Caffe' Europa
Attualita'



Giulio Cesare al Foro



Josè Luis Sànchez-Martìn



E' arrivato l'autunno e con esso i pochi spettacoli stranieri che ci è dato vedere nell'intera stagione teatrale di questa provincia culturale dell'Europa che purtroppo è attualmente l'Italia. Le vere capitali culturali europee (Londra, Dublino, Edimburgo, Parigi, Lione, Madrid, Barcellona, Lisbona, Praga, Berlino, Amsterdam, Stoccolma, San Pietroburgo, Mosca e tantissime altre ancora...) producono, coproducono e ospitano spettacoli teatrali e di danza di artisti di tutto il mondo, senza che questo abbia per forza sempre la straordinarietà di un evento unico o la limitatezza di tempo e la conseguente concentrazione in un festival.

Roma, invece, vede la quasi totalità dei passaggi internazionali di rilievo affollati nei mesi di ottobre e novembre, in particolare all'interno degli interessantissimi e variegati "Roma Europa Festival", dedicato alla danza, alla musica e al teatro musicale, e "Festival d'Autunno", che si occupa di teatro contemporaneo. Il pubblico romano, sia quello degli addetti ai lavori, per il quale purtroppo non è previsto nessun tipo di agevolazione, sia quello dei curiosi e bisognosi di cultura di livello, che assisterebbe volentieri a molti degli appuntamenti proposti, si vede così costretto non soltanto a sborsare in poco tempo notevoli cifre per i biglietti, ma anche a tenere un ritmo di frequentazione serrato e faticoso, che comunque obbliga spesso, a rinunciare a molti degli appuntamenti.

Questi inconvenienti non tolgono nulla alla qualità delle proposte internazionali in programma nei due festival menzionati, che sono di ottimo livello "europeo". Infatti, è in queste occasioni che si ha l'opportunità di trovarsi davanti non solo all'alta qualità e e all'impegno che normalmente si prefiggono ed esigono gli altri paesi europei, ma anche davanti alla reale messa in opera, a vari livelli, delle concrete premesse specifiche e costitutive del teatro contemporaneo. E' anche in queste occasioni, purtroppo, che ci si accorge del basso livello di qualità che è la norma attuale del teatro italiano, cui ormai si è conformato un pubblico mediocre e volgare che applaude rumorosamente e urla con presunzione "bravo!" a qualunque istrione sfoderi con sfarzo di mezzi economici e con sufficiente arroganza il suo catalogo di consueti, logori e banali cliché accademici.

Un teatro e un pubblico rassicurati dai mezzi di comunicazione che, conformati a loro volta a quel livello, urlano al "capolavoro" per quasi ogni produzione che provenga dalle istituzioni di "prestigio" o sia realizzato da qualcuno del gruppo degli eletti come "rappresentanti" delle tendenze e delle novità del periodo; un teatro al quale, da decenni, le istituzioni politiche elargiscono ingenti finanziamenti, molto spesso immeritati e soprattutto sprecati, istituzione che vengono guidate nelle loro scelte da quel fasullo clamore di pubblico e di critica, ma anche dalle frequentazioni delle segreterie di partito da parte dei registi.

Ma la cosa più grave è che a guardare gli spettacoli "classici" della prosa stabile o quelli delle presunte avanguardie, ci si accorge che il secolo più lungo della storia, almeno per noi che lo abbiamo vissuto, il più rivoluzionario e trasformatore, il Novecento, sembra essere passato in vano per il teatro italiano.

Le premesse teoriche e soprattutto pratiche con cui i grandi maestri del secolo (Artaud, Copeau, Stanislavskij, Mejerchol'd, Gordon Craig, Decroux, Grotowski, Kantor, Peter Brook e tanti altri), hanno rinnovato fin dalle radici l'arte teatrale dandole un nuovo e potenziato senso e in particolare rivoluzionando il concetto stesso di attore, a partire dalla sua preparazione, non sono presenti quasi mai sui palchi italiani, non colonna vertebrale della presenza e dell'agire degli attori e vengono studiate solo in quanto storia, ma non sono il bagaglio reale e fondamentale che le scuole di teatro forniscono.

Così, i futuri attori continuano a formarsi sui concetti ottocenteschi del capocomicato, del "mattatorismo", dell'esibizionismo egocentrico e arrogante con cui propinare al pubblico ad ogni occasione l'intero catalogo dei cliché imparati, della voce impostata che rappresenta il veicolo con cui soddisfare la propria compiaciuta vanità, della mancanza assoluta di una preparazione fisica che s'integri a quella emotiva in una fusione che sia una vera e propria "presenza", della divisione delle persone in categorie come quelle dei ruoli (primi, secondi, terzi) e che devono essere prevaricate e sopraffatte e infine di quant’altro ciarpame umano e paccottiglia da palcoscenico abbia lasciato in eredità la decadenza del teatro borghese dell'Ottocento, routinario e superficiale, per superare il quale generazioni di maestri lungo un intero secolo hanno altrove ricercato, sperimentato, creato nuovi approcci, approntato discipline, sistemi, metodi.

Certo ci sono delle eccezioni, tra attori, registi, messe in scena, ma sono così rare che non riescono a essere influenti nel succo del discorso.

Gli aggettivi con cui più spesso gli osservatori stranieri definiscono l'attuale teatro italiano sono: vecchio, noioso, senza interesse, arrogante, vanitoso, provinciale, approssimativo, amatoriale (in particolare per i registi), insopportabile. Infatti, come per il cinema, il teatro italiano ha delle difficoltà enormi a circuitare in Europa, perché non produce spettacoli che possano suscitare sufficiente interesse e che soddisfino il livello di qualità e di contemporaneità al quale gli altri Paesi sono abituati. Per il cinema quantomeno ogni tanto si apre un dibattito, si ode una discussione sulla sua ormai decennale crisi. Per il teatro invece, si è esteso un pietoso velo di silenzio o peggio ancora una cieca difesa ad oltranza come se ne andasse di mezzo la dignità nazionale.

Sembra che nessuno abbia il coraggio di additare e smascherare questo re che va in giro molto nudo, che tutti di comune accordo applaudono per i suoi magnifici ma inesistenti abiti. Ma non è un re, bisogna cominciare a dirlo, è un deambulante cadavere insepolto, che nasconde la sua decadenza e decomposizione con furbe e facili, anche se molto costose, operazioni di maquillage. Il teatro ha senso solo quando è necessario, se si degrada al livello di un lusso obbligatorio senza senso, che non è più un elemento dell'identità culturale, che non forma parte della qualità della vita, che è soltanto un evento mondano, allora diventa inutile.

Sono in atto ormai da tempo operazioni di depistaggio, che tendono a spostare l'attenzione da quelle caratteristiche negative di cui parliamo verso altri elementi, che da soli nobilitino le messe in scena e sono appunto i tentativi di maquillage della decomposizione. Ne sono triste esempio alcune mastodontiche e bizzarre scenografie, lo sfruttamento maldestro della musica dal vivo, una certa inutile multimedialità, il ricorrere ai classici, magari in riletture superficialmente modernizzanti o riscritture da punti di vista bizzarri, lo stravolgimento degli spazi teatrali consueti e, negli ultimissimi tempi, l'utilizzo come ambiente teatrale di luoghi di particolare rilievo storico e artistico.

Il più clamoroso di questi utilizzi, con grande risonanza anche internazionale, è stato la riapertura quest'estate del Colosseo, dopo 1500 anni, ai fini spettacolari (ne abbiamo scritto nell'ultimo numero di Caffè Europa del mese di luglio). In questo caso però vanno fatte delle distinzioni. Si trattava di un ambizioso progetto "Sofocle", organizzato dall'Istituto Nazionale del Dramma Antico, che prevedeva tre appuntamenti. Il primo, "Edipo Re" messo in scena dal Teatro Nazionale di Grecia, era un classico spettacolo di prosa, nel senso più deteriore del termine, noioso e superficiale nel suo approccio "insieme storico e sperimentale", come recita il programma, che non ha trovato nessun rapporto con lo spazio in cui era stato allestito, anzi ne era schiacciato dalla bellezza.

Il secondo, invece, era "Antigone" nella versione del Centro d'Arte Drammatica di Teheran (Iran), in una messa in scena dell'attrice e regista Pari Saberi, che, malgrado qualche rigidità e qualche momento che per noi occidentali poteva sembrare ingenuo o già visto, è riuscita ad appropriarsi del testo e renderlo, anche grazie ad una forte ritualità accentuata dalla bellissima musica dal vivo e dai sontuosi costumi di ispirazione medio-orientale, un racconto mitico-epico di forte suggestione visiva ed emotiva e che trovava nel Colosseo un luogo ideale dove esplicitare tutta la sua potenza arcaica e quindi anche universale. Un bell'esempio di spettacolo "utile" che aveva senso ospitare in una cornice così affascinante come il Colosseo. Il terzo appuntamento era un concerto di musiche di Mendelssohn ispirate al "Edipo a Colono", quindi meno attinenti al discorso che facciamo.

Se l'operazione sul Colosseo, malgrado la diversità dei risultati, rimane molto valida e ha un senso che potrà essere affinato nelle edizioni a venire, abbiamo assistito invece a qualcosa di indegno in un altro luogo dove storia e arte s'incontrano come in pochi al mondo: il Foro di Cesare nel sito archeologico dei Fori Imperiali.

Ovviamente era un "Giulio Cesare". Sulla carta poteva sembrare un'operazione sicura e di prestigio. Il testo è scritto da Mario Giorgi, premio Calvino per la letteratura nel 1993 e autore di romanzi e testi teatrali. La regia è firmata da Lorenzo Salveti, che vanta un lungo curriculum nella prosa stabile, più di 70 allestimenti con alcuni dei nomi più prestigiosi del suo ambiente.

Nel ruolo di Cesare recita Gigi Angelillo, apprezzato e versatile attore che si è mosso dalla prosa stabile al teatro di cooperativa, e che abbiamo molto gradito nella esilarante messa in scena di "Esercizi di Stile" di Raymond Queneau e nel delicato monologo "Il caffè del signor Proust". Uno dei pochi attori che non viene sminuito quando lo si definisce di tecnica classica.

Nel ruolo metafisico e misterioso della "Donna", recita la poliedrica attrice Ludovica Modugno, che oltre alla sua attività teatrale e televisiva, è la voce italiana di molte importanti attrici del cinema internazionale come Glenn Close, Meryl Streep, Emma Thompson, Hanna Schygulla e tante altre.

Nonostante queste premesse, lo spettacolo presentato tra i ruderi del Foro di Cesare era di una mediocrità, banalità e approssimazione da recita parrocchiale o da saggetto di fine anno. Viene naturale dare, ovviamente, la responsabilità alla regia, praticamente inesistente. Nessun attore, infatti, sembrava avere il ben che minimo riferimento per sostenere il personaggio e appariva tutto come improvvisato lì per lì nel primo giorno di prove, che comunque devono essere state molto poche, vista la quantità di errori, correzioni e accavallamenti nelle battute.

Contornava i protagonisti una serie di giovani mal preparati e ancora peggio diretti, che scimmiottavano la già deprecabile tecnica accademica. Ci dispiace dirlo, ma Angelillo sembrava la parodia impazzita e assolutamente fuori dalle righe di Albertazzi, Placido e Gasmann insieme, e attingeva a mani piene e senza nessun apparente rapporto con l'azione al più trito e scontato repertorio di luoghi comuni da accademia.

La Modugno era priva di qualunque dimensione espressiva, sia nel corpo, permanentemente ferma con qualche alzata di mani da recita della poesiola, sia nella voce, anch’essa ancorata monocordemente a uno stereotipo piatto e di carattere vagamente declamatorio. Tutti tentavano di dare qualche parvenza di carattere al proprio personaggio urlando continuamente, effetto disgustoso amplificato dall'uso ingiustificato dei radiomicrofoni, vistosamente incollati sulle guance degli attori.

Il copione, pretestuoso e noioso, si basava sulla trovata di un Cesare che in preda ad un delirio di onnipotenza pretende di mettere in scena la propria morte, senza però che le sue stancanti dissertazioni o l'isterico rapporto con le figure di contorno o con la misteriosa "Donna" ci dessero neanche la più minima dimensione storica o tragica. Senza costruire un senso, un rapporto, una giustificazione all'ambientazione tra i ruderi che videro il vero Cesare.

Uno spettacolo inutile e amatoriale, che soprattutto non merita di dissacrare con la sua rozzezza la bellezza storica e artistica di simil luogo. L'unico effetto che ha avuto è stato quello di provocare le amare riflessioni di questo articolo e la constatazione che il cadavere insepolto del peggiore teatro borghese ottocentesco si aggira ancora per l'Italia, magari cercando di coprire la sua decomposizione nascondendosi tra le vestigia dell'antica bellezza.

Possiamo essere sicuri che una cosa del genere non sarebbe successa in un'altra seria capitale culturale europea. A creare un evento in rapporto con il Foro di Cesare avrebbero chiamato Peter Brook o Robert Wilson o Jonathan Miller o Peter Sellars o Gerome Savary o Ariane Mnouchkine o Pina Bausch o Lev Dodin o Eimuntas Nekrosius o Lluis Pasqual o Roberto De Simone o Luca Ronconi o comunque qualcuno in grado di assicurare il livello artistico che il luogo dove è nata la civiltà europea meriterebbe.

 

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