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Noi, l'Islam, la Lega,
il Cardinale Biffi e Sartori
Michael Walzer con Giancarlo Bosetti
Michael Walzer è uno dei teorici più considerati e rispettati nel
mondo in tema di multiculturalismo. E’ americano, è ebreo, anzi è
ebreo-americano, con un trattino in mezzo, un trattino al quale ha
dedicato un saggio perchè la società americana è la somma di tanti
trattini (italo-americani, afro-americani, ispano-americani e via
componendo il mosaico prodotto dal melting pot). Tutta la sua
riflessione è immersa nei temi della tolleranza, della differenza,
della cittadinanza, dell’identità dei popoli e della solidarietà
che stringe le persone che appartengono alla stessa cultura, fin dal
suo libro più importante “Sfere di giustizia”.
Dell’episodio disgustoso di Lodi - la manifestazione della Lega
contro la erigenda moschea - è informato ed è ovvio che lo considera
una forma di barbarie. Lo informiamo della posizione del cardinale
Biffi che ha suggerito al governo di scegliere, di discriminare tra le
varie comunità di provenienza degli immigrati, preferendo i cristiani
ai musulmani. Walzer è tra coloro che teorizzano il diritto di un
popolo di limitare l’immigrazione e anche di esercitare entro certi
limiti una scelta tra i candidati ad entrare. “Ma l’errore
fondamentale che dovete evitare - mi spiega subito - è quello di
parlare di ‘Islam come tale’. Anche il ‘cattolicesimo come tale’,
secondo quel metodo, appariva 160 anni fa incompatibile con la
democrazia americana”.
Cerchiamo allora con Walzer di fare ordine in una discussione che
tenga distinto il livello della clava (Bossi), il livello dell’attrito
tra le fedi (Biffi) e quello dei ragionamenti, che più si addice al
filosofo americano e anche al nostro Giovanni Sartori, il quale nel
suo ultimo libro (Pluralismo, multiculturalismo e estranei,
Rizzoli) dialoga con Michael Walzer e lo critica, sia pure
risparmiandogli le bordate che destina invece a diversi suoi pure
autorevoli colleghi come Amy Gutmann, Charles Taylor, Giovanna Zincone.
Professor Walzer, la composizione religiosa dell’immigrazione in
Italia - globalmente si tratta di circa un milione e mezzo di persone
- è la seguente: 27,4 % di cattolici, 22,1% di ortodossi o
protestanti, 36,5 % di musulmani ( primo paese d’origine, il
Marocco, secondo l’Albania), 6,5% di altre religioni orientali, 7,6%
altro. Siamo ancora lontani dagli alti livelli di residenti stranieri
che hanno altri paesi europei, come la Germania o l’Inghilterra, ma
il fenomeno è in crescita e il problema sta spostandosi al centro
dell’agenda politica. Da paese “principiante” siamo curiosi di
sapere quale posto occupa l’immigrazione nell’attenzione degli
americani alla vigilia delle elezioni presidenziali.
Tranne che per Pat Buchanan, che aveva una percentuale dell’1% nei
sondaggi, nessuno, nell’attuale campagna presidenziale americana,
sta attaccando gli immigranti, né sta chiedendo nuove restrizioni
dell’immigrazione.
E perchè tanta maturità?
La ragione è ovvia: gli immigranti iniziano a votare dopo soli
cinque anni trascorsi nel paese, e c’è un enorme quota di voti
ispanici in molti stati cruciali. Un esperimento repubblicano di
politica anti-immigrazione, fatto un paio di anni fa in California, si
dimostrò disastroso per quel partito.
Eppure è in corso una nuova ondata di immigrazione.
Ma non sembra probabile che si torni alla politica degli anni ’40
del XIX secolo né a quella degli anni 1890-1900. Ed è utile
ricordare questi due lontani momenti ai suoi lettori italiani, perché
nel primo la politica anti-immigrazione prese di mira - con grande
ostilità - i cattolici, e nel secondo sia gli italiani che gli ebrei.
E molte delle motivazioni di quegli anni sono del tutto simili alle
motivazioni che si adducono oggi in Italia; soprattutto il fatto che i
cattolici siano fortemente contrari e totalmente ignoranti dei valori
democratici. Sono felice di testimoniare che, invece, i nuovi
immigrati si sono adattati piuttosto in fretta alla pratica della
democrazia, sebbene la Chiesa cattolica sia rimasta gerarchica nella
sua organizzazione interna. La gente sembra vivere tali contraddizioni
con una certa disinvoltura.
Degli esponenti della cultura politica in America, lei è ritenuto
essere tra i più sensibili al rispetto delle differenze religiose,
nazionali ed etniche, tra i più attenti al valore di ciò che rende
un popolo consapevole della propria specifica identità.
Sì, sono legato alla convinzione che una comunità politica richieda
necessariamente un certo livello di solidarietà tra i suoi cittadini,
in modo da poter sostenere i sacrifici necessari alla vita comune
(tasse da pagare per lo stato sociale, servizio militare per difendere
il paese). Un certo grado di omogeneità culturale è ovviamente d’aiuto,
benché la diversità prodotta da regionalismo, etnicità e differenza
religiosa possono coesistere con la necessaria solidarietà se i
cittadini, o la maggior parte di essi, condividono l’impegno verso
una politica democratica, se il livello di partecipazione è alto, se
le associazioni per i diritti civili aggregano le persone al di là
delle loro differenze, se l’istruzione pubblica è buona, e così
via.
Ma come si trova l’equilibrio tra questi diversi elementi?
In vari modi. Ovviamente, un modo di favorirlo è quello di favorire
gli immigranti che sono già come “noi” per religione, etnia, o
cultura religiosa e politica. Se questo sia giusto o sbagliato dipende
dalle circostanze, da ogni specifico caso. Quanto è stabile la
solidarietà democratica esistente? Qual è la relazione storica tra i
potenziali immigranti e il paese ospitante? Quanto sono bisognosi gli
immigranti? Non esiste un unico principio assoluto, che fornisca
risposte ancor prima che si sia riflettuto a fondo su questioni come
queste. Nessun diritto alla mobilità infinita, ma anche: nessun
diritto a chiudere le frontiere.
Ho trovato teorizzato nel suo lavoro il diritto di un popolo a
difendere l’omogeneità di un paese bianco e protestante.
L’“autodeterminazione” politica si estende effettivamente
fino alle questioni della appartenenza a un paese, dunque anche fino
alle questioni relative all’immigrazione. Ma non è affatto più
assoluta di quanto non lo sia l’autodeterminazione personale.
Viviamo nel mondo, in mezzo ad altre persone, dunque abbiamo diritti e
doveri. E a me sembra che la storia imperiale d’Italia (come quella
della Francia, o della Gran Bretagna, o come la nostra, qui in
America) vi attribuisca obblighi cui non potete sottrarvi.
Parla dell’Impero di Mussolini?
Certo. Non potete conquistare un paese come l’Albania, occuparlo con
un esercito, e poi, quando l’impero crolla, andar via come se fosse
finito tutto; il passato è passato, il legame è rotto. Non intendo
affermare che l’Italia non abbia assolutamente alcuna autorità
morale per regolare le sue relazioni con l’Albania e per controllare
il flusso dell’immigrazione albanese. Ma non si può mandare un
esercito in un paese musulmano e poi annunciare che non si vogliono
musulmani nel proprio. Allo stesso modo e per ragioni del tutto
simili, oggi l’America non può rifiutare di accettare immigranti da
Vietnam e Cambogia.
Un momento, professore, lei parla del nostro Impero, ma devo
ricordarle che l’attuale situazione albanese non dipende dall’occupazione
italiana avvenuta tra il ’38 e il ’43, ma molto di più (e forse
si potrebbe anche dire totalmente) dal regime comunista che ha
governato dal ’48 fino a dieci anni fa.
Sì, capisco, e questa è la ragione per cui, come ho detto, voi
italiani potete legittimamente regolare il flusso di immigranti. Ma
non potete tagliarlo del tutto; gli obblighi del post-imperialismo non
hanno un limite di tempo ovvio e stabilito. La maggior parte dei
pakistani che vivono oggi in Gran Bretagna sono fuggiti da regimi
corrotti e brutali per i quali i britannici non avevano alcuna
responsabilità (avendo lasciato il paese nel 1948). Non riesco a
spiegare semplicemente come funzionano queste cose, ma ho il sospetto
che, per gli italiani, gli albanesi non siano “stranieri” allo
stesso modo dei curdi o dei filippini.
In “Sfere di giustizia” lei discute il “principio di
Ackerman” (dal nome del politologo Bruce Ackerman), in base al quale
la sola ragione (e dunque una valida ragione) per limitare l’immigrazione
consiste nel proteggere la “conversazione liberale” attualmente in
corso. So che lei ha limitato il principio ai casi in cui il numero di
immigranti e l’intensità della loro azione contro la libertà è
tale da costituire un pericolo reale. E ha anche aggiunto: il diritto
di limitare questo flusso è una caratteristica dell’autodeterminazione
di una comunità.
Non credo di essere d‘accordo con Ackerman sul proteggere la “conversazione
liberale”. Consideri il caso degli Stati Uniti: abbiamo già, ad
esempio, dei cristiani fondamentalisti, che non partecipano affatto a
questa conversazione. Nuovi immigranti invece possono essere più
ansiosi di parteciparvi in virtù del loro “essere nuovi”. In ogni
caso, il processo di naturalizzazione si suppone lascerà loro tutto
il tempo di cui hanno bisogno per imparare il “linguaggio” della
democrazia, mentre l’istruzione pubblica dovrebbe insegnare ai loro
bambini qualcosa circa la sua storia e i suoi valori. Parlando solo da
questa sponda, escluderei dal poter entrare solo i nazisti, gli
ufficiali e i boia di alcuni brutali regimi del terzo mondo; ma di
certo non le persone che, semplicemente, non hanno ancora imparato a
parlare da progressisti.
Un altro principio che lei ha sostenuto è quello che i membri di
una comunità hanno il diritto di “plasmare”, “modellare”
(fuori di metafora: educare) la popolazione residente. Questa è
ancora la sua opinione?
Non mi ricordo quale parola ho usato, se modellare o plasmare. Ma mi
lasci utilizzare un caso relativamente non controverso per considerare
la questione generale dell’azione da esercitare su un corpo di
cittadini. Nei primi anni del secolo scorso, la Norvegia si separò
dalla Svezia per proteggere il senso della propria cultura e della
propria storia, e per conservare la propria lingua. Lo stato norvegese
è uno strumento per la riproduzione della “norvegesità”, per la
proiezione di questo antico popolo verso il futuro. Questo mi pare
giusto: le comunità storiche hanno il diritto di agire politicamente
per la conservazione della loro cultura.
Quindi frontiere chiuse?
Semplicemente, la Norvegia non potrebbe mai essere obbligata ad
accettare un certo numero di russi, di turchi, di curdi o di
montenegrini; essa cesserebbe di essere un paese “norvegese”. Ne
consegue anche che - indipendentemente da chi entri nel suo territorio
- la Norvegia può continuare ad attribuire un posto privilegiato alla
storia e alla letteratura norvegese nelle sue scuole pubbliche. Ma
anche questo lascia molto spazio alla discussione sulle politiche di
immigrazione.
Recentemente ho pubblicato su “Reset” e “Caffe’ Europa” un
articolo di Amartya Sen il cui punto centrale era: diritti politici
agli immigrati. Insomma il voto, che ha l’effetto che diceva lei all’inizio.
Per Giovanni Sartori invece la prospettiva del voto alimenta il
razzismo.
Discuterò con Sartori solo dopo averlo letto attentamente, ma sono
assolutamente d’accordo con Sen. Una volta fatte entrare delle
persone, anche se sono lavoratori stranieri con qualcosa di simile ai
contratti a breve termine, si deve trattarli in maniera uguale agli
altri cittadini (in modo che possano ricevere benefici dallo stato
sociale, organizzare sindacati e così via), e si deve aprire loro la
possibilità della naturalizzazione e della cittadinanza piena. Un
impegno di democrazia è un impegno ad opporsi alla creazione di una
vasta classe interna subordinata. Io sospetto che esistano ragioni di
prudenza così come di principio per evitare quella condizione che gli
antichi greci definivano di “metèco”. Una condizione che divide i
popoli, può produrre forme estreme di povertà, e dunque di
alienazione e di scontento politici; e rende più difficili sia le
politiche dello stato sociale sia quelle egualitaristiche.
Quale ritiene che possa essere una ragionevole politica della
sinistra nel campo dell’immigrazione? Si tratta di una questione
che, in futuro, dividerà la destra dalla sinistra?
Le politiche della sinistra possono variare un po’ da paese a
paese; in effetti, esse dovrebbero variare, date storie e circostanze
diverse qui e ora. Ma dovunque la sinistra deve schierarsi contro la
xenofobia e lo sciovinismo, quindi contro ogni genere di politica
anti-immigrazione e contro ogni forma di discriminazione che neghi
agli “stranieri” che sono già qui i loro diritti democratici. La
sinistra può difendere gli sforzi che si fanno per regolare il flusso
di immigrazione, e può difendere, entro il tipo di limiti che ho già
indicato, gli sforzi tesi a favorire l’arrivo di certi immigranti
rispetto ad altri. Ma, confrontandosi con il bisogno disperato, mi
aspetto che tutte le persone di sinistra in tutti i paesi più ricchi
del mondo sappiano rispondere con generosità. Proprio in questo, mi
sembra, sta il senso della sinistra: nell’impegno verso chi ha
bisogno.
Sinistra uguale frontiere più aperte?
Non necessariamente. Impegno generoso non vuol dire che debba per
forza entrare gente nel paese; può invece significare dover
trasferire fuori delle risorse. In effetti, la questione dell’immigrazione
è strettamente connessa alla questione dell’aiuto estero: anche
qui, la sinistra dovrebbe disporre di una serie di politiche
specifiche, a volte guidate dal senso di giustizia, a volte dalla
generosità. Negli Stati Uniti, il Partito Democratico ha storicamente
difeso i diritti degli immigranti in opposizione alle severe
restrizioni sull’immigrazione. Ed è stato anche il partito dell’aiuto
all’estero (sebbene su una base piuttosto scarsa e spesso per scopi
militari…).
Nel suo paese, la naturalizzazione è possibile anche quando la
quota di stranieri omogenei è al di là di qualsiasi possibile
metabolismo di americanizzazione (i gruppi ispano-americani o cinesi
in California o a New York). Nel nostro futuro c’è più
naturalizzazione o più balcanizzazione?
Nelle società di immigrazione, come gli Stati Uniti, io considero la
naturalizzazione - quando funziona bene - come un’alternativa alla
balcanizzazione. Se gli immigranti e, cosa ancor più importante, i
loro figli, apprendono davvero le abitudini e le competenze che
sottendono a una cultura politica democratica, se accettano il diritto
di opposizione, danno valore alla possibilità di discutere e di
associarsi, imparano ad ascoltare gli altri, a lavorare in comitati e
a parlare in incontri ufficiali, allora essi saranno veramente
naturalizzati: la democrazia diverrà la loro seconda natura. E se
avviene questo, non ci si deve preoccupare del fatto che il paese si
divida in blocchi religiosi ed etnici. La capacità di aggregazione
della politica democratica e la complessità dell’associazionismo
tra cittadini avvicineranno le persone al di là degli sbarramenti.
Dunque non è l’immigrazione a preoccuparmi nell’America di oggi.
Che cosa la preoccupa allora?
Il triste stato di tutti i meccanismi di naturalizzazione: le scuole
pubbliche, i partiti politici, i sindacati, le reti della società
civile. Le crescenti diseguaglianze della vita economica americana ed
il crescente tasso con cui i poveri vengono emarginati dalla nostra
politica - anche questo mina il processo di naturalizzazione
democratica. Data una forte politica democratica e una società più
egualitaria, vi assicuro che gli immigranti musulmani (e buddisti e
indù) si adatteranno alla democrazia e alla partecipazione civile
altrettanto in fretta di quanto fecero gli immigranti cattolici cento
anni fa.
Ma non c’è un problema del tutto particolare in rapporto alla
cultura islamica? Consideriamo gli argomenti di chi punta il dito,
come il cardinale Biffi e Giovanni Sartori - su questo d’accordo -
sull’“Islam in quanto tale”. Del resto c’è una lunga
tradizione del pensiero politico - Locke, Voltaire, Weber… - che
accusa i caratteri specifici di quella religione: nel mondo islamico
non esiste laicismo, non c’è separazione tra Stato e Chiesa; l’Islam,
in sé e per sé, è teocratico; l’Islam, in sé e per sé, è
fanatico; la Legge Coranica non riconosce i diritti individuali, che
sono i cardini della civiltà liberale. Non è questo il punto
critico?
Se la forma di Islam attualmente dominante nei paesi arabi dovesse
diventare dal giorno alla notte la religione dominante in Italia,
allora, sì, temo che la vostra democrazia andrebbe perduta. Ma se il
giudaismo ultra-ortodosso diventasse la religione maggioritaria, l’effetto
sarebbe lo stesso. Se il cattolicesimo, così come si configurava
intorno al 1840, fosse divenuto la religione maggioritaria in America,
l’intero sviluppo politico futuro di questo paese sarebbe risultato
alterato.
E allora, dove vuole arrivare, professor Walzer?
La domanda che dovete porre è completamente diversa: può l’Islam
adattarsi alla condizione di una minoranza tollerata, all’interno di
una cultura politica democratica? E per rispondere a questa domanda,
bisogna esaminare tutte le culture e le società islamiche
contemporanee, nell’arco di tutti i secoli in cui l’Islam è
esistito, e dato questo ampio spettro di tempo e di spazio, non si
può parlare di “Islam come tale”. Esiste una vasta gamma di tipi
di Islam, e esistono gradi diversi di impegno politico. E non c’è
ragione di pensare che non siano possibili ulteriori adattamenti: gli
Stati Uniti di oggi, con qualcosa come sei milioni di musulmani,
fornisce un utile sito di sperimentazione.
E che cosa dimostra l’esperimento?
Che l’adattamento richiederà del tempo, che ci saranno tensioni
entro la comunità musulmana e, per così dire, intorno ai suoi
confini. Ma affermare che esista un’“essenza dell’Islam” che
rende impossibili le riforme e la liberalizzazione significa cadere
nella trappola dei fondamentalisti. Sono loro i difensori dell’“Islam
come tale”. Noi, invece, dovremmo insistere sul fatto che sbagliano,
e dovremmo essere pronti ad accogliere un Islam liberalizzato
(vogliamo dire: protestantizzato?) entro una società multiculturale,
con tutti i diritti legali e i servizi dello stato già forniti a
tutte le altre minoranze religiose. Negli Stati Uniti, ad esempio, ci
sono case di cura ebree e cattoliche dove il 60% del bilancio proviene
dallo stato. Perché dunque non dovrebbero esistere anche case di cura
musulmane, con lo stesso tipo di bilancio? Sostenere organizzazioni
assistenziali musulmane non significa certo finanziare la guerra santa
(Jihad)!
Visioni per il futuro. L’accuseranno di ottimismo?
Non voglio dare l’impressione di essere un pazzo né un ingenuo. Ma,
dopo tutto, ho letto scrittori ebrei di secoli fa, i quali pensavano
che le crociate e i pogrom contro gli ebrei fossero caratteristiche
della cristianità in quanto tale. E ora ho vicini cristiani che
sembrano essersi lasciati tutto questo alle spalle. Non può essere
quello che ho descritto un possibile futuro per i musulmani, se
restiamo ben ancorati alla politica democratica e alla tolleranza
liberale?
(traduzione di Laura Bocci)
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