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"Il popolo di Lady Diana" (pagina 3)

Paolo Ceri


Aprirsi agli altri, significava andare contro le regole, saltare i confini sociali, in certo modo abolirli. Un comportamento che le procurava, come ben sapeva a proprie spese, difficoltà e ricatti da parte dell' establishment . Ciò non le impediva di insistere sempre di più in questa direzione, tanto per necessità quanto per convinzione. La convinzione che al mondo lontano e artefatto dell'aristocrazia dovesse associare per opposizione il mondo più vero della gente comune. Un atteggiamento, questo, che si rifletteva anche nel modo di educare e comunicare con i figli: "una madre amorevole che cercava di dare ai propri figli un'idea di cosa sia il mondo reale. Li portava a divertirsi nelle fiere e a mangiare hamburger, ma anche alle minestre popolari e dai malati in fase terminale" (Salman Rushdie, in Diana Crash , Decartes & Cie, 1998).

Beninteso, niente di particolarmente eroico o rivoluzionario, ma sufficiente, una volta comunicato dai media, a incontrare bisogni e valori diffusi nella società. E i luoghi dove meglio può incontrare e esprimerli sono i luoghi della sofferenza e dell'emarginazione: la malattia, la povertà, l'handicap, la diversità, la guerra. L'impegno nelle innumerevoli opere di carità e nelle iniziative umanitarie ne sono la testimonianza personale e, spesso, pubblica.

Fa parte delle virtù aristocratiche il dovere e la prassi delle opere di beneficenza, quale liberalità compensatoria in un mondo di gerarchie e ingiustizie. Una prassi che si istituzionalizza in un'epoca che sottrae funzioni politiche all'istituto monarchico. "La famiglia reale presiede a numerose iniziative di beneficenza(...). Le iniziative di beneficenza per i gruppi emarginati dimostrano anche la pretesa della monarchia di rappresentare la nazione nel suo complesso" (Michael Eve, Dentro l'Inghilterra , Marsilio 1990). Rispetto a una simile prassi Diana innova, introducendo uno stile di partecipazione personale diretto e spontaneo che comunica convinzione, semplicità, tenerezza, comprensione: "nel corso degli ultimi mesi lei si volge verso la miseria del mondo e diventa, se non una sorta di madre Teresa, perlomeno una fata umanitaria. L'estate 1997 è un periodo decisivo che intensifica la presenza mitologica e reale di Diana" (Edgar Morin, "Le Figaro", 8 settembre).

Questa evoluzione le attira critiche acide da parte dei più conservatori, che mirano a svalutare e denigrare l'impegno umanitario della principessa, denunciando l'effetto propagandistico esercitato dai media nel mistificarne la reale inconsistenza: "mostrarsi premurosi e altruisti in pubblico è più importante che fare" ("The Scotsman", 17 aprile 1998). Ma sta il fatto che la gente capisce il messaggio, come la "settimana dei fiori" dimostrerà in modo incontrovertibile. Non si contano, ad esempio, le lettere e le poesie che lo esprimono nel modo più spontaneo: "Una donna con tanto da dare / Così generosa e gentile./ Toccasti noi tutti, il giovane, il vecchio, / il malato, lo storpio e il cieco" (Lydia Martin, in Poems for a Princess , Anchor Books, 1998); "Bimbi morenti tenesti tra le braccia, / le mani tue toccarono un uomo con l'Aids, / la tua compassione fu davvero senza limiti, / guidasti la nostra paura e ignoranza, / noi colpevoli / chiniamo la testa dalla vergogna" ( Jacki McEnleaney, ib. ); "Il fuoricasta, l'escluso, / l'avvilito / il fallito / tutti amasti comunque, / penso ci riempia di colpa e di vergogna vera (J. Lea, ib .); "Avevi Diana un cuore d'oro, / per l'ammalato, il senzatetto, il giovane, il vecchio" (Catherine Radcliffe, ib .).

La gente coglie il messaggio perché cade su un terreno preparato a riceverlo. A prepararlo è stato il passaggio di fase, l'inversione del ciclo morale, vale a dire il declino dell'individualismo edonistico e "darwinista", accompagnato dal ritorno di valori e orientamenti collettivi. Un cambiamento che segna la fine della lunga egemonia politica dei conservatori e delle politiche thatcheriane e apre, nel maggio 1997, alla netta vittoria del New Labour di Tony Blair alle elezioni politiche. Un cambiamento che trova una delle sue espressioni in nuove rappresentazioni e sentimenti. E sono questi a costituire l'elemento che corrisponde ai tre indizi di cui sopra. Con riferimento alla "settimana dei fiori" molti osservatori si sono dimostrati d'accordo nel dare a tali sentimenti un nome: compassione. Del resto, nei mesi successivi alla morte di Diana, le parole più rappresentative, per frequenza e per forza legittimante, dentro e fuori il dibattito politico, sono compassion e to care.

Dando prova nell'occasione di un'acuta sensibilità sociale, Tony Blair ha mostrato di cogliere il significato - il contenuto morale - della partecipazione collettiva: "Lasciamo che la sua eredità sia la compassione. Facciamo in modo d'essere un'Inghilterra migliore e più tenera". Compassione evoca fraternità, solidarietà, altruismo. Compassione si oppone a competizione, separazione, egoismo. Nella settimana londinese ne è stato un segno maggiore il riconoscimento pubblico accordato alle associazioni caritative, culturali e di volontariato - tutte associazioni no profit - con la loro nutrita e preminente rappresentanza nel corteo e nella cerimonia funebre, con la creazione del Princess of Wales Memorial Fund, con la selezione dei rappresentanti nel comitato per il progetto di un Memorial Hall.

Proprio nel paese della Thatcher ha luogo l'evento pubblico che più di altri suggella il passaggio dalla fase individualistica, iniziata nei primi anni 80, alla fase collettiva del ciclo morale. È in questa prospettiva che si può dare un senso all'apparente assurdo diagnosticato da Giorgio Bocca: "il caso della povera Diana, cosiddetta principessa della gente, la cui morte ha destato commozione vivissima. È stata l'immensa dissociazione collettiva del nostro tempo delle moltitudini che tirano la carretta nella società industriale, in adorazione per una mezza calzetta che più la fortuna baciava e più se ne lamentava" ("L'Espresso", 18 settembre).

In epoca individualistica Lady Diana, per quanto nobile, bella, ricca e privilegiata, era considerata perdente e, in un certo senso, out: la "principessa triste". Come quella fase si esaurisce e riprendono forza le istanze morali collettive, i valori e i simboli acquisitivi del successo individuale e della competizione vengono svalutati a favore dell'altruismo, della compassione e della cooperazione: Diana viene assunta a simbolo morale. Sono milioni a cantare, con Elton John, Candle in the wind : "eri la grazia incarnata tra gli emarginati".

È stato notato, infatti, che "questa ‘santa mediatica' è diventata un punto di identificazione collettiva: molti hanno trovato che riferirsi emotivamente a lei permetteva di non essere soli" (Salvatore Veca, "L'Espresso", 2 ottobre). Ma una mobilitazione di questa natura e misura non risponde tanto a istanze individuali difensive, quanto all'affermazione positiva e conflittuale di istanze collettive: "la mia opinione è che, in Inghilterra, si sia trattato di una protesta contro il passato, contro i diciotto anni di vita sotto il governo conservatore, contro la Thatcher che diceva che la società non esiste, che siamo tutti individui, e soli" (Eric Hobsbawm in "la Repubblica" del 23 settembre). Da questo punto di vista, il significato morale del fenomeno Lady Di è ben sintetizzato dalla psicoterapeuta ed editorialista Susie Orbach: "Il ritrovarsi insieme della gente è ciò che è mancato per molto tempo. Ora ha significato la fine del "non esiste quella cosa chiamata società" ("The Observer", 14 settembre).

Con riferimento alla vastissima presenza giovanile ai funerali "quasi di stato" della principessa del Galles, è stato fatto osservare come masse crescenti, di giovani soprattutto, vengano raccogliendosi negli ultimi tempi attorno alle istituzioni più storiche e tradizionali, quali la Chiesa e la Monarchia (per quanto contestata). Eventi recenti sono stati ricordati in tal senso: i funerali di Versace nel duomo di Milano, la visita del Papa a Parigi, i funerali di Madre Teresa, il congresso eucaristico a Bologna, oltre ai funerali di Lady Diana (Giuseppe De Rita, "Il Corriere della sera", 17 settembre). Ma il fatto non è da interpretare come un bisogno di istituzione e d'ordine. È piuttosto la risposta a un'istanza conflittuale. In questo senso, istituzioni come la Chiesa e finanche la Monarchia sono avvicinate - e legittimate - non come strutture d'ordine, ma come soggetti morali extra-utilitari, in implicita opposizione all'invadenza del mercato e della ragione tecnica e utilitaria. In un mondo in cui il mercato - che pure è condizione insostituibile di pluralismo e di democrazia - controlla e manipola sempre più, esaltandole a fini di consumo e di profitto, le componenti personali e culturali della vita sociale, fenomeni come la mobilitazione per Lady Di sono anche espressione della rivendicazione dell'affermazione autonoma di sé e dell'elaborazione culturale, così come del disinteresse e dell'altruismo.

Passati gli edonistici anni 80 e primi anni 90, con l'indebolirsi delle emozioni del mercato, si vengono manifestando reazioni al mercato delle emozioni: attraverso il passaggio dalle emozioni individuali alle emozioni collettive. In questo senso qualcuno ha osservato ."Non ho guardato alla settimana scorsa come alla crisi della monarchia, ma come all'affermazione del bisogno di stare insieme. La tecnologia non basta. Abbiamo bisogno del contatto fisico, Abbiamo bisogno di provare emozioni" (Fields Wicker-Miurin, direttrice di strategia e finanza del London Stock Exchange, in "The Observer", 14 settembre).

Concludendo, la gente non si commuove semplicemente perché chi è scomparso così tragicamente si adoprava in attività umanitarie, ma perché in quella fase quell'impegno corrispondeva agli orientamenti morali prevalenti. Sono questi e il sentimento di compassione che li esprime che, per così dire, trasformano le emozioni in una forza morale e perciò in capacità di azione.




Paolo Ceri è professore ordinario di sociologia all'Università di Roma "La Sapienza". Tra i suoi ultimi libri ricordiamo : Asimmetrie sociali. Potere, disuguaglianza, scambio (Napoli 1996), Politica e sondaggi (a cura di, Torino 1997 ), La tecnologia per il XXI secolo (con P. Borgna, Torino 1998).





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