti di trasgressione insopportabili per
il mondo accademico, ma il vero scandalo sono state puntate come
quella dedicata ai Beatles, per la prima volta "eseguiti" da
una orchestra sinfonica e apprezzati da un importantissimo musicista
di scuola "colta". Per capire la portata dello scandalo, si
ricordi che allora i quattro di Liverpool erano considerati degenerati
capelloni urlatori, diabolici deviatori della purezza della gioventù
e corruttori del loro acervo gusto.
Un'altra puntata scandalosa fu quella in cui Bernstein tentò una
possibile definizione di musica "classica" in rapporto a
quella "leggera": secondo lui, la differenza fondamentale
risiedeva nel fatto che la classica doveva essere eseguita così come
era scritta, o meglio ancora, era stata scritta pensando già a come
doveva essere eseguita, la leggera invece, se eseguita come scritta,
sarebbe risultata piatta e senza anima, perchè era stata scritta per
venire ineluttabilmente interpretata. Ne seguiva un esempio con una
delle canzone "leggere" di Gershwin, musicista amato da
Bernstein e di cui è stato in qualche modo l'erede, eseguita da lui
stesso al pianoforte prima in modo "letterale", e quindi
piatta, poi nello stile di Armstrong e così via. Certo, nessuno come
lui, direttore di orchestra di gusto personalissimo, sapeva che anche
la musica classica è inevitabilmente interpretata, ma voleva mettere
l'accento sullo stretto margine entro il quale questo accadeva.
Qualche decennio dopo, sempre in una serie di puntate televisive sulla
musica, un altro grande direttore, George Solti, spiegava ed
esemplificava nella sua esecuzione al pianoforte come la sola
differenza di quattro battiti al minuto del metronomo, e quindi una
minima variante della sola "velocità" di esecuzione di una
sinfonia, ne fosse fortemente caratterizzante e determinasse una vera
e propria interpretazione che, secondo lui, poteva snaturare il senso
della composizione. Bastino questi due esempi per mettere in luce,
anche se in modo grossolano, il problema dell'interpretazione
nell'ambito della musica classica o colta, che dir si voglia.

Uno dei musicisti più dibattuti sulla possibile filologia di
esecuzione della sua opera è sicuramente Johann Sebastian Bach. In
gran parte ignorato o non sufficientemente apprezzato in vita,
dimenticato per molto tempo a favore del figlio Carl Phillipp Emanuel,
fu riscoperto grazie a un giovanissimo Mendelssohn e tornato quindi
tra di noi in pieno romanticismo, secondo i cui stilemi è stato molto
spesso interpretato. Oggi, però, ci sono registrazioni dell'opera di
Bach praticamente in ogni stile, trascrizione e secondo ogni criterio
d'interpretazione: da quelle ortodossamente filologiche eseguite con
strumenti d'epoca a quelle duramente criticate dal mondo dell'accademismo
conservatore, come l'esecuzione del "Clavicembalo ben
temperato" al pianoforte da parte di Keith Jarrett, noto fino a
quindici anni fa soprattutto come jazzista. L'esempio è molto valido,
perché è proprio lì, nella composizione per strumento solo, che la
"fedeltà" oppure la "libertà" di interpretazione
è una scelta chiara e netta, con tutti i problemi e dibattiti
connessi.
Tra le opere di Bach più di moda negli ultimi anni, non solo nelle
esecuzioni in concerto ma anche come colonna sonora di danza, film,
pubblicità e quant’altro fa spettacolo, c'è appunto uno dei più
grandi capolavori mai scritti per strumento solo: le sublimi,
suggestive e impegnative Suite per violoncello. Sono state cavallo di
battaglia e banco di prova dei più grandi violoncellisti del secolo
appena trascorso: Pablo Casals, Pierre Fournier, Mstislav Rostropovich,
Paul Tourtelier, Yo-Yo Ma e tanti altri. Al Teatro Olimpico di Roma,
nell'attuale stagione della Filarmonica Romana, il famosissimo
violoncellista Mischa Maisky, in due serate, in occasione della sua
nuova registrazione, le ha proposte con una calorosa accoglienza del
suo ormai affezionato pubblico, in una nuova originalissima e molto
personalizzata versione.
Nato nel 1948 a Riga, in Lettonia, dopo aver iniziato gli studi nella
sua città natale, Maisky è passato al Conservatorio di Leningrado.
Nel 1966 ha iniziato a studiare al Conservatorio di Mosca con uno dei
miti della musica del Novecento, il violoncellista M. Rostropovich,
svolgendo allo stesso tempo un'intensa attività concertistica. Nel
1972, Maisky, che oggi vive in Belgio, sceglie di emigrare in Israele.
Comincia così una brillante carriera internazionale, vincendo l'anno
seguente il Concorso Cassadò di Firenze e debuttando alla prestigiosa
Carnegie Hall di New York come solista con la Pittsburgh Symphony
Orchestra diretta da William Steinberg.
Nel 1974 si perfeziona con Gregor Piatigorsky, diventando l'unico
musicista che abbia avuto l'onore e la fortuna ad aver studiato sia
con Piatigorsky che con Rostropovich. Dal 1975 svolge lunghe e
fortunate tournée negli Stati Uniti, in Europa, Australia ed Estremo
Oriente, ed è ospite abituale dell'esigente Giappone. Dal 1982
registra numerosi dischi per la Deutsche Grammophon, casa con la quale
ha un contratto in esclusiva, sia da solo, in duetti con noti pianisti
o in concerto con importanti orchestre sotto la direzione di grandi
musicisti come Bernstein, Sinopoli e Bychkov. In particolare il suo
rapporto con Bach è molto articolato, registrando tra l'altro
l'integrale delle Sonate per viola da gamba e cembalo in duo con
Martha Argerich e ben due diverse incisioni delle Suites per
violoncello solo (1985 e 2000), ascoltate appunto in quest'ultima
"versione" in questi giorni.
Introducevamo queste righe parlando non a caso della dibattuta
questione dell'interpretazione nella musica classica, giacché i
concerti di Maisky hanno posto ancora una volta in primo piano il
diritto del musicista alla libertà di esecuzione rispetto alla
scrittura o alla filologia. Il notissimo inizio del Prélude della
prima Suite è a dir poco traumatizzante, per lo stravolgimento
ritmico e l'arbitrarietà delle scelte esecutive. Superato lo shock
iniziale, però, viene in evidenza che Maisky ha fatto una scelta ben
precisa e ponderata che, a scapito della bellezza in senso classico
della melodia, preferisce esplorare le probabili potenzialità interne
alla struttura e alle cellule sia ritmiche che melodiche, accentuando
addirittura la presenza della propria gestualità,
"sporcando" ma arricchendo al tempo stesso un mito della
"pulizia" esecutiva. In riassunto, questa è la
caratteristica dominante di tutta la sua interpretazione, con
risultati diversi in diverse direzioni.
L'operazione sembra quasi di stampo jazzistico. Nel Jazz sono
indispensabili sia l'interpretazione molto personalizzata, spesso di
brani arcinoti come "standard", sia l'improvvisazione,
basata su diversi criteri di variazioni e digressioni sul tema
melodico iniziale, diversi a seconda della scuola jazzistica alla
quale il musicista faccia riferimento. Certo, Maisky non ha
"variato" il tema (le note sono quelle di Bach e ci sono
tutte) ma l'arbitrarietà con cui le interpreta, particolarmente nei
cambi dell'accentuazione ritmica, della velocità di esecuzione
(alcune frasi si ripetono in tempi raddoppiati od oltre) delle scelte
originali anche nella suggestione emotiva, fanno sì che ci sembri di
ascoltare quasi una variazione jazzistica.
In realtà, come i jazzisti personalizzano le interpretazioni altrui
degli standard già ascoltati, sembra che Maisky voglia prendere le
distanze dalle famose interpretazioni di altri violoncellisti più che
dalla scrittura di Bach. Scelte diverse ogni volta per ogni Suite,
però, e continuando col paragone jazzistico, a volte sembra diventare
uno scatenato e "free" Charlie Parker (prima Suite), a volte
uno ispirato e trascendentale John Coltrane (quinta Suite).
Usando un altro paragone, le interpretazioni musicali di Maisky
ricordano il lavoro che Picasso faceva su quadri di pittori da lui
molto amati: il soggetto da rendere cubista, per esempio, in quei casi
non era la natura o la realtà ma "Las Meninas" di Velasquez
o la vista dalla finestra dello studio di Mattisse, ridipinti anche in
dieci o quindici versioni diverse.
Quella di Maisky non è l'esecuzione consigliabile da portarsi
nell'isola deserta, non è rassicurante, non propone soluzioni ma apre
nuovi problemi, richiede molta concentrazione e impegno
all'ascoltatore, ma è una grande esperienza musicale, quella di un
maestro del contemporaneo che può permettersi di esplorare nuove
possibilità laddove sembrava tutto già detto.
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