Cronaca di una vittoria popolare
Charles Alverson
Charles Alverson è un giornalista che vive e lavora a Belgrado
Sono andato a Belgrado (con l’autobus) giovedì mattina solo
perché, vivendo in un isolamento di fatto qui a Parage, se fosse
accaduto qualcosa - come previsto - volevo esserci. A tutta prima ero
rimasto un po’ deluso, perché nell’aria c’era ben poca di quell’eccitazione
di quasi quattro anni fa, quando c'erano manifestazioni dappertutto.
Ma quando mi sono messo a marciare con gli studenti - il gruppo più
energico e vitale - davanti alla Skupstina (l’Assemblea nazionale,
cioè il Parlamento jugoslavo), l’enorme massa di persone (500.000,
secondo le stime) che si estendeva in entrambe le direzioni dell’ampio
viale e si sparpagliava per il grande parco antistante l’Assemblea
nazionale serba era davvero impressionante.
Davanti alla Skupstina c’era una esigua fila di agenti della
milizia, in atteggiamento tutt’altro che aggressivo, con gli elmetti
di plastica grigio-azzurra e i giubbotti antiproiettile. Erano muniti
di manganelli, armi e maschere antigas, ma erano in maggioranza di
mezz’età e avevano l’aria pacifica. Alcuni indossavano normali
cappelli al posto degli elmetti, e scherzavano con la gente che si
trovava immediatamente davanti a loro.
Ma mentre eravamo lì in massa ad ascoltare discorsi (che non capivo),
a cantare le solite vecchie canzoni, a cambiare le parole degli stessi
vecchi slogan ("Pobeda!", cioé vittoria; "Hajmo, hajde,
svi u napad!" cioé andiamo, andate, tutti all’attacco; "Idemo
Dedinje!" cioé tutti a Dedinje (dove vive Milosevic), ho
iniziato a sentirmi un po’ depresso. Mi sembrava la stessa storia di
sempre, che avrebbe finito per fallire come già era accaduto nel
'96-'97.
Dopo un paio d’ore o giù di lì, iniziai dunque a spostarmi (con
qualche difficoltà) attraverso la folla in direzione del centro
città per telefonare a Zivana e avvertire che stavo tornando a casa e
che non avrei passato la notte lì. Ma avevo fatto solo una
cinquantina di metri quando dalla folla è giunto un boato collettivo:
mi sono voltato, e ho visto una nube di fumo bianco che saliva proprio
davanti alla grande scalinata di pietra che porta alla Skupstina.
Subito dopo sono apparse le traiettorie seghettate dei candelotti
lacrimogeni che venivano sparati in mezzo alla folla. Le cose si
facevano interessanti.

Invece di fare la cosa più sensata e continuare ad allontanarmi, ho
risalito la corrente della massa che scappava vicino a me, fino a
raggiungere il primo sbuffo di gas lacrimogeno. Non sembrava così
insopportabile, quindi continuai fino ad avanzare fino a prendermi in
piena faccia quella roba che provoca il consueto bruciore agli occhi e
al naso, la tosse, il senso di soffocamento, il bisogno di sputare la
saliva in eccesso e l'impulso a vomitare e contemporaneamente a
sedersi per cercare di respirare un soffio di aria pura.
Ma il peggio è passato presto, e mi sono diretto verso la Skupstina,
avvolta in una vera e propria nube di gas lacrimogeno. Ancora una
volta mi sono trovato a fuggire insieme alla folla - composta in
maggioranza di giovanotti come me (Charles Alverson ha sessant’anni,
ndr) - fino alla grande fontana che divide la strada. Ho inzuppaito il
fazzoletto nell’acqua e me lo sono messo davanti al naso e alla
bocca.
A quel punto l’attenzione di alcuni degli uomini in fuga si era
rivolta verso una stradina che sboccava nel viale principale, in fondo
alla quale c’era una fila di altri poliziotti armati di fucili,
manganelli e scudi di plexiglas trasparente. Noi ovviamente (alcuni
più lentamente di altri) ci siamo diretti in quella direzione, per
arretrare solo davanti a una nuvola di gas lacrimogeno. Ma i
dimostranti si sono ricompattati e sono tornati alla carica -
raccogliendo lungo il percorso paletti di recinzione, segnali
stradali, mattoni e sassi. Io ho preso un sasso delle dimensioni di un
grosso limone, senza avere alcuna idea di che cosa ne avrei fatto. A
un certo punto la milizia ha deciso di averne abbastanza per quel
giorno. In fondo alla strada che avevano abbandonato, dietro la
Skupstina, qualcuno ha dato fuoco a quelle che sembravano due
camionette dell’esercito, e altri hanno rotto la vetrina di un
negozio per tirarne fuori una bandiera serba. La gente è uscita dai
condomini per offrire acqua fresca a quelli che erano stati colpiti
dal gas.
Visto che lì il divertimento era finito, mi sono diretto nuovamente
verso la Skupstina per scoprire che la gran massa della gente era
ancora lì, come un esercito sull’attenti, mentre altri tiravano
pietre contro le finestre. Poi una molotov ha incendiato un balcone,
mentre un’altra entrava volando attraverso una finestra. Un grido di
esultanza si è sollevato dalla scalinata, e parte della folla - che
si andava trasformando in una piccola massa di rivoltosi - faceva
irruzione attraverso l’ingresso principale della Skupstina. In pochi
minuti sono riapparsi alla finestra, sventolando bandiere serbe e
jugoslave, mentre carte, documenti e altri oggetti leggeri presero a
cadere dall’alto. Ben presto si è formata una fila di persone che
fendendo la calca entrava nell’edificio, per uscirne poi con tutto
quel che riusciva a portare via - sedie, tavolini, parti di computer,
libri, portacenere, attaccapanni, addirittura cestini gialli per la
carta straccia. La gente faceva a pezzi le sedie per farne dei
bastoni, in caso di un contrattacco dell’esercito.
Si trattava di un’eventualità che io stesso avevo temuto, finché
non mi sono reso conto che l’esercito avrebbe dovuto sterminare la
maggior parte di quell’enorme assembramento di persone. Allo stato
dei fatti, l’unico soldato (non un uomo della milizia, quindi) che
ho visto era un uomo con la barba che si era unito ai dimostranti. Mi
sono fatto largo fino all’entrata, con un fazzoletto bagnato davanti
al naso e alla bocca, e ho raggiunto il primo piano della Skupstina,
che era stato fatto letteralmente a pezzi. C’era qualcosa, in quell’interno
pieno di fumo, che mi ha convinto a non proseguire.
Me ne sono uscito, invece, e mi sono recato verso l’altra ala dell’edificio,
dove continuavano a piovere carte e piccoli oggetti, e diversi telai
delle grandi finestre erano in fiamme. Mentre alcuni appiccavano il
fuoco, altri cercavano di spegnerlo. C’era la possibilità di
entrare nell’edificio dal piano terra, passando per una stretta
scala a chiocciola di metallo, ma decisi che mi sarei perso quest’occasione.
Dietro di me, sul davanti dell’edificio, la gente continuava a
sciamare all’esterno carica di bottino. Un tizio portava due calici
da vino in cristallo. Ne ha ceduto uno con riluttanza a un altro
dimostrante, e i due hanno fatto un brindisi con l’aranciata. Altri
tracannavano dalle bottiglie di rakija, ma non c’era un clima di
ubriachezza generale. La gente era già abbastanza ubriaca di euforia.
Tra la folla c’era un certo numero di giovani con indosso uniformi
ed equipaggiamento - maschere antigas, manganelli, elmetti e scudi di
plastica - confiscati alla milizia. Uno sventolava il suo trofeo, un
fucile per sparare candelotti di gas.
In tutto questo, era chiaro che nessuna delle due parti era arrivata
preparata a dar battaglia. Sebbene abbia visto un uomo con un fucile
da caccia, la maggior parte dei dimostranti non erano armati di nulla
di più letale dei bastoni su cui erano issati i cartelli, anche se
poi nel corso della giornata si erano impadroniti di armi più
pesanti. I militari erano decisamente troppo pochi per affrontare
anche solo una parte della folla che si accalcava davanti alla
Skupstina, e i rinforzi erano pietosamente esigui. Dopo essere stati
disarmati, si dice, i membri della milizia sono stati protetti dall’ira
della folla da altri dimostranti, anche se trenta di loro sarebbero
rimasti feriti. Le sole vittime tra i dimostranti di cui sono venuto a
sapere erano un uomo di mezza età deceduto per un attacco di cuore, e
una ragazza di fuori Belgrado caduta da un camion.
E' stato ben presto chiaro che non ci sarebbero state ritorsioni da
parte delle forze governative. L’opposizione aveva chiaramente - e
facilmente - vinto la battaglia della giornata, almeno nel centro di
Belgrado. Anche se alcuni tra la folla non avevano affatto l’aria
felice e scuotevano la testa ai discorsi dei leader dell’opposizione,
non ho sentito nemmeno una parola in favore di Milosevic.
Il saccheggio è proseguito nonostante gli sforzi dell’opposizione
per scoraggiare chi arraffava bottino e chi appiccava incendi. C'è
stato almeno un rifiuto personale dell’ethos del saccheggio,
quando un anziano signore brizzolato ha afferrato una poltroncina
imbottita rossa da scrivania, sottraendola a un saccheggiatore che
scendeva la scalinata, e ha inveito furibondo contro di lui. Il
ragazzo se ne è andato senza la poltroncina. Davanti alla Skupstina
conquistata, il morale era alle stelle. Kostunica, il nuovo presidente
legittimo, ha tenuto un discorso, seguito da quelli di un sacerdote e
di un soldato. Si è cantato ancora a lungo, e si è continuato a
gridare slogan, fra cui "Idemo na Dedinje", ma non c'è
stato alcun serio tentativo di attuare quel proposito. Kostunica ha
esortato tutti a rimanere e a tenersi quel che si erano conquistati.
Tantopiù che Milosevic, si era detto, se ne stava nel suo bunker di
Bor, nella Serbia orientale, vicino al confine rumeno.
Ho cercato di trovare un telefono pubblico per dire a Zivana che ero
ancora vivo, ma non ce n’erano. Tornando verso la Skupstina, mi sono
fermato alla Kasina - il mio caffè-minibirreria preferito - per bere
una birra, e ho udito uno schianto e un grido di esultanza mentre
qualcuno faceva irruzione in un negozio lì vicino. Il saccheggio
andava diffondendosi a tutto il centro della città, e i bersagli
erano i più disparati. Mi è venuto in mente il mattino dopo che non
avevo visto un solo poliziotto a Belgrado, per tutto quel giorno e
quella notte. Chiaramente, avevano abdicato alle loro responsabilità,
e nessuno aveva preso il loro posto.

Alle 19.40 finalmente sono arrivati i vigili del fuoco e ci hanno
invitato a lasciare la scalinata della Skupstina (io stavo proprio
in cima, e mi godevo la spettacolare panoramica dei manifestanti
che si estendevano a perdita d’occhio) con una leggera spruzzatina
d’acqua. Ho deciso - alla fine della lunga giornata - di incamminarmi
fino all’appartamento dei cugini di Zivana, per riposarmi un po’
e magari mangiare qualcosa. A casa loro ho guardato la telecronaca
della manifestazione e gli eventi che vi avevano fatto seguito,
e sono venuto a sapere che cosa avesse scatenato il tutto.
A quanto pare, proprio alla testa dei dimostranti, un uomo con in
testa un cappello di cartone stava fotografando i militari. Non
so che cosa lo avesse ispirato, ma improvvisamente uno di loro gli
aveva sferrato una manganellata in testa, e la battaglia era iniziata.
Non era durata a lungo. Molte stazioni televisive non stavano trasmettendo,
ma alcune avevano coperto l’avvenimento. Sono venuto a sapere anche
che la sede dell'emittente di stato era in fiamme.
Dopo un po’ di riposo (e il pollo arrosto e birra forniti da un
cugino di Zivana, un neo jugoslavo proveniente dalla Macedonia),
sono tornato a piedi alla Skupstina. I pompieri avevano sigillato
l’edificio e nell’area antistante era in corso un rave, con
un mucchio di gente (quasi tutta) giovane che ballava al ritmo della
techno music diffusa dagli altoparlanti. Altri brandivano frammenti
non identificabili di oggetti saccheggiati, sbattendoli l'uino contro
l'altro al di sopra delle loro teste, come fossero state spade.
Qualche macchina zeppa di passeggeri festanti all’interno e all’esterno
fendeva la folla a passo d’uomo.
Per le 22.30 ne avevo avuto abbastanza, e mi sono avviato a piedi
lungo le strade esultanti per tornare al letto che mi ospitava e
andarmene, grato, a dormire. Al mio risveglio la cugina Nada stava
piangendo sui danni arrecati alla Skupstina. Mentre tornavo verso
il centro, il caos aumentava mano a mano che mi avvicinavo alla
Skupstina. La scena attorno all’edificio sembrava un campo di battaglia.
Qualcuno stava aprendo un varco a una piccola folla nel parco. Nel
centro, i trafika (piccole concessioni gratuite) e i negozi
venivano saccheggiati arbitrariamente, e il bottino - scarpe, cosmetici,
abbigliamento sportivo - era sparso ovunque, soprattutto in un sottopassaggio.
I saccheggiatori avevano chiaramente approfittato dell’euforia e
della mancanza di qualsiasi autorità. Il negozio vicino alla Kasina
che avevo visto assalire era così distrutto che non si riusciva
a capire che cosa avesse venduto. Nel sottopassaggio, i commessi
sconvolti cercavano di riportare un po’ d’ordine nei negozi devastati.
Ho comprato quasi tutti i quotidiani e ho preso l’autobus fino a
Novi Sad e alla mia macchina.
E' stata un’esperienza veramente straordinaria, e sono lieto
che vi siano stati così pochi morti e feriti. Ma ero rattristato
dal vandalismo contro la Skupstina. Vandali e saccheggiatori sembravano
aver dimenticato che quella che stavano distruggendo e depredando
era anche loro proprietà, e che le già esigue risorse di questo
paese dovranno essere utilizzate per riparare e sostituire. E il
saccheggio puramente commerciale, con la scusa dei festeggiamenti
per la presunta caduta di Milosevic, mi incuteva altrettanta tristezza.
Tutti aspettano di vedere se Milosevic tenterà qualche reazione,
ora che Kostunica è il nuovo presidente de facto della Jugoslavia.
Un link interessante:
"Gli ultimi giorni di Slobo"
Special di Rainews 24 ore: cronaca, immagini, link e il profilo
dei "duellanti" Milosevic e Kostunica
http://www.rainews24.rai.it/sito/agg_pagine
/Speciali/Belgrado/inferiore.htm
traduzione di Anna Tagliavini
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