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"Il Silenzio" e "La Festa"



José Luis Sanchez-Martìn




Dopo il passaggio di Lindsay Kemp al teatro Olimpico, sulle scene romane sembrano esauriti gli spettacoli "evento", visto che di solito gli unici (o quasi) appuntamenti teatrali stranieri sono sempre concentrati nei soli due mesi di ottobre e novembre all'interno degli ottimi e immancabili festival internazionali "Romaeuropa" e "Festival d'Autunno", contemporanei all'inizio della stagione del Teatro di Roma.

In realtà, risulta difficile poter seguire i vari programmi, pieni di proposte variegate e di grande interesse, non solo perché si svolgono in così poco tempo al punto di sovrapporsi, obbligando a scelte che inevitabilmente precludono alcuni appuntamenti, ma anche perché i prezzi raggiunti dai biglietti, con punte addirittura di centomila lire per un singolo spettacolo, non soltanto escludono il pubblico curioso di seguire artisti che probabilmente torneranno a Roma fra qualche anno, ma vanno soprattutto ai danni degli addetti ai lavori e dei giovani, che non possono permettersi tali cifre, rimanendo esclusi da un processo culturale-teatrale, cosa che certo non li forma come futuri assidui e consapevoli fruitori di cultura. Un’altra conferma del luogo comune che definisce la cultura un "lusso di elite" e un altro incoraggiamento a rintanarsi in casa davanti alla palude quotidiana dei gratuiti palinsesti televisivi.


Quest’autunno però non è stato soltanto internazionale. Sono stati presentati anche una serie di spettacoli di produzione italiana, che, malgrado in molti casi partissero da premesse interessanti e originali, nella loro realizzazione non reggono tuttavia un paragone oggettivo e disinteressato, facendoci sovvenire il dubbio che certi "Re" nostrani non siano altro che "orbi" nel paese dei ciechi.

Tra tutti, forse lo spettacolo più deludente, vacuo e insignificante è stato "Il Silenzio", del sopravvaluto autore-attore-fenomeno Pippo Delbono, che con questo "evento" ha dimostrato in pieno i limiti della sua reale capacità registica e della sua formula tristemente circense che sfrutta spettacolarmente la presenza di malati mentali, barboni e attori improvvisati.

Sulla carta un progetto che incuriosisce, ispirato alla tragedia del terremoto nel Belice e al dolore umano inenarrabile che ne consegue, in realtà sulla scena non è altro che un noioso e incomprensibile ammasso di luoghi comuni, che si susseguono casualmente, con due trovatine, e le imcomprensibili e per questo insopportabili letture al microfono di testi vari da parte del regista-taumaturgo-domatore sempre in vista attorno e dentro alla scena (pace all'anima del maestro Tadeusz Kantor). Tutto ciò ci sembra un onanistico monumento all’ingiustificata presunzione e arroganza di Delbono.

Nel pensare al paragone con gli spettacoli internazionali, cui prima ci riferivamo, ci viene in mente che questo "evento", realizzato all'interno del Creto del grande pittore Burri, è stato prodotto con grandi mezzi finanziari dall'importante festival di Gibellina, che ha come ospiti abituali ai quali ugualmente commissiona delle produzioni, registi del calibro di Anatolij Vasil'ev e Robert Wilson. Evidentemente ogni paese ha il "Robert Wilson" che si merita.

Abbiamo visto in questo autunno caldo anche altre produzioni italiane, che, anche se comunque non convincono e non reggono il paragone, sono di un altro livello artistico e utilizzano in modo diverso, ovviamente migliore, i grandi mezzi a loro disposizione. Per esempio la trilogia di "Scene di Amleto" di Federico Tiezzi per la compagnia "I Magazzini" e "Graal" di Giorgio Barberio Corsetti. Ne parleremo in seguito nel riflettere sul teatro sperimentale italiano attuale.

E' invece da segnalare come un caso a parte, una felice eccezione che concilia per qualità professionale e riuscito accordo, i livelli della scrittura, della regia e della recitazione: "La Festa", spettacolo presentato in questi giorni al Teatro Valle di Roma, scritto da Spiro Scimone, diretto da Gianfelice Imparato per la Compagnia di Scimone e Francesco Sframeli e da questi ultimi due interpretato assieme a Nicola Rignanese.

Rivelatisi con "Nunzio", Scimone e Sframeli vincono il premio IDI "Autori nuovi" nel 1994 e la "Medaglia d'oro IDI" per la drammaturgia nel 1995. Nel 1997 vincono l'ambito premio Ubu rispettivamente come nuovo autore e come nuovo attore. Dopo il successo nazionale di "Bar", replicato per anni, nel 1999 presentano questa loro nuova produzione, "La Festa", vincendo il premio "Candoni Arta Terme" per la nuova drammaturgia e rappresentandolo anche a Londra al Teatro Warehouse. La casa editrice "Ubu Libri" stampa tempestivamente il testo dei tre spettacoli e il loro sodalizio artistico diventa definitivamente una delle realtà del teatro non accademico o di prosa "da stabile" tra le più originali, caratterizzate ed efficaci.


In dialetto messinese i primi due, "La Festa" è invece scritto in un italiano cadenzato e sintatticamente forgiato sulle orme di quel dialetto, che riecheggia anche nella voluta pronuncia degli attori. Come nei primi due, l'ambientazione è soltanto in apparenza siciliana ma in realtà si fa uso del locale per parlare liberamente dell'universale. In un angusto angolo ben delimitato tra due sezioni di muro, una cucina dove non c'è assolutamente niente, nemmeno un tavolo o una sedia, si incontrano e dialogano una madre, interpretata magistralmente da Scimone senza trucco, orpelli o artifizi, il suo disgustoso, inconsistente e avvinazzato marito, l'ottimo e caricaturale Francesco Sframeli, e il loro figlio, Nicola Rignanese, disoccupato, debosciato e prepotente, terribilmente simile al padre nelle risposte e nei meccanismi di mediocrità e di violenza abituale.

Lo spettacolo è il dipanarsi ossessivo e surrealmente ripetitivo di una realtà quotidiana che si arrocca su se stessa, in cui le frasi, le domande e le risposte sono praticamente sempre uguali e queste tre squallide umanità non si incontrano veramente mai. L'evento che dovrebbe segnare quei giorni, la novità che potrebbe cambiare tutto, è la "Festa" del titolo, per l'anniversario di matrimonio di questa coppia derelitta e alienata. Ma già sappiamo, dal racconto degli altri anniversari, che questa festa sarà l'ennesima ripetizione di quanto avvenuto negli anni precedenti, di un girone infernale che ritorna su se stesso. Il tutto, però è scritto e interpretato minimalmente, e in chiave comica, a volte irresistibilmente esilarante. A conferma che Scimone e Sframeli sono gli originali eredi del più grande drammaturgo del Novecento, Samuel Beckett.

Rispetto ai due primi spettacoli, si vuole mettere ancora più a nudo il degrado umano e sociale che ci circonda. Si avverte la voglia sia nel testo di Scimone che nella coerente regia di Imparato, rispettosa e riuscita nell'assecondare la geometria del testo, di alzare il tiro nel prosciugare il tutto fino a togliere praticamente qualsiasi contesto e di infilare la lama del coltello fino in fondo tramite la crudeltà implacabile della comicità.

Purtroppo, proprio questo meccanismo a volte si ritorce contro le intenzioni, provocando qualche volta risate non amare ma soltanto comiche, che toccano solo la superficie dei meccanismi perfetti che la cadenza dialettale comporta. In questo modo anziché esasperare come voluto, si attenua involontariamente l'orrore della triste commedia quotidiana della famiglia, qualunque e ovunque essa sia.

Festa” della coppia Sframeli/Scimone è comunque, uno dei più originali, riusciti e toccanti spettacoli degli ultimi anni. Siamo in attesa di assistere all'evoluzione del loro lavoro.

 

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