A Cuba, vite parallele
Mariletta Caiazza e Paolo Martini
Alain, ingegnere meccanico di Santa Clara, aspetta. Ha ventotto anni,
una moglie, un figlio di otto anni; e un viso intelligente, occhi
pronti al guizzo ironico. Siamo a cena nel grazioso patio della sua
casa materna (pareti celeste cielo, sedie e tavoli in ferro battuto
bianco, piante rigogliose) e lui ci ha appena detto, con molta
non-chalance, come per inciso, che un paio d'anni fa ha lasciato il
suo posto di ingegnere in una grande azienda statale.
"Lasciato, Alain ?! E come mai?", gli chiediamo, doppiamente
stupefatti: in quanto opulenti occidentali davanti a una realtà con
un tenore di vita tanto vistosamente inferiore al nostro; e in quanto
provenienti dal meridione d'Italia, dove la disoccupazione è alle
stelle, dove soltanto un pazzo (o un genio) si sognerebbe, avendo per
di più famiglia da mantenere, di lasciare un posto di alto profilo, e
di quelli garantiti a vita.
"Beh, perche' non mi conviene", e' la disarmante risposta.
Ci spiega che guadagna molto di piu' aiutando la madre che affitta
camere ai turisti e prepara loro i pasti (ottimi, come stiamo
verificando). Quindici dollari al giorno per una camera doppia e
altrettanti per i pasti, benché con regolare licenza e quindi gravati
di forti decurtazioni fiscali, sono per un cubano una cifra quasi
stratosferica, che nessun ingegnere potrebbe mai sognare di mettere
insieme col suo stipendio in pesos.

Ci sono due vite parallele, qui: quella dei cubani regolata dai pesos,
e quella dei turisti (e dei cubani che svolgono attività legate al
turismo) regolata dai dollari. Per darvi un'idea delle proporzioni:
una cena in un ristorante per cubani, pagata in pesos, ci e' costata
l'equivalente di circa cinquecento lire a persona; una pizza o un
panino con la porchetta dagli ambulanti che li vendono ai cubani in
pesos, circa duecento lire; un chilo di banane al mercato ancora meno.
Invece una bottiglia di acqua minerale (prodotto destinato
esclusivamente ai turisti e pagabile quindi esclusivamente in dollari)
non ci costa meno di due-tremila lire.
"E quanto ti e' costato prendere la laurea, Alain ?"
Sorride, e questo e' un sorriso di orgoglio e di consapevolezza:
"Niente ! A noi cubani non costa niente l'istruzione, come non
costa niente la sanita'. Lo stato paga agli studenti anche i libri, e
il vitto e l'alloggio. E ci sono anche corsi universitari che si
svolgono nel weekend, per gli studenti lavoratori. Potrei iscrivermi a
qualunque altra facolta', se volessi", continua, "perche' ho
un posto alto nella graduatoria (n.b. l'accesso alle facoltà si basa
su una graduatoria provinciale formatasi in base al curriculum dello
studente, alle prove sostenute, ai titoli acquisiti). Comunque,
ingegnere lo sono! E dunque, per ora...aspetto".
La gente, ammucchiata ai margini delle strade, aspetta. Aspetta per
ore e ore, sotto il sole feroce o sul far del buio, come se fosse la
cosa più normale di questo mondo; chiacchierando, e sempre col
sorriso pronto. Fare un qualsiasi tratto di strada, di pochi come di
centinaia di chilometri, richiede un tempo totalmente imponderabile;
come imponderabile e del tutto imprevedibile è il passaggio di un
"guagua" (pullman) o di un camion (i cosiddetti "camiones",
vecchissimi sgangherati automezzi condotti da privati forniti di
licenza, sempre stipati fino all'inverosimile e sempre scaricanti
emissioni gassose nere come la pece).
Per i tratti relativamente brevi, pochi fortunati usano la bici (non
ci si crederebbe, ma ci si va anche in tre!) o il cavallo o la
carrozella trainata dal cavallo. In città c'è il cosiddetto
ciclotaxi, che e' una specie di riscio'. Un'automobile sono davvero in
pochissimi a possederla: e sono sempre giganteschi macchinoni
americani usati, vecchi di decine d'anni, divenuti ormai parte
integrante dell'iconografia cubana.
Dunque quasi tutti ricorrono abitualmente all'autostop. Nella jeep che
abbiamo noleggiato abbiamo preso su decine di persone di ogni età e
condizione (donne con bambini, vecchi, contadini, studenti...)
accomunate da quell'attesa eterna e quotidiana i cui tempi dipendono
quasi esclusivamente dal caso. Ed e' una vera e propria staffetta:
appena scende qualcuno, ti si avvicinano in dieci per chiederti un
passaggio. Ma sempre tranquilli - come diavolo faranno a restare così
tranquilli, continuiamo a chiederci.
I cronisti che meccanicamente - da inviati in giro per il mondo -
ripercorrono strade un po' logore (la chiacchierata con il taxista che
nel tragitto dall'aeroporto all'hotel rivela le prime illuminanti
verita' sul paese che sta per raccontare) dovrebbero tenere conto di
questo possibile ribaltamento di prospettiva. E' molto piu' utile
accompagnare che essere accompagnati, e si impara molto di piu'. I
taxisti a Cuba sono molto meno degli autostoppisti, che fanno "la
bottiglia", come si dice qui.
"Ma non avete un po' di paura, voi ragazze, a chiedere passaggi a
sconosciuti anche di notte ?", abbiamo chiesto a Isabel,
sedicenne che ha percorso con noi un tratto di oltre cento chilometri
e deve farne ancora almeno altrettanti, dal punto in cui la lasciamo
sull'"autopista", per arrivare a Cardenas (e non ha nessun
bagaglio con se', se non una borsetta; nemmeno acqua da bere, notiamo
stupefatti, noi tramortiti dal caldo). Viaggiano tutti come se
dovessero arrivare tre chilometri dopo, e magari devono farne
trecento.
"Paura?! No, perche'?" chiede sorridendo, e sinceramente
meravigliata. Violenza, aggressioni: sembra che nessuno ne sappia
niente, qui. Anche i bambini percorrono chilometri da soli, o in
piccoli gruppi. Scende, Isabel, dopo averci ringraziato ed augurato un
felice viaggio, e sempre sorridendo riprende ad aspettare.
Si imparano anche storie (o leggende metropolitane), con una macchina
a disposizione. Sara' per l'abusata categoria della globalizzazione,
che davvero unifica i codici, e cosi' capita che ti dicano:
"adesso ti racconto una storia che non sai". Immaginate un
eccentrico americano che si aggira per mercatini e venditori nelle
strade dell'Avana e si imbatte in una statua in legno - alta quanto un
bambino. La statua raffigura San Lazzaro:"Hai presente San
Lazzaro?". No.

Spiegano: San Lazzaro farebbe parte della affollata galleria dei santi
cattolici, ma e' uno di quelli che per varie caratteristiche si
prestava a quella operazione di sincretismo operata dalla Santeria,
pratica proveniente dagli abitanti di Haiti, arrivati a Cuba come
schiavi degli spagnoli. La Santeria ha "importato santi e
madonne" e li ha trasformati in spiriti (Orisha). San Lazzaro e'
diventato cosi' l'orisha Babalu' Aye, divinita' legata alle malattie
del corpo. In pratica, è quello che aiuta gli storpi.
L'eccentrico americano chiede all'anziano commerciante habanero quanto
costa la statua. "Mille dollari", risponde scettico il
venditore. L'americano tira fuori dieci banconote da cento senza
batter ciglio, e se ne va con Babalu'. "E sai chi era? Era Bill
Gates in incognito". Bill Gates in incognito all'Avana. Bill
Gates adepto della Santeria. "Ma gli orisha non sembrano aiutarlo
molto, di questi tempi", dice Sebastiel ridendo.
Qualcuno dice che Cuba sia molto piu' religiosa della sua immagine
ufficiale. Che la religione sia scoraggiata. "La religione è
liberamente praticata", ti rispondono. "E' all'ovest che
sono molto religiosi, cattolici e seguaci della Santeria", dice
Abel, di Matanzas. La religione non è esibita (anche se dopo il suo
viaggio a Cuba qualche casa tiene in mostra l'immagine di Giovanni
Paolo 2). "Una volta una ragazza spagnola mi diceva: ma voi non
avete le processioni? Beh - ho risposto - per quelle vai in qualche
altro paese... Se vuoi pregare ci sono chieste battiste, chiese
cattoliche, templi santeri. Ma le processioni...".
Aspetta, anche Tomas (ma lui si fa chiamare Thomas, accento sulla o,
come se fosse già un americano). Aspetta di terminare gli studi alla
facoltà di economia di Pinar del Rio per fare il grande salto. E
accidenti se è determinato! Per costringerci a fermarci e a prenderlo
su ci si è praticamente parato davanti. Parla un ottimo inglese e sa
di essere un privilegiato rispetto ai suoi compagni. Suo padre vive
negli Stati Uniti, dove fa il giornalista; e ogni mese manda a casa
cinquanta dollari per ciascun membro della famiglia.
Si sente ricco, dunque, Thomas; e il suo sogno è quello di
raggiungere il padre, e di vivere negli Stati Uniti. "Ma non è
perché qui io stia male - si affretta a precisare - anzi. Sono
consapevole di quello che perdo, di quello che lascio andandomene da
qui: so che e' tanto, da tanti punti di vista.
Aspettiamo che si spieghi meglio.
"La sicurezza, innanzitutto. Qui io so che avrò sempre un lavoro
e una casa ; che se ne avrò bisogno mi sarà sempre garantita
un'assistenza sanitaria; e qui ho le mie sorelle, gli amici..."
"E cos'è che cerchi, allora ? Cos'è che ti manca?"
"La possibilità di migliorare. Di rischiare. Ecco quello che qui
non ho. Io so che lì potrei avere di più, fare di più; che posso
avere delle libertà che qui non ho. Con tutti i rischi connessi, lo
so bene. Ma io sono uno che ama le sfide, e penso di potercela fare.
Naturalmente, può anche darsi che debba pentirmene.."
Siamo arrivati al punto in cui deve scendere. Ma accostiamo la
macchina e continuiamo a parlare. Lui è convinto che molte delle
restrizioni e delle deprivazioni di cui i cubani soffrono non
dipendano, se non in parte, dall'embargo; ma piuttosto da meccanismi
perversi dell'apparato che è intorno a Castro. "Ma io non sono
contro la rivoluzione! Tutt'altro", aggiunge. E quando nomina
Fidel lo fa con quella sfumatura di reverenza e di rispetto che
abbiamo riscontrato in più d'una occasione.
Fidel era il protagonista del vertice del Millennio all'Onu, nei
giorni della nostra permanenza. La tv - che apre i programmi alle sei
e trenta con una lettura di poesie e alterna notiziari militanti a
seguitissime telenovelas ambientate in improbabili fazendas, teatro di
romantici e passionali conflitti di classe e di cuore - ha trasmesso
il suo intervento a New York. Un intervento letto e concluso con un
frettoloso muchas gracias. "Aveva troppo poco tempo",
ridacchiavano i cubani con i quali lo abbiamo visto in un salotto.
Alla fine scende, Thomas. Va a trovare sua nonna, a cui è molto
legato. Noi ci rimettiamo in marcia. E' ancora lunga, la strada per
Trinidad.
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