Caffe' Europa
 
Editoriale

La "coperta" di Darwin sulle donne

Giancarlo Bosetti

 

Perche' questo ritorno

I nostri lettori piu' affezionati avranno a questo punto capito che il ritorno sulla scena del pensiero sociale di Charles Darwin un significato ce l'ha. (Quanto ai lettori nuovi che approdano ora per la prima volta nella nostra home page, non hanno che da consultare le puntate precedenti - numeri 1,10,13 nei nostri forniti archivi). Il significato e la posta in gioco in questa discussione sono l'idea di essere umano che ci ritroviamo in testa alla fine di un secolo che, di queste idee, ne ha gia' sperimentate diverse, delle piu' balzane e anche pericolose. Il Darwin che torna in scena, per iniziativa di un filosofo della politica come Peter Singer o di uno psicologo evolutivo come Steven Pinker, e' il teorico dell'evoluzione reinterpretato e "allargato" alla sfera dei comportamenti sociali. Immaginiamo la nostra concezione dell'umanita' attuale come una superficie piana divisa in due zone, una "biologica" e una "culturale" e mettiamo bene a fuoco il contrasto tra le due aree, tra cio' che possiamo attribuire alla nostra natura di membri del "regno animale" e cio' che e' invece il prodotto della nostra cultura, il "regno artificiale" della socialita' che noi stessi abbiamo creato e modificato nel corso della storia, o se preferite tra il patrimonio genetico (quello che siamo in germe fin dalla nascita) e il patrimonio culturale (quello che riceviamo con l'educazione). Il "partito darwiniano" — semplifichiamo cosi' per comodita' — di Singer e Pinker e' quello che tenta di allargare la "coperta biologica" su quella superficie riducendo al minimo la "coperta culturale", il "partito anti-darwiniano" di Denan Malik (ma ci potremmo aggiungere, come vedrete, anche Pierre Bourdieu) tenta all'opposto di stendere su quasi tutta la superficie la "coperta culturale" lasciando solo un angolino alla "coperta biologica". I primi tendono a vedere, per esempio, in un giovane che si impegna allo spasimo nello studio per emergere e affermarsi una prosecuzione della lotta per la vita, la continuazione dei processi selettivi attraverso i quali la specie provvede al suo futuro. Oppure cercano nelle bande teppistiche degli stadi l'eredita' genetica del branco di scimmie (il che non significa ovviamente che ne apprezzino i risultati o si precludano la possibilita' di azioni correttive). I secondi invece tenderanno a pensare che sia il primo esempio (lo studente che si impegna di piu'), sia il secondo (i teppisti) sono il prodotto sociale dell'educazione che hanno (o non hanno) avuto.

Vinca il migliore

La disputa naturalmente non e' nuova, ma acquista oggi un rilievo speciale dal momento che si sviluppa nel vuoto seguito alla crisi o alle impasse delle grandi ideologie solidaristiche. La fine della guerra fredda e' certamente una delle ragioni che la attizzano. L'altra e' la rivoluzione che ha modificato in profondita' il posto della donna nelle societa' occidentali. Vediamo come e perche'.

Con la liquidazione del comunismo e' diventato universale il riconoscimento della funzione del mercato come propulsore dell'economia. Producono piu' ricchezza le societa' in cui la competizione e' libera, in cui la guerra tra i talenti imprenditoriali si puo' dispiegare. In altri termini vince chi lascia piu' spago alla competizione e alla selezione che ne consegue. Le ricchezze individuali crescono o diminuiscono, le aziende nascono e muoiono senza pieta' in una libera gara. Vinca il migliore. Se il riconoscimento della funzione del mercato e' oggi unanime e viene sia da destra che da sinistra, ne consegue che unanime e' anche il riconoscimento della funzione della competizione. Lasciamo da parte qui il fatto che rimangono ovviamente (e fortunatamente) sulla scena diverse sensibilita' politiche (di destra e di sinistra) per cui alcuni rifiuteranno una visione cosi' cruda della gara sociale e insisteranno per porvi dei limiti (la tutela dei piu' deboli, gli interessi nazionali in settori strategici, la protezione sanitaria universale etc.) e altri invece sosterranno posizioni estreme di "darwinismo sociale" (chi perde si arrangi, peggio per lui, meglio per tutti gli altri). Qui importa il fatto che anche la parte politica piu' egualitarista, vale a dire la sinistra, riconosce correntemente la funzione indiscutibile del mercato, e dunque della competizione che ne e' il motore.

 

Leader della sinistra sempre in bilico

Si capisce che questo e' un problema teorico per l'ideologia socialista, anche nelle sue versioni piu' moderate, come e' un problema anche per l'ideologia solidarista cristiana. Quest'ultima cerca di farvi fronte, con risultati alterni e non sempre convincenti, con una teologia dell'impresa e della competizione (un campo nel quale si e' distinto l'americano, cattolico e liberista, Michael Novak, ma ultimamente il Papa sembra piu' afflitto dai guai prodotti dal capitalismo che non entusiasta dei suoi vantaggi, et pour cause). La prima si muove in varie direzioni: la socialdemocrazia infatti sta fornendo all'Europa le soluzioni di governo piu' convincenti per gli elettori, anche se dal punto di vista delle idee generali sulla societa' non ha fornito una visione compatta e omogenea. Nessuno sarebbe oggi in grado di dire se gli uomini di governo europei abbiano una visione della societa' piu' solidaristica o piu' competitiva. I due poli del problema rimbalzano continuamente nei loro discorsi, trovano a volte degli equilibri soddisfacenti nelle politiche, ma non altrettanto si puo' dire della sintesi retorica che ne fanno. Quasi tutti in origine piuttosto egualitaristi, sono oggi alle prese con politiche di impronta neoliberale. Nessuno di loro in gioventu' avrebbe condiviso quell'apologia del mercato che oggi e' moneta corrente. Quasi tutti dicono "efficienza" e subito dopo "equita'", o viceversa. Restano accuratamente in bilico. E non hanno molte alternative, almeno fino a quando non si inventera' una sintesi concettuale, o per lo meno retorica, se mai ci sara'.

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