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Paperopoli è tedesca o americana?



Nina Fürstenberg



Paperopoli appartiene alla Leitkultur tedesca o a quella americana? Questa è stata l’ironica questione sollevata dal Ministro degli Esteri tedesco Joschka Fischer a margine della surriscaldata discussione che ormai da più di un mese tiene sulla corda l’opinione pubblica tedesca.

Mentre l’Italia è alle prese con la paura dell’immigrazione e con la necessità di limitarla, la Germania si rassegna al dato di fatto di essere ormai diventata un paese di immigrazione e si pone il problema di come affrontare l’integrazione degli immigranti. Leitkultur contrapposta a multiculturalismo, integrazione culturale contrapposta a ghettizzazione. Già, ma come?

In Italia non sono bastate neppure le provocazioni di Bossi a suscitare la formulazione di una domanda più approfondita dal punto di vista politico e culturale. Solo la chiesa cattolica ha messo allo scoperto il problema in modo piu’ esplicito di quanto non osino fare i politici ed ha preso - nella persona del cardinale Biffi - una posizione abbastanza definita a riguardo del islam, suggerendo al governo di favorire l’immigrazione cristiana. Ma torniamo in Germania.


Il concetto di deutsche Leitkultur è stato introdotto nella discussione politica e culturale dalla direzione della CDU (Democrazia Cristiana), in particolare da Friedrich Merz e Jörg Schönbohm. Anche la Presidente del partito, Angela Merkel, ha definito l’idea di Leitkultur come “un pensiero importante”. Leitkultur è la risposta dei conservatori al multiculturalismo della sinistra. Il contenuto del concetto spazia dai valori della costituzione e della democrazia fino alla ‘cultura occidentale’, alla lingua tedesca ed al ruolo della donna. Ciò che si deve creare è un modello di coesistenza che sia accettabile sia per gli stranieri che per i conservatori.

Il concetto si rifà al professor Bassam Tibi, sociologo e filosofo nato a Damasco ma da molti anni residente in Germania. Egli da un lato esprime la necessità di una cultura-guida che permetta, in ambito europeo, una condivisione di valori con i ‘migranti’, dall’altro esige anche una ‘moralità internazionale’ al di fuori dell’Europa. La prima deve essere europea, la seconda ‘sovraculturale’. Tibi ascrive alla Leitkultur anche un valore deterrente contro l’intolleranza, in particolare quella dei molti integralisti islamici in Europa. L’ideologia del multiculturalismo - questa è la sua critica - spesso purtroppo confonde la molteplicità culturale con la sconnessa coesistenza di ghetti culturali l’uno accanto all’altro, così come confonde la tolleranza con il fondamentalismo. Egli sostiene che una Leitkultur aiuterebbe gli immigranti ad integrarsi.

La Francia ha da lungo tempo stabilito una propria Leitkultur nazionale rispetto agli immigranti. Così, ad esempio, il chador - il foulard che le ragazze intregraliste usano per coprire la testa - non è tollerato nelle scuole. La lingua francese ed i valori costitutivi della cultura e della costituzione della Francia sono premesse irrinunciabili. Nessuno ha contrastato queste decisioni prese a livello nazionale, al contrario esse appaiono del tutto logiche in un paese che è spesso stato irriso a causa del suo estremo sciovinismo.

Altrettanto comprensibile è il fatto che, in Germania, alla ricerca di valori culturali nazionali si ribatta rudemente con la paura che riemergano valori culturali tedeschi di stampo nazionalsocialista. E le critiche sono giunte non tanto dall’estero, né dagli intellettuali islamici, quanto dalle file interne del paese. In occasione dell’anniversario della caduta del muro a Berlino e della notte dei cristalli del 9 novembre, il Presidente della Repubblica federale, Johannes Rau, si è scusato di questa discussione sulla Leitkultur con Paul Spiegel, esponente del Consiglio Centrale degli Ebrei, sottolineando come questa formula suggerisca l’idea di un primato culturale che è invece da evitare, soprattutto nei confronti della stessa Europa. Destra e sinistra hanno allora preso posizione. Il presidente del partito estremista dei Republikaner per primo ha fatto professione di Leitkultur, sentendosi finalmente compreso.

La questione immediatamente successiva, vale a dire che cosa siano l’identità e la Leitkultur tedesche, ha riaperto la dolente e sanguinante ferita che i tedeschi ancora portano dalla seconda guerra mondiale. La punizione per l’Olocausto è consistita proprio nel fatto che i tedeschi hanno collettivamente deciso di bandire l’idea di una cultura propriamente tedesca, così scrive sul tema eremy Rifkin, noto giornalista americano e critico della globalizzazione. Ha intitolato il suo articolo “Che cosa vi fa tanta paura?”, sottolineando che, per quanto riguarda l’America, è proprio la sua Leitkultur a costituirne la massima forza. E Rifkin si spinge anche oltre: i tedeschi sono un popolo con un futuro economico ma senza un passato culturale. Ma può consistere davvero come società un popolo che si accorda soltanto un’identità politica ed economica?

Gustav Seibt scrive su Die Zeit in un articolo sulla “ Leitkultur” che anche gli italiani, nell’insieme, non hanno un’opinione migliore della loro nazione di quanto ne abbiano i tedeschi, e tuttavia essi trovano un piacere in se stessi, nella loro gioia di vivere, nella bellezza dell’arte e del paesaggio, che questo piacere originario crea loro un clima sociale che, pur non essendo sempre totalmente cordiale, tuttavia non lascia spazio all’odio per lo straniero. Il politico tedesco Merz ha osato dichiarare comunque, parlando della Leitkultur tedesca, “amo la Germania”

Forse, nel momento in cui i tedeschi riuscissero a mettere da parte il proprio odio verso se stessi, non sarebbe più necessaria una ‘politica della Leitkultur’ tanto strutturata. Allora, al posto dell’ipocrita negazione della propria cultura, potrebbe nascere un vero amore verso la propria cultura. Chi sa se allora non sarebbe anche più facile far conoscere e diffondere questa cultura. Dall’odio verso se stessi all’odio verso lo straniero il passo non è lungo.

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