Parole d’amore
Antonia Anania
Una foto in bianco e nero campeggia in palcoscenico: è Roland Barthes,
e si sente la sua voce, mentre fa una delle sue lezioni. Altre foto di
seminari e conferenze, e poi appare sulle quinte la prima parola d’amore
- “assenza” - e alcuni filmati girati all'interno di rompantici
caffè parigini. In sottofondo, una canzone francese. In palcoscenico,
quattro personaggi seduti attorno a un tavolino: il professore
(Massimo De Francovich) e i suoi tre assistenti, Marquis (Lorenzo
Amato), Pelléas (David Sebasti) e Werther (Davide Dall’Osso), che
parlano di ciò che amano di più: “la cannella, … la pasta di
mandorle, …le rose..". Ovviamente, si finisce col parlare d’amore.
Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes rivive fino
al 23 dicembre al “Piccolo Eliseo” di Roma. L’esperimento
teatrale, diretto da Piero Maccarinelli, è “un modo - spero gentile
e certo affettuoso -per ricordare un Maestro di tanta finezza”, come
afferma Rita Cirio, che ha tradotto dal francese e adattato per il
teatro questo primo e unico lessico d’amore.

Roland Barthes scrisse Fragments d’un discours amoureux (Seuil
1977) per la necessità di "affermare" le parole d’amore
passionali e fisiche, cioé quelle che coinvolgono i sensi, perché
“il discorso amoroso è oggi d’una estrema solitudine (…)
parlato da migliaia di individui (chi può dirlo?) ma non sostenuto da
nessuno (…) completamente abbandonato dai discorsi vicini (…)
ignorato, svalutato, schernito, tagliato”. Nell’insolito
dizionario, lo scrittore e semiologo, laureato in Lettere Classiche,
inserì come glosse tutte le figure e le frasi d’amore che si
ripetono più o meno con la stessa costanza e intensità in ogni
rapporto, dall’ ‘abbraccio’ fino al ‘voler prendere’, e si
servì per i glossemi-spiegazioni di riferimenti e analisi di testi
come il Simposio e il Fedro di Platone, i romanzi di
Proust, Sade, Sartre e Flaubert, i drammi di Brecht, le
interpretazioni filosofiche di Nietzsche e quelle psicologiche di
Freud, i personaggi letterari che si struggono d’amore come il
Werther di Goethe, gli eroi mitologici e i monaci zen.
L’adattamento teatrale è talmente intelligente da dare
l'impressione che il testo sia nato proprio per le scene. Chi assiste
allo spettacolo non si stanca, vedendo e ascoltando l’evolversi
veloce del “discorso”. Nell’adattamento, Rita Cirio mette
insieme due storie, quella raccontata nel testo, e quella del suo
autore, Roland Barthes, che appare in scena non solo grazie alle sue
foto ma anche attraverso il personaggio del professore, figlio amoroso
di una madre premurosa e sempre presente (si dice che dopo la morte
della madre Barthes sia invecchiato molto velocemente).
L’omaggio è anche ai gusti dell'autore, che vengono rivissuti all’inizio
e alla fine dello spettacolo tramite la recitazione del capitoletto
“j’aime/j’aime pas” contenuto nella sua autobiografia, "Roland
Barthes par Roland Barthes": questo mi piace e questo no,
dall’insalata fino al passeggiare in sandali sulle stradine del
Sud-ovest. Infine c’è il ricordo della strana morte dello
scrittore, travolto da un camioncino il 26 marzo 1980, mentre usciva
dal College de France, dove teneva le sue lezioni.
La storia libresca e statica dei Frammenti qui diventa viva e
teatrale; le parole d’amore si raccontano non nell’ordine
alfabetico del dizionario, ma in quello quasi sempre temporale delle
storie d’amore discusse dai quattro personaggi. Dapprima si vive in
“assenza” di una lei che una volta incontrata diventa “adorabile”.
Ma quando si scopre qualcosa di strano nell’oggetto amato ecco l’“incrinatura”,
l’“angoscia”, l’“ascesi”. Poi ritorna tutto come prima,
gli appuntamenti sono sinonimo di “attesa” ma anche di festa, e
spesso, in un’altalena di sentimenti e umori, ci si serve degli “occhiali
neri” per occultare la passione (mai mostrarla per intero, solo un
po’) e le lacrime.
E ancora, prima o dopo avviene “il colpo di fulmine” che provoca
la cotta che nel linguaggio solenne viene chiamata innamoramento.
Anche dire“io ti amo” è pericoloso: non si risponde mai nel modo
giusto. Chi ama fa “il regalo d’amore”, e si veste accuratamente
prima di incontrare l’amata (l’“abito”). “Il corpo dell’altro”
provoca languore e desiderio, bisogna scrutarlo per scoprirlo. Poi,
come in ogni storia che si rispetti, arrivano la “gelosia”, la “scenata”,
la “catastrofe” (che può portare al suicidio o al convento o in
casi meno tragici al viaggio), arrivano le lacrime. Ma di solito sono
“tutti sistemati”, anche se una storia d’amore è destinata
sempre alla fine, di cui non si conoscono né i modi né i tempi (“come
finisce un amore”). C’è però un’altra certezza, un’altra
costante: si finisce sempre per “ricominciare”.
Il regista Piero Maccarinelli e lo scenografo Lorenzo Miglioli hanno
voluto coinvolgere tutti i possibili linguaggi visivi e uditivi, e non
solo quelli tradizionalmente teatrali: le quinte sono state divise in
due parti, su quella superiore si proiettano filmati, foto, spezzoni
di Casablanca, Via col vento e Vacanze romane,
che mostrano come può finire male un amore. Anche la scelta delle
canzoni francesi, da quelle di Edith Piaf a quella scandalo di Serge
Gainsbourg e Jane Birkin, è azzeccata e serve a coinvolgere il
pubblico.

E adesso gli attori, affiatati e "omogenei". Prima su tutti
Massimo De Francovich, che impersona un professore stanco, esperto d’amore
e irrimediabilmente solo “perché chi è innamorato è sempre solo”.
Lorenzo Amato è il saputello, il primo della classe (ogni tanto
ingessato, altre volte più sciolto) anche nei sentimenti.(detestabile!).
David Dall’Osso è Werther, dunque il personaggio romantico, bello
col suo mantello, la camicia svolazzante e il fiore all’occhiello,
che mostra tutta la sua ironia nel momento di regalare qualcosa all’amata
e in quello di vestirsi per incontrarla (e quando fa tutte quelle
smorfie ironicamente languide sembra proprio che guardi te!).
David Sebasti, reduce dalla scorsa stagione teatrale in cui era il
tragico e passionale Rogozin dell’“Idiota” di Dostoevskij,
qui è Pelléas, un innamorato che scrive lettere d’amore che non
spedirà mai e che attende invano l’amata in un caffè. Proprio in
questa scena del ‘teatrino dell’attesa’ la sua recitazione è
esilarante: applausi e risate sono assicurati.
Eh già, perché in questo spettacolo si ride e si pensa, si alternano
le smorfie comiche a quelle di dolore, l’ironia e la leggerezza alla
malinconia e ogni spettatore rivive, se vuole, la propria condizione
di amato, innamorato, e anche di amante de“la cannella, … la pasta
di mandorle, …le rose”. Domanda: e se gli amanti e gli innamorati
del nuovo secolo s’impegnassero a inventare nuovi rapporti e nuove
parole d’amore con nuove costanti, anzi senza costanti?
“Il linguaggio è una pelle: io sfrego il mio linguaggio contro l’altro.
E’ come se avessi delle parole a mo’ di dita, o delle dita sulla
punta delle mie parole. Il mio linguaggio freme di desiderio” (Roland
Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, Einaudi, 1979, s. v.
Il Colloquio,).
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