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Il Branco e il Piccolo Paradiso



Josè Luis Sànchez-Martìn



Continuiamo anche questa settimana la nostra ricognizione frenetica tra i programmi delle troppe manifestazioni simultanee di questo affollato autunno teatrale romano. La costosissima e faticosa maratona quotidiana tra le interessanti proposte di "Romaeuropa Festival", "Festival d'Autunno", Teatro di Roma e quant'altro viene stipato in questo breve periodo è soltanto a metà, ma già è possibile prendere atto della abissale differenza di livello tra gli spettacoli che vengono dall'estero e quelli di casa nostra. Questa differenza è evidente nella qualità e centralità dei due elementi costitutivi del teatro contemporaneo internazionale, fino a caratterizzarne il senso stesso, tanto che altrove sarebbe banale, scontato e un po' naif segnalarli: da una parte il livello della presenza e dell'azione degli attori, risultato di una solida e moderna formazione, dall'altra quello di una efficace, ponderata e precisa messa in scena e direzione degli attori, risultato anch'essa della capacità di registi che, più che dell'etichetta di "artista", sono in possesso di una solida professionalità acquisita.

Nonostante le osservazioni che possono essere mosse sulla riuscita complessiva di alcuni degli spettacoli stranieri visti in questi giorni, la qualità del lavoro degli attori e della regia difficilmente può trovare paragone nell'ambito dell'attuale teatro italiano, sia quello di stampo più classico che quello che si arroga il ruolo di sperimentale e innovativo. E questo paragone trova l'esempio più concreto nel confronto con i giovanissimi attori dello spettacolo "Siamo tutti indiani" del belga Alain Platel, di cui abbiamo riferito la settimana scorsa, i cui interpreti, tutti tra i sette e i diciassette anni di età, avevano una presenza, un'intensità calibrata, una consapevolezza del personaggio e una precisione nell'aderire al piano della messa in scena -sicuramente non un risultato casuale o dato da naturale "ispirazione" artistica, ma il frutto di un lungo e faticoso lavoro professionale in rapporto con un regista che conosce il suo mestiere.

Risulta evidente invece che in Italia mancano scuole che diano una reale formazione professionale agli attori, che coloro che vengono considerati registi non posseggono una vera preparazione professionale ma sono soltanto "artisti", qualunque cosa questo voglia dire, in realtà dei gestori di potere e di relazione con le istituzioni, e che il pubblico, abituato ormai alla mediocrità, scambia molto spesso per genialità quello che altro non è che arroganza e pressapochismo mascherato da arte "originale e trasgressiva".


Dato il grande numero di spettacoli in programma e per evitare di accanirci nel confronto, questa settimana riferiamo soltanto di due spettacoli stranieri visti nelle varie manifestazioni: "Il Branco" di Gennadi Abramov e "Un nioc de Paradis" della compagnia Moltalvo-Hervieu. Tutti e due gli spettacoli hanno in comune la caratteristica di essere delle commistioni, in misure diverse, di vari generi e riferimenti, in particolare tra danza e teatro.

All'interno dei Percorsi Internazionali organizzati dall'ETI per il "Festival d'Autunno", al Teatro Valle è stato presentato dalla Classe di Movimento Corporeo Espressivo di Mosca diretta da Gennadi Abramov lo spettacolo "Il Branco". Abramov ha cominciato la sua carriera artistica come danzatore, per spostarsi poi progressivamente verso il teatro fino a stabilire una stretta collaborazione con il regista Anatolij Vasil'ev, fondando insieme a questi la famosa Scuola d'Arte Drammatica di Mosca, all'interno della quale dirige la "Classe" fino al 1999, anno in cui la rende autonoma dalla Scuola per diventare un teatro indipendente. Le loro performance sono, come ha scritto un critico moscovita, "composizioni su motivi eterni e moderni messi in scena da attori, o per meglio dire da danzatori, giocolieri, acrobati capaci di esprimere attraverso i corpi le sottili ombre degli umori e del pensiero. Le parole possono ingannare, il corpo mai."

Abramov sceglie i suoi giovani artisti "come fossero delle pietre preziose, poichè il teatro e il movimento non si insegnano. Bisogna semplicemente aiutare gli individui, che possiedono già tutti gli strumenti, a rivelare le loro capacità personali". Infatti egli dichiara che "non sono mai i poeti a creare i versi, ma sono i versi a creare i poeti. La musica crea i compositori. E il movimento, il movimento interessante, fa degli esseri umani dei danzatori. Di questo sono convinto". Il suo lavoro è fondamentalmente quello di interpretare un'idea attraverso il corpo, sconfinando spesso nella danza pura: "Sulla scena dobbiamo inizialmente pensare con il corpo e solo in un secondo momento azionare la testa".

Se alcuni dei pensieri e delle premesse teoriche di Abramov possono sembrare un po' vecchio stampo, i risultati concreti e tecnici sono di grande attualità e potenza scenica nel situarsi in una zona che partecipa sia del teatro che della danza. Nel caso specifico di "Branco", il virtuosismo tecnico e la ricerca del movimento fine a se stesso, anche se non cade mai nel tranello dell'estetismo, vanno a scapito di una dimensione "drammaturgica" e quindi dell'elemento teatrale, lasciando sempre la pur affascinante e a tratti divertente performance in un territorio neutro che finisce per diventare l'inesauribile e sorprendente catalogo delle possibilità di manipolazione di un cappotto e le infinite variazioni delle figure di spassosi nanetti senza testa creati dagli attori/danzatori utilizzando ancora una volta il cappotto. L'idea drammaturgica, già flebile sulla carta, diventa praticamente irrintracciabile sulla scena. Tutto questo materiale espressivo sembra in realtà approntato per essere utilizzato in funzione di un'ulteriore messa in scena, che però non c'è. Avremmo gradito, per esempio, vedere rappresentato con questi elementi e con questi straordinari, generosi e affascinanti interpreti un "Ubu Re", sicuramente più efficace.

Il secondo spettacolo, visto al Teatro Nazionale nel programma del "Romaeuropa Festival", nasce invece nell'ambito della danza, infatti si tratta della coreografia multimediale "Un nioc de Paradis" dell'eclettica compagnia Moltalvo-Hervieu, ma ha una forte e coinvolgente dimensione teatrale che lo arricchisce di una vitalità e calore umano molto rari nel panorama della danza contemporanea. Queste caratteristiche, date anche dal fatto che la compagnia è formata da danzatori di stili, scuole e provenienze molto diverse ma molto ben amalgamate, erano già presenti negli spettacoli presentati dalla compagnia nelle due edizioni precedenti del Festival.

Questa volta però si aggiunge una peculiarità molto originale nella scelta del destinatario dello spettacolo: il pubblico infantile e adolescente. Una scelta di lavoro rarissima nel mondo a volte un po’ troppo severo e concettuale della danza, che in questo caso invece ha visto premiato il coraggio di sperimentare verso il semplice e il comunicativo con risultati eccellenti e un travolgente successo da parte di un pubblico così difficile e, a modo suo, esigente.

L'impianto dello spettacolo ricalca quello dei precedenti: uno schermo gigantesco sullo sfondo, in questo caso diviso a metà verticalmente da una larga striscia nera, sul quale vengono proiettate immagini video di proporzioni e dinamiche sempre cangianti. I soggetti sono animali d'ogni genere (elefanti, cavalli, zebre, serpenti, cani ammaestrati e tanti altri), tenere vecchiette seguite da una fila di bambini e gli alter ego dei danzatori, a volte anche multipli, che si rapportano in modo giocoso, originale, surreale, contro ogni logica e legge della fisica, con i veri danzatori in carne e ossa, con una precisione tale da confondere spassosamente lo spettatore fino al punto di non distinguere il reale dal virtuale.

In scena, su musiche prevalentemente vivaldiane e barocche ma con intrusioni a sorpresa del funky e del liscio, quattro danzatrici e tre danzatori eseguono coreografie caratterizzate dalla loro provenienza tecnica e culturale, spaziando dall' hip-hop e la break dance alla danza contemporanea, passando dalla danza classica a quella tradizionale dell'Africa. Ed è successo qualcosa che è quasi magico: i ragazzi, eccitati e coinvolti dalla gaiezza e dalla potente e suggestiva energia dei danzatori, hanno trovato spontaneamente in un brano di Vivaldi la cadenza ritmica da accompagnare tutti insieme col battito delle mani, come fosse un brano rock, creando senza forzature un ponte emotivo tra elementi culturali distanti secoli.

Si mescolano e si scambiano stili, suoni, culture, colori, senza che nessuno però perda i connotati della propria identità, e succede così che il pubblico di ragazzi alla fine adori l'africano che all'inizio faceva lo scemo, seguendolo in coro di propria iniziativa, un altro piccolo miracolo, sul ritornello del suo canto tradizionale; un uomo nero ed estraneo quanto quei "pericolosi" e "infidi" vu' cumprà che secondo molti sarebbero da temere. Uno spettacolo che, senza patetismi e leziosità, dà un'immagine confortante e gioiosa dell'incontro e dello scambio tra culture e diversità, di un possibile mondo multiculturale e multietnico più umano e ricco di quello che purtroppo si sta delineando in questa Europa che si chiude su se stessa nella paura infondata dell'altro. Grazie a Josè Montalvo e a Domique Hervieu.

P.S.: Ci scusiamo con i nostri lettori per la qualità scadente delle fotografie che accompagnano gli articoli, ma sono quelle che gli uffici stampa dei teatri ci forniscono, spiegandoci a loro volta che sono quelle che le compagnie forniscono loro.



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