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A Berlino e' scontro sull'Olocausto. Parla Walser (pagina 3)

Raffaele Oriani

La contesa ruota attorno ad alcune parole chiave: strumentalizzazione, routine, crimine e vergogna. Ma soprattutto normalità. La normalità dei tedeschi. Paradossalmente è un ebreo a rivendicare la normalità di questi cinquant'anni di vita repubblicana, paradossalmente è un tedesco a denunciarne invece i tratti anormali. E paradossalmente gli abitanti di quella Repubblica sembrano credere più al secondo che al primo. La strada che porta da Bonn a Berlino dovrebbe quindi condurre dalle anormalità della colpa e dell'espiazione alla normalità di una nazione finalmente sicura di sé. E' quello che con altre parole dice il nuovo cancelliere, ed è quello che il nuovo governo comincia a praticare nei vertici europei e nei rapporti con i partners: "rappresentiamo una nazione che non si sente superiore, ma nemmeno inferiore a nessuno". Una nazione normale.

Il passato diventa quindi politica, il ricordo una concreta moneta di scambio. Lo scrittore e l'ebreo parlano di storia , ma il paese intende i loro discorsi per quello che sono: una resa dei conti sull'identità del paese Ha ragione lo scrittore a pretendere che la spina del passato divenga finalmente metafora e si stacchi dal corpo della nazione. Ha ragione Bubis a difendere la memoria come organo centrale della Repubblica e a rivendicare il valore degli anni di Bonn che sarebbe insensato considerare solo come un purgatorio prima del paradiso berlinese. Ha torto, davvero torto, Walser a nominare nel suo discorso per una decina di volte la parola "Auschwitz" e nemmeno una volta la parola "ebreo": con tutta la comprensione per il travaglio di un paese, Auschwitz è stato e rimarrà in primo, secondo e terzo luogo una tragedia degli ebrei; non un problema dei tedeschi. Ha torto, quanto torto Bubis a sospettare i contendenti, anche i più dolorosamente insospettabili, di "antisemitismo latente".

Al momento si è raggiunta una tregua e, davanti alle telecamere della prima televisione tedesca, Walser e Bubis si sono detti d'accordo con le parole del presidente federale secondo cui "dobbiamo ancora inventare il linguaggio che permetta una memoria comune". Ma non è come se nulla fosse successo: resta la tensione tra un paese che vuole uscire dall'ombra del suo passato e il dolore di chi non potrà mai dimenticare. Né i fatti, né il ruolo delle vittime, né quello dei colpevoli.

 


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