Di che religione siete?
Marco Vitale
Circa quindici anni fa, nel corso di una spedizione alpinistica sulla
catena del Karakorum (Pakistan), uno dei nostri alpinisti ebbe seri
problemi dovuti ad infezione intestinale. Con grandi difficoltà
riuscimmo a riportarlo dal campo di 7500 metri dove si trovava al
campo base a 5000 metri. La situazione restava però molto pericolosa
perché il nostro amico non riusciva a trattenere alcun liquido ed era
sottoposto ad un processo accelerato di disidratazione. Fortunatamente
riuscimmo a far salire a prenderlo un elicottero militare che
stazionava in una piccola base militare a 4000 metri.
Quando dall’elicottero scendemmo nella piccola base pietrosa ci
venne incontro un ufficiale pakistano, in abiti civili. Era un
bellissimo giovane sui venticinque anni, con uno sguardo profondo e
indagatore. Quando fummo vicini la prima domanda che ci rivolse fu:
“Which religion are you?”. Non ci chiese da dove venivamo, che
cosa ci era successo, come stavamo. No! Ci chiese:“Which religion
are you?”, cioé "Di che religione siete?". Più o meno
come ora vorrebbe che facessimo, con gli immigrati in Italia, il
Cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna nella sua Nota
Pastorale: ”La città di San Petronio del terzo millennio”.
Ricordo che allora classificai lo strano episodio come testimonianza
di fondamentalismo islamico e della nostra, sotto questo aspetto, più
evoluta civiltà. Mai avrei pensato che, quindici anni dopo, avrei
ritrovato analoga posizione assunta in una Nota Pastorale da parte di
un prelato di tanto rilievo. La Chiesa cattolica, liberandosi da
antiche incrostazioni e antichi pregiudizi, ha saputo, negli ultimi
decenni, porsi tra le grandi religioni come quella più capace di
affiancare l’uomo contemporaneo e aiutarlo ad affrontare il tremendo
travaglio in cui è immerso nello sforzo di evolvere verso forme di
vita individuale e collettiva più mature.
Il cristianesimo, in particolare il cattolicesimo, è l’unica grande
religione che ha imparato a dialogare con le terribili complessità
del mondo contemporaneo. Queste cadute nel passato, del tipo del
Cardinale Biffi, alimentate dal “panico e dalla superficialità”
(cioè proprio dagli atteggiamenti che correttamente il Cardinale
Biffi ci raccomanda di evitare per affrontare le difficili sfide del
nostro tempo), rappresentano un colpo durissimo al cristianesimo come
religione capace di essere parte costruttiva e attiva del travaglio
del mondo contemporaneo.

La demoralizzazione suscitata da queste parole è, dunque, molto
grande. Ma può esserci di conforto tenere a mente un giudizio, che
non ricordo più a chi attribuire, che mi ha sempre colpito: la
grandezza del cristianesimo è dimostrata dalla sua capacità di
sopravvivere, per duemila anni, alla sua Chiesa. Vi è dunque la
speranza che essa riesca a sopravvivere anche alla Chiesa del panico e
della superficialità del Cardinale Biffi. E ciò è confermato dalle
numerose e forti reazioni provenienti da esponenti importanti della
Chiesa cattolica contro la posizione assunta dal Cardinale Biffi sul
tema dell’immigrazione.
Ma questa posizione, per la sua radicale infondatezza, può fare molto
male anche alla società civile e politica. In materia di politica
dell’immigrazione esiste già una enorme confusione di idee, una
grande ignoranza dei fatti, e una drammatica incapacità operativa.
Inserire nella stessa anche un fattore basato in sostanza sulla
domanda del giovane ufficiale pakistano "which religion are you?”
e sulla conseguente discriminazione in chiave religiosa, è qualcosa
difficile da concepire.
Nessuno ha mai rivolto, per fortuna, questa domanda ai milioni di
italiani che, in non lontane epoche, sono andati in giro per il mondo,
fecondandolo con il loro lavoro. Nessuno ha mai rivolto questa domanda
ai tanti indiani mussulmani che rappresentano oggi una ricchezza
irrinunciabile della Silicon Valley (dove una società su tre nella
New Economy è diretta da ingegneri indiani). Nessuno ha, per fortuna,
rivolto questa domanda ai milioni di turchi mussulmani che hanno dato
un contributo fondamentale all’economia tedesca negli ultimi decenni
inserendosi poi, in molti, come stabili e corretti cittadini della
Germania. Nessuno ha rivolto questa domanda ai pakistani mussulmani
del Punjab che, nella fertile bassa lombarda, con la loro eccellente
opera e con la loro civilissima convivenza, si sono fatti carico di
attività che i nostri non vogliono più svolgere salvando la nostra
zootecnia da una sicura decadenza.
Nessuno ha mai rivolto questa domanda ai milioni di mussulmani, attivi
nelle più varie arti e professioni, a Londra, a Parigi, a Chicago, a
New York, in tutte le grandi città del mondo, che proprio nella loro
capacità di unire e far convivere le più diverse culture e
religioni, trovano la loro specificità, la loro forza, la loro
grandezza, la loro ricchezza. Questa domanda invece risuonava ovunque
nell’Europa delle guerre di religione, nei secoli delle violenze,
degli eccidi, della miseria, nei secoli terribili dell’inquisizione
cattolica, una pagina di violenza giuridicamente organizzata ignota,
nella durata e nella perversione raggiunta, alle altri religioni.
Da qualche tempo è in atto una pericolosa ondata di oscurantismo
clericale (che ha raggiunto il suo vertice con la beatificazione di
Pio IX) che sta cercando di riportare l’orologio molto indietro.
Come cristiani e cattolici, tutto ciò ci crea una profonda sofferenza
e un grande dolore. Ritorniamo a sentirci orfani della nostra Chiesa.
Ma come cittadini, laici e liberali, non possiamo limitarci a soffrire
in silenzio, dobbiamo dire, con forza: indietro non si torna. Lo
dobbiamo dire con più forza, anche perché sembra sparita quella
classe di politici democristiani che, da De Gasperi in poi, avevano
imparato a rispettare la Chiesa senza esserne succubi.
I politici non democristiani sembrano porsi, invece, in una posizione
sempre più succube alla Chiesa, e non reagiscono ufficialmente
neanche alle più stravaganti provocazioni come quella del Cardinale
Biffi. E allora tocca ai cittadini normali prendere la parola quando
esponenti della Chiesa rimettono in gioco principi fondamentali,
definitivamente acquisiti dalla nostra civiltà. E uno di questi
principi, scolpito anche nel marmo della nostra Costituzione, dice che
non si deve rivolgere a nessuno la domanda: "which religion are
you?" per trarne conseguenze di organizzazione sociale
discriminatorie.
E’ stato detto da alcuni politici, per potersene lavare le mani, che
il Cardinale Biffi parla solo di aspetti religiosi e spirituali e che,
quindi, le sue tesi non possono essere poste in discussione sul piano
civile. Non è vero. Io ho letto con molta attenzione e ripetutamente
la, invero modestissima, Nota Pastorale. Essa è un documento
religioso dedicato essenzialmente ai temi urbanistico - religiosi
della città di Bologna e di quello che, con espressione stravagante,
viene definito “cristianesimo petroniano” (il cristianesimo locale
è proprio l’ultima cosa che ci mancava in tema di localismo!). E
quindi è affare proprio del Cardinale e dei suoi fedeli.
Ma il paragrafo sull’immigrazione che ha suscitato il dibattito e
che in realtà è una forzatura estranea a una Nota Pastorale di
questo tipo, è esplicitamente rivolto allo Stato (“possiamo
aggiungere un’annotazione che riguarda da vicino soprattutto il
comportamento auspicabile dello Stato e tutte le autorità civili”),
ed auspica chiaramente una politica di immigrazione discriminatoria in
funzione del fattore religioso (per quanto riguarda i mussulmani “mentre
spetta a noi evangelizzare è lo Stato - ogni moderno stato
occidentale - a fare i suoi conti… L’Europa o ridiventerà
cristiana o diventerà mussulmana”). Su questa visione è dunque non
solo possibile ma persino doveroso prendere posizione per formulare un
grande triplice no. No, perché è una visione antistorica. No,
perché è contraria alla coscienza civile e cristiana contemporanea.
No, perché è una colossale sciocchezza.
E’ del tutto casuale che mi trovi a scrivere queste note in un
alberghetto di una cittadina della Baviera. Ed è casuale che,
parlando con il sindaco che da quindici anni governa la cittadina,
questi sia venuto a parlare proprio degli immigrati. Le cose sono
andate così. Mi sono congratulato con lui perché la cittadina appare
così ordinata, pulita, serena tranquilla. “Tranquilla?", mi
risponde sorridendo; in realtà qui esistono molte tensioni, che però
noi riusciamo a governare. Pensi che su 11.000 abitanti, circa il 15%
è costituito da immigrati. Ci sono gli italiani, i portoghesi e molti
altri, e la maggioranza oggi è di mussulmani. Abbiamo dovuto
costruire anche una moschea. Per fortuna abbiamo acquisito una grande
esperienza in materia. Abbiamo incominciato con i rifugiati dell’Est
nel primo dopoguerra e la gente li respingeva. Poi sono venuti gli
italiani e fu la stessa cosa. Poi fu la volta dei turchi mussulmani e
la storia si è ripetuta. Adesso sono tutti abbastanza bene inseriti,
secondo i seguenti principi: la comunità rispetta le loro
peculiarità culturali, anzi collabora con loro per aiutarli a
preservarle. Ma loro devono rispettare totalmente non solo le leggi ma
anche i principi fondanti della città, tra i quali centrale è ormai
quello della tolleranza. E poi man mano che passa il tempo iniziano
anche gli scambi fra le diverse comunità. Proprio oggi ho celebrato
un matrimonio fra un ragazzo cattolico e una ragazza mussulmana. I
rispettivi genitori non ne erano contenti e sono rimasti molto
riservati. Ma i due giovani lo erano e così i loro giovani amici. E
il matrimonio è andato bene lo stesso".
E’ una fortuna che nel mondo vi siano milioni di sindaci saggi ed
esperti come questo che governano, con saggezza e competenza, la
complessità e presso i quali quello che dice il Cardinale Biffi vale
come il due di picche. L’obbiettivo da perseguire non è l’integrazione,
ma la convivenza, il rispetto reciproco. E con moltissimi mussulmani
da tempo stabilizzati in Europa la convivenza è molto più facile che
con le culture di tanti meridionali trasferiti al Nord all’inizio
degli anni ’60. Naturalmente rispetto reciproco ma anche rigoroso
rispetto delle leggi e dei principi fondanti della città ospitante,
cosa che la maggior parte dei mussulmani ospiti in Europa e in America
è in grado di assicurare come ogni altra persona.
Vi sarebbero altri temi importanti da sviluppare, ma mi limito ad
elencarli. Il primo è che la nostra quota di immigrati, in
particolare di quelli mussulmani, è ancora molto bassa rispetto alla
maggior parte dei principali paesi. La paura e l’ansia su questi
temi sono inversamente proporzionali alla capacità organizzativa e
alla conoscenza seria dei fenomeni. Mi auguro poi che qualche studioso
serio voglia puntualizzare che la autentica e complessa cultura
mussulmana, che non è solo quella fondamentalista, è un po’
diversa dalla folcloristica sintesi che della stessa fornisce il
Cardinale Biffi nella sua Nota.
Sarebbe poi da approfondire la semplicistica visione delle origini
della Università Bolognese, che sarebbe frutto di “una unità
culturale certa, non contestata, dinamica, che avrebbe favorito il
sorgere di una tipica civiltà bolognese”, ricordando che la
meravigliosa nascita degli Studium medioevali è uno dei fenomeni più
affascinanti e complessi di quei secoli; che è frutto di eventi
internazionali; che è alimentata dalla “peregrinatio” dei docenti
e degli studenti, che è tipicamente frutto della fusione, sul piano
della scienza, della cultura classica, della rinascente cultura
europea, della cultura arabo - islamica: che il grande giurista
Irmerio che fondò la scuola di interpretazione del diritto romano e
rese Bologna famosa nel mondo, fu confidente e consigliere di Enrico V
e che fu scomunicato, unico fra i giuristi, dalla Chiesa, sino a
quando il concordato di Worms non cancellò la scomunica; che la forte
spinta allo sviluppo della comunità universitaria di Bologna fu data
dalla costituzione Habita di Federico I, Barbarossa, nel 1155, con la
quale l’imperatore fissava per gli studenti e docenti forestieri e
stranieri una serie di garanzie, sicurezze e privilegi per proteggerli
dagli arbitri della popolazione; che verso la metà del 1200 a Bologna
c’erano quattordici “nationes” di studenti, tutte organizzate
come comunità distinte e separate, di cui 3 italiane (Romani,
Toscani, Lombardi) e quattordici ultra montane (Germania, Polonia,
Ungheria, Inghilterra, Francia, Normandia, Piccardia, Borgogna,
Turtenna, Piton, Guascogna, Provenza, Catalogna, Spagna); che allo
Studium di Bologna si andava non perché c’era una buona ed unitaria
“cultura cittadina” ma perché, affermatasi internazionalmente
quale prima scuola di diritto romano e poi canonico, il suo “titolo
di studio”, internazionalmente riconosciuto, era estremamente
redditizio e creava elevate prospettive di impiego nelle carriere sia
civili che ecclesiastiche (“Bologna la grassa, ingrassa” scriveva
un monaco francese polemizzando con i suoi connazionali che
accorrevano ad apprendere il diritto civile e canonico a Bologna,
mentre il contemporaneo poeta satirico inglese Nigelio Wireker
invitava sarcasticamente i suoi conterranei a studiare il diritto
perché “un esperto in diritto può suscitare le liti e guadagnare,
e poi comporre le liti e guadagnare ancora e poi rinfocolare le liti
sopite e guadagnare ancora!”)
E infine, dato che si è voluto ricordare il nascere delle grandi
università europee come Bologna come fatto di identità locale,
casereccia e cristiana, non si può non ricordare che, in quella fase,
con l’esclusione del diritto, tutti gli altri studi rinascono sulla
base delle conoscenze e della scienza arabo - islamica, senza la quale
non possiamo neanche immaginare la nascita della cultura contemporanea
europea, perché tutto o quasi tutto ci è giunto attraverso il grande
lavoro di conservazione, di traduzione e di elaborazione scientifica
della scienza arabo - islamica. E questo vale non solo per il pensiero
greco, ma anche per il pensiero siriano e di altri popoli e non vale
solo per la filosofia ma anche per la matematica, la geometria, la
meccanica, l’astronomia, l’alchimia, la zoologia, la medicina.
Nella stessa Bologna, che si vorrebbe oggi immune dal morbo mussulmano
e islamico (e che si favoleggia aver creato il suo grande Studium solo
perché sarebbe stata una città serena e di cultura unitaria, mentre
lo Studium nasce lì per le vicende della politica internazionale e in
gran parte per volontà di Enrico V e della sua rappresentante Matilde
di Canossa), nella stessa Bologna il fondatore della facoltà di
medicina, il fiorentino Taddeo Alderotti (1223 - 1295) è uno studioso
e divulgatore della lettura averroistica di Aristotele. Insomma,
comunque lo si guardi, anche avendola letta con la massima benevolenza
e comprensione, come si deve per una Nota Pastorale, questo testo è,
sui temi dell’immigrazione, brutto, molto brutto.
Forse non era chiaro a chi lo ha steso che al termine di questo modo
di pensare e certamente passando attraverso passaggi, esasperazioni e
depravazioni che richiedono il sommarsi di ben altri veleni, vi è la
teoria della pulizia etnico - religiosa che abbiamo, recentemente,
visto all’opera nei Balcani. E infine, questa può essere una buona
occasione per riflettere criticamente sulla gigantesca operazione
distruttiva che la nostra cultura, la nostra forza economica, la
nostra religione ha fatto e continua a fare in tutto il mondo, con la
sua devastante opera di globalizzazione e di banalizzazione delle
altre culture e identità.
Non saranno le poche moschee nelle nostre città (peraltro necessarie
dopo che la nota CEI del 1993, puntigliosamente ripresa dal Cardinale
Biffi, pone il divieto di mettere a disposizione per incontri
religiosi di fede non cristiane, chiese, cappelle e locali riservati
al culto cattolico, come pure ambienti destinati alle attività
parrocchiali”), a farci perdere la nostra identità e la nostra
cultura. Noi, forse, le stiamo perdendo ma per fenomeni ben più
complessi e gravi, nei quali l’irresponsabilità, l’incapacità di
ascolto degli altri, l’egoismo e la paura occupano non piccolo
spazio. Se la nostra identità fosse quella che appare dalle parole
che il Cardinale Biffi ha dedicato ai temi dell’immigrazione, forse
non è male perderla, per andare alla ricerca di un'identità nuova.
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