Puskin e gli indiani a Roma
José Luis Sànchez-Martìn
E' ormai entrato nel vivo il groviglio di spettacoli di rilievo che
almeno tre importanti appuntamenti dell'autunno teatrale romano
propongono purtroppo in contemporanea, e che si accavallano tra di
loro col rischio di andare a detrimento l'uno dell'altro: il
"Roma Europa Festival", il "Festival d'Autunno"
(con le sezioni "Percorsi Internazionali" organizzata dall'ETI
e l'imminente "Le Vie dei Festival" organizzata
dall'associazione Cadmo) e l'inizio della stagione del Teatro di Roma,
con appuntamenti al tradizionale Teatro Argentina, al decentrato,
poliedrico e alternativo teatro India, nonché in altri e inusitati
spazi. In queste righe cercheremo di commentare i due spettacoli
stranieri più importanti proposti negli ultimi giorni.
Al Teatro Valle, per la sezione Percorsi Internazionali del Festival
d'Autunno, il "Teatro Scuola d'Arte Drammatica di Mosca" ha
presentato lo spettacolo "A. S. Puskin 'Mozart e Salieri'/V.
Martynov 'Requiem'", un progetto ideato e diretto dal noto
maestro russo Anatolij Vasil'ev, protagonista indiscusso come regista
e pedagogo del mondo teatrale di fine secolo, sia in patria dove gli
è stato conferito il "Premio di Stato della Federazione Russa
nel campo dell'Arte e della Letteratura", sia all'estero dove da
molti anni i suoi spettacoli vengono acclamati da critica e pubblico
come dei capolavori.
In Italia il suo "Cerceau, Sei personaggi" ha infatti vinto
il premio Ubu '88 come migliore spettacolo straniero e l'Ecole des
Maitres del 1997 lo vede nel ruolo di pedagogo con uno studio su
"Il Giocatore" di Dostoevskij. Purtroppo la sua
rielaborazione e messa in scena dell'atto unico del più grande poeta
russo delude le aspettative che queste premesse potevano creare.
All'interno di una gelida e monumentale scenografia bianca si
alternano dialoghi tra Mozart e Salieri, musiche dal vivo eseguite da
un ensemble d'archi di nove elementi e l'esecuzione dell'intero
"Requiem" del compositore Martynov da parte di un coro
specializzato in musica sacra anticorussa.
Confermando uno dei suoi assiomi nella concezione della regia Vasil'ev
cerca di attribuire anche a questo spettacolo "uno spazio da
romanzo, un tempo metaforico", nel tentativo dichiarato di non
far coincidere il tempo scenico con il tempo dello spettatore,
mantenendo con tutti gli elementi che determinano ciò che accade
sulla scena (attori in primis, musicisti, oggetti, coro, nel muoversi
all'interno di questo particolare spazio scenico, ideato assieme al
suo "fido" scenografo Popov) un rapporto analista -
osservatore "che è alla guida di un processo."
Questo tentativo, altrove perfettamente riuscito, ha dato
l'impressione di restare una dichiarazione teorica affascinante quanto
frustrata nella realtà di questo spettacolo: gli attori sono sempre
di rara intensità "psicologica" secondo il miglior
Stanivlaskij (in particolare Igor Jacko che è Mozart) misurati e
consapevoli, come tutti gli attori formatisi con Vasil'ev o da lui
diretti; i musicisti si avvicendano sulla scena con una presenza
teatrale e un livello tecnico parimenti rilevanti, il coro sa
magnificamente cantare un originale Requiem, talvolta un po'
ridondante, invadendo nel finale la scena con bellissime evoluzioni
coreografiche di sapore rituale e vagamente "sufi" in
pregiate vesti che ricordano alcune figure dei quadri di Piero Della
Francesca.

Tuttavia l'effetto complessivo è quello di un esercizio di stile, la
dimostrazione di un teorema più che uno spettacolo teatrale. Senza
emozione, senza un filo conduttore che possa "elevare verso tutto
ciò che è alto" - espressione cara, in quanto sua riconosciuta
prerogativa, al regista russo - il pubblico, né tramite una
linearità narrativa, né tramite la potenza poetica di Puskin che qui
non si traduce affatto in poesia del teatro. Dispiace non trovare
conforto in spettacoli di questa levatura e raffinatezza perché sorge
il dubbio che il maestro si stia via via rifugiando dietro una
membrana di cristallo trasparente capace solo di lasciar passare le
immagini ma non più le emozioni.
Il secondo spettacolo è stato messo in scena al Teatro Argentina dal
duo Alain Platel e Arnie Sierens che da qualche anno mietono enorme
successo in giro per l'Europa, affermandosi come novità assoluta
nella ricerca del teatro danza, nonostante lo spetacolo "Alle
maal indiaan" (Siamo tutti indiani) sia nella sostanza teatro nel
senso più stretto del termine e sempre meno danza. Tre anni fa al
teatro Vascello di Roma portarono il loro primo spettacolo in Italia,
"Bernardetje", ambientato in un Luna Park con una pista di
autoscontri vera e propria al centro della scena sulla quale
giovanissimi e affiatatissimi attori recitavano con dirompente
dinamicità saltando da una vettura all'altra in movimento frenetico.
Il pubblico restò comprensibilmente emozionato e sorpreso per il
difficile equilibrio raggiunto tra drammmaturgia e azione, tra
spontaneità genuina nel registro espressivo degli attori e altissima
strutturazione coreografica, quindi attorale, tra forza e misura.
Queste caratteristiche che fanno di Alain Platel uno dei più
significativi registi-coreografi del momento, definito "pittore
fisico delle nostre società dell'abbondanza", "sociologo
visuale dell'esclusione" capace di dare una"organizzazione
al caos", sono state confermate nella sua ultima fatica. La vita
di una periferia fiamminga qualsiasi, resa da due case cubiche poste
sulla scena parallele tra di loro con il fronte alla vista del
pubblico che guardando nelle finestre può seguire tutto ciò che
accade dentro, simultaneamente nelle due famiglie che le abitano e che
interagiscono tra di loro sia all'interno che davanti all'uscio, sulla
strada o persino sui tetti, come succede in un paio di momenti tesi
dello spettacolo.
Nella casa di sinistra un pompiere, con la moglie internata in
manicomio, sotto continua pressione per via di una sorella e un figlio
prolifici di guai; nella casa di destra una donna con quattro figli
avuti da quattro differenti mariti impegnata dal continuo e sempre
problematico andirivieni della sua prole, con un figlio spastico che
porta sempre piume indiane in capo (va riconosciuta all'attore una
straordinaria capacità di immedesimazione, psichica e fisica, nel
ruolo del suo personaggio, al punto di dubitare fino agli applausi
finali se sia davvero spastico). Non meno meritevoli sono gli altri
interpreti, che fatta eccezione per i due rispettivi capi famiglia, il
pompiere e la signora, vanno dai nove ai quindici, massimo vent'anni e
sono sempre e comunque totalmente presenti a se stessi, padroni della
scena, in rapporto organico con gli altri attori e sanno imprimere
drammaticità nel corso di tutto lo spettacolo.
Platel tiene molto a cuore la dimensione attorale - scegliendo di
lavorare con persone così giovani egli coltiva un rapporto molto
umano e rispettoso con ciascuno di loro, a cominciare dalle audizioni
in cui li sceglie, dove adotta un criterio estraneo all'istrionismo
infantile, all'esibizionismo, ad una tanto indotta disinibizione,
anzi, preferisce lavorare con persone che non sanno nascondere il
proprio imbarazzo perché sente che essi "celano un segreto"
e questo lo incuriosisce e durante il lavoro, contando su una
sensibilità che i bambini prodigio spesso non conoscono, questo
segreto rivela i suoi frutti.
Conscio della difficoltà di stabilire una comunicazione appropriata e
rispettosa con i propri attori, siano essi bambini o adulti, Platel
consente anche ai più piccoli di esprimere un parere, un punto di
vista sul proprio personaggio in modo da renderlo ancora più
convincente ed efficace. Di questo spettacolo il pregio più grande è
la generosità degli attori, che riescono comunque a trasmettere una
emozione profonda e a lasciare un segno nella nostra memoria, e la
genuinità evidente delle intenzioni di Platel e Sierens.
La rappresentazione del degrado socioculturale delle periferie
metropolitane invece non è riuscita appieno e risulta ai nostri occhi
enfaticamente edulcorata in rapporto alla cruda realtà di oggi, dove
si ammazza per dispetto il migliore amico, ci si droga a dodici anni e
si soccombe all'insensatezza della propria vita molto prima di avere
il tempo e la maturità per capirla e affrontarla. Mancano alcuni
riferimenti indispensabili per dare corpo alla sofferenza di un
quartiere che sembra più simile a un'oasi felice e un po', ma solo un
po', burrascosa per l'irrequietezza dei suoi membri, piuttosto che
all'inferno di molte periferie anche nostrane.
Siamo persuasi che lo sguardo ottimistico di Platel sulla situazione
attuale di moltissime persone nasca da una convinzione di speranza
nelle risorse umane anziché essere il frutto di una riflessione
superficiale, però ad una sostituita effervescenza dinamica fuori
dallo spazio e dal tempo pervasa di onirismo, come accadeva in
Bernardetje, non viene in supporto una capacità analitica e
descrittiva drammaturgica necessaria per portare a compimento
un'impresa tanto ardua quale quella di cantare, sia pure in modo
anarchico e con un lirismo barocco, l'inferno quotidiano di noi tutti
indiani nelle riserve.
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