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Reset/La medicina è il diritto di voto
Amartya Sen
Questo contributo, che appare sul numero 62 di Reset, attualmente in
edicola e in libreria, è tratto dall’intervento che Amartya Sen ha
pronunciato durante il convegno “Migrazioni. Scenari per il XXI
secolo” organizzato a Roma il 12/14 luglio 2000 dall’Agenzia
romana per la preparazione del Giubileo
Le sfide poste dalla migrazione nel ventunesimo secolo possono essere
viste da molte prospettive diverse, ed è vero che esse dovrebbero
essere esaminate e analizzate da punti di vista diversi e addirittura
divergenti. Le politiche sull’immigrazione in Europa in generale e
in Italia in particolare devono tener conto di una quantità di
considerazioni dissimili e talvolta conflittuali. Tuttavia, un impegno
urgente verso i dettagli di alcuni fatti minori può a volte sortire l’effetto
di distogliere l’attenzione da porzioni più grandi della realtà, e
l’immediatezza di strategie ristrette può agire da barriera
rispetto a una strategia a lungo termine adeguatamente ampia.
Questo seminario, organizzato dall’Agenzia Romana per il Giubileo,
è una buona occasione per fermarsi un momento a riflettere. C’è in
effetti una buona ragione per considerare il problema dell’immigrazione
in una prospettiva più generale - e più storica - che potrebbe porsi
in contrasto con le azioni e reazioni a fiato piuttosto corto, che
fanno la parte del leone nell’attenzione tributata dalla politica
quotidiana. Anzi, l’interconnessione tra le prospettive più ampie
da una parte, e considerazioni più immediate dall’altra, è in se
stessa una questione di qualche interesse. Cercherò di arrivarvi
attraverso una serie di punti.
La prima cosa da osservare è il fatto che la storia della civiltà
mondiale ha inevitabilmente preso forma dai movimenti di persone, idee
e merci. Il progresso nella scienza, tecnologia e matematica, nelle
arti, in musica, danza e persino nella cucina, e anche nella
produzione economica e nella teoria politica, è dipeso in larghissima
misura dal nostro apprendere gli uni dagli altri, dalle transazioni
che abbiamo intrapreso gli uni con gli altri, dal nostro vivere gli
uni accanto agli altri. Dagli spostamenti di greci, romani, cinesi,
indiani, ebrei, arabi e altri, nel corso dei millenni fino alle
migrazioni più recenti di europei in tutto il mondo, le persone hanno
trasportato, da una regione all’altra, le loro conoscenze,
interpretazioni, capacità e usanze, insieme alla loro presenza. È
difficile immaginare quanto sarebbe stato limitato il mondo se le
persone avessero condotto esistenze chiuse e isolate.
Un secondo punto da sottolineare è l’importante dicotomia emersa
nel processo della globalizzazione economica nel mondo contemporaneo.
Proprio mentre l’espansione del commercio mondiale, delle
comunicazioni e delle relazioni economiche è andata vistosamente ad
aggiungersi ai movimenti di merci e investimenti attraverso il globo,
anche le barriere politiche e legali alla migrazione hanno mostrato la
tendenza a crescere. Per la prima volta nella storia del mondo,
assistiamo a una vasta e crescente accettazione di movimenti di merci,
insieme a un rifiuto più fermo e serrato dei movimenti di persone.
Terzo, questa dicotomia presenta la strana caratteristica per cui le
barriere politiche alla migrazione internazionale stanno crescendo
esattamente nello stesso momento in cui sono enormemente progredite
anche una visione globale e un’interpretazione condivisa della
nostra comune umanità. Ciò è accaduto attraverso il progresso nelle
comunicazioni e nella tecnologia della divulgazione, ma anche
attraverso gli sviluppi istituzionali. Tra questi, i ruoli delle
Nazioni Unite e di altre organizzazioni internazionali, ma anche lo
sviluppo del business globale (comprese le compagnie multinazionali),
le Ong mondiali (come Médécins sans frontières, l’Oxfam, Amnesty
International, la Croce Rossa, l’Osservatorio sui diritti umani e
molte altre), e persino le sistematiche agitazioni a livello mondiale
su problemi politici specifici. È anzi istruttivo osservare che,
quando le recenti proteste contro la globalizzazione hanno disturbato
il meeting della World Trade Organization a Seattle, l’opposizione
stessa alla globalizzazione ha assunto la forma di un movimento
globale. Non si scappa dalla globalizzazione, in una forma o nell’altra,
nel mondo in cui viviamo oggi. Il problema riguarda piuttosto la forma
che tale globalizzazione dovrebbe assumere.
In modo esattamente simile, non c’è modo di evitare di accettare la
migrazione internazionale nel mondo contemporaneo. Il problema
riguarda piuttosto la sua forma, comprese le dimensioni, la
composizione e le priorità. Una prospettiva globale è qui
altrettanto pertinente delle preoccupazioni nazionali o regionali.
In che modo allora dovrebbe procedere il ragionamento? Le
considerazioni globali dovrebbero ovviamente essere integrate da
quelle legate alle singole nazioni. In Italia, verrebbe naturale
pensare ai benefici che l’Italia - o l’Europa - trarrebbero dalla
migrazione, ma anche ai costi che ne potrebbero derivare. In questo
contesto, dovrebbero ricevere un’attenzione adeguata alcune
dettagliate considerazioni sui problemi che potrebbero accompagnare un
volume ingente e improvviso di immigrazione. Tali problemi riguardano
non soltanto le tensioni imposte sulle strutture del welfare-state di
una moderna nazione europea, ma anche altri problemi specifici (per
esempio, la presunta associazione tra migrazione internazionale e
particolari e specifici tipi di criminalità, cui è stata tributata
grande attenzione nei recenti dibattiti italiani).
L’individuazione dei costi deve accompagnarsi a una comprensione dei
benefici implicati. Massimo Livi-Bacci ha discusso i problemi
demografici che insorgono dal basso tasso di fertilità in Italia e in
altre parti d’Europa, e il ruolo costruttivo che un’immigrazione
ben organizzata può svolgere in Europa in generale e in Italia in
particolare. C’è poi il ruolo sempre più importante che le
mescolanze culturali ed etniche svolgono nell’arricchire le
esistenze di molti paesi europei. Per esempio, le abitudini culinarie
inglesi sono state totalmente trasformate dal modo di cucinare dei
popoli immigrati, che vanno dagli italiani e spagnoli agli indiani e
agli abitanti del Bangladesh. Anzi, l’Ufficio del turismo britannico
oggi descrive il «curry» come uno dei massimi esempi di «autentica
cucina britannica» e io stesso ho visto addirittura un quotidiano
inglese che descriveva «l’inglesità» di qualcuno nel linguaggio
seguente: «è inglese come una giunchiglia e come il pollo tikka
masala». Le squadre inglesi di cricket vantano un grosso
contingente di giocatori originari delle Indie occidentali, del
Pakistan, dell’India e dell’Africa. Quando, poco tempo fa, l’Italia
ha perso con buona dose di sfortuna la finale del campionato europeo
di calcio a favore della Francia, l’eroe della giornata era di
origine nordafricane. In questa occasione l’Italia non aveva un
calciatore immigrato, ma ovviamente l’idea non è affatto nuova per
l’Italia, anche senza dover risalire, con Shakespeare, fino alle
vittorie di Otello sotto la bandiera di Venezia.
Il ragionamento non deve riguardare soltanto le decisioni politiche su
quanta immigrazione consentire, e in quale forma, ma deve anche tenere
conto della vita degli immigranti che si insediano in un altro paese.
Anzi, la questione della migrazione non può essere dissociata da
accurate considerazioni sui diritti degli immigranti. Affinché gli
immigranti possano occupare un posto costruttivo nella società, è
importante assicurarsi che essi non vivano nell’insicurezza e che
non siano privati delle opportunità su cui gli altri - i non
immigrati - possono di norma contare.
La partecipazione politica degli immigranti ha sotto questo aspetto un’importanza
cruciale. Consentitemi di illustrare questo punto. Di recente, la
presa di mira delle popolazioni immigrate insediatesi in Germania e in
Francia, da parte di alcuni estremisti di estrema destra, ha suscitato
una grande attenzione sul piano politico. Ci si è spesso chiesti come
mai la Gran Bretagna sia riuscita, in misura considerevole, a evitare
il problema, anche se alcuni decenni fa, quando ci fu un’ondata
immigratoria su larga scala, anche in Gran Bretagna ci furono forti
sentimenti anti-immigranti. Alcuni miei amici britannici sembrano
pensare che ciò accada semplicemente perché loro sono più
«buoni»: la forza di una spiegazione basata su questa ipotesi
causale non è però molto stringente.
A mio parere invece la spiegazione risiede in parte nell’esclusione
politica dai diritti di voto di cui soffre la grande maggioranza degli
immigrati stabilitisi in Francia e in Germania. Anzi, in gran parte d’Europa
gli immigrati che risiedono legalmente in un paese non hanno il
diritto politico al voto a causa delle difficoltà e dei ritardi nell’acquisizione
della cittadinanza. La Gran Bretagna ha evitato questo problema
attraverso una peculiarità storica. Grazie alla sua tradizione
imperiale, ripresa dal Commonwealth, il diritto di voto nel Regno
Unito è determinato non esclusivamente dalla cittadinanza britannica,
ma anche dalla cittadinanza del Commonwealth. Anzi, qualunque
cittadino del Commonwealth - qualunque suddito della regina in quanto
capo del Commonwealth - acquisisce immediatamente i diritti di voto in
Gran Bretagna, non appena vi sia stato accettato legalmente come
residente. Dal momento che gli immigrati non-bianchi in Gran Bretagna
provengono in maggioranza da paesi del Commonwealth, hanno il diritto
alla partecipazione politica in Gran Bretagna già al momento del loro
arrivo su base permanente.
Se un estremista di destra in Germania proferisce dichiarazioni
fortemente avverse agli immigrati, non perde i voti degli immigrati
stessi (dal momento che non votano), mentre può conquistare i voti di
quanti inclinano verso la stessa direzione anti-immigrazione. In Gran
Bretagna per contro, se è vero che le dichiarazioni anti-immigrazione
possono piacere ad alcuni, comportano immediatamente un contraccolpo
negativo sui votanti immigrati, anche quando questi non hanno
acquisito la cittadinanza britannica. Questo fatto ha reso i partiti
politici molto attenti a corteggiare il voto immigrato, ed è
chiaramente servito a frenare alcuni iniziali tentativi di politica
razzista in Inghilterra. La partecipazione politica degli immigrati
dev’essere vista come una parte estremamente importante di una
politica migrazionale costruttiva.
Per finire, vorrei tornare sull’importanza di considerare il
problema della migrazione in una prospettiva adeguatamente vasta. È
vero che nelle decisioni su questo argomento occorre tenere conto di
considerazioni pratiche di diverso genere. Ma in aggiunta ai temi
specifici, è necessario un riconoscimento generale della necessità
di una difesa suprema e universale di un’apertura del mondo al
mondo, in nome del futuro della civiltà umana. Quando un paese, che
sia l’Italia o la Gran Bretagna o gli Stati Uniti o magari l’India
(che assorbe un enorme numero di immigrati dal Bangladesh), riflette
sul proprio atteggiamento verso la migrazione, non può evitare di
pensare che dietro alle piccole storie c’è sempre una storia più
grande. Si tratta, ovviamente, della storia della civilizzazione
umana, e della sua dipendenza dall’apertura e dai movimenti di
persone oltre che di merci e di tecnologie.
Esiste una straordinaria immagine di segregazione, che viene invocata
in numerosi testi sanscriti dell’India, a partire all’incirca dal
V secolo a.C. (in Hitopadesh, a Ganapath, a Prasannaraghava, a
Bhattikavya). Si tratta dell’inquietante racconto di una rana che
trascorre la sua intera esistenza in un pozzo ed è fortemente
sospettosa - e ostile - nei confronti di tutto ciò che proviene dall’esterno
del pozzo. Questa «kupamanduka» (la rana del pozzo) ha una sua
visione del mondo, ma è una visione del mondo che è strettamente
circoscritta al suo pozzo. La storia scientifica, culturale ed
economica del mondo sarebbe stata davvero limitata se avessimo vissuto
come queste rane del pozzo. Per governare gli stati è necessario
opporre resistenza alle rane del pozzo. Un compito stimolante ma
difficile, perché in tutti i paesi del mondo le rane del pozzo
abbondano, e molte di loro sono in grado di soffiare sul fuoco della
passione politica, con notevole abilità ed efficacia. Quello che
serve è una visuale sufficientemente ampia, non male come requisito
da invocare nelle celebrazioni del Giubileo.
(Traduzione di Anna Tagliavini)
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