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Walser/"E ora lasciateci ricordare"

Martin Walser intervistato da Raffaele Oriani

 

 

Martin Walser è nato nel 1927 a Wasserburg sul lago di Costanza dove tuttora vive. Ha esordito nella narrativa nel 1957 con "Ehen in Philippsburg" ("Matrimoni a Philippsburg", pubblicato in Italia da Feltrinelli) cui hanno fatto seguito decine di romanzi, saggi, testi teatrali, fino all'ultimo affresco storico "Ein springender Brunnen", appena pubblicato da Suhrkamp e già acquistato da Einaudi. E' oggi uno dei più rappresentativi scrittori del suo paese ed ha appena ottenuto il Premio della pace degli editori e librai tedeschi. L'11 ottobre scorso, in occasione del conferimento del premio, ha tenuto un discorso sulla memoria tedesca suscitando un vespaio di polemiche non ancora sopite.

 

Herr Walser, cosa sta succedendo in Germania?

Si ripete l'Historikerstreit degli anni ottanta, con la fondamentale differenza che questa volta a discutere non è l'ambiente accademico ma l'opinione pubblica: non Nolte e Habermas, non solo intellettuali e giornalisti, ma soprattutto tanta gente comune. Alla Frankfurter Allgemeine Zeitung mi dicono di non aver mai ricevuto tanti commenti di lettori su un singolo tema, a me sono arrivate più di mille lettere: il 95 per cento di gente per bene, tutt'altro che estremisti di destra, tutt'altro che nazisti, figli di nazisti, nipoti di nazisti.

E cosa le dicono?

Che era ora. Che il mio è stato un discorso liberatorio.

Li libera dal passato? Dal dovere di ricordare?

No, tutt'altro. Vede, il mio principale contendente polemico, Ignatz Bubis, il presidente delle comunità ebraiche in Germania, mi attribuisce una volontà di rimozione che mi è assolutamente estranea. Le basti pensare che un anno fa Suhrkamp ha raccolto in un volume gran parte dei miei interventi sul tema Germania: il primo è una poesia, del 1963; l'ultimo un saggio, del 1996. In mezzo seicento pagine e trentatre anni di confronto col nostro passato e la nostra identità. Non mi sembra proprio il caso di parlare di rimozione, o, come ha fatto Bubis, di Schlussstrich (colpo di spugna, ndr).

Ma se non cerca oblio, cosa cerca?

Una via d'uscita dal formalismo, dalla retorica, da una routine del ricordo e della colpa che con gli anni si è andata trasformando in una giaculatoria priva di senso e di partecipazione. Ci siamo abituati a considerare la Germania come un delinquente in libertà condizionata, i media si sono ormai specializzati in una forma di ricatto morale per cui ogni problema della nostra società viene riportato a quanto successe tra il 1933 e il 1945.

Io sostengo solamene che oggi il nostro paese può vantare una normale società democratica e può scrollarsi di dosso la litania con cui politici e giornalisti ci ricordano ad ogni anniversario che viviamo sotto tutela e nel segno del nostro passato. E' come se fossimo un'ottima squadra di calcio, che gioca bene e spesso vince, ma ovunque vada è accolta dall'annuncio che a fondare il club furono degli assassini. Alla fine non c'è vittoria che tenga: restiamo una squadra maledetta.

E' per questo che è contrario al monumento alle vittime della Shoah progettato per il centro di Berlino?

Quel monumento sarebbe un incubo, un incubo grande come un campo di calcio, grande come il crimine che deve rappresentare e per questo mai gande abbastanza. Sarebbe un deserto di pietra destinato a diventare bersaglio di atti di vandalismo e a rappresentare così una ferita aperta nel centro del paese. A sentire parlare Peter Eisenman, l'architetto newyorchese che lo ha progettato, sembra una cosa stupenda, un luogo per esperienze autentiche e profonde, ma lui è un'artista: tra la gente comune nessuno lo vivrebbe come lui si immagina. Molto meglio allora istituire una fondazione, ad esempio il centro di documentazione cui sta pensando Steven Spielberg: un luogo che non intima nulla, ma offre materiale per informarsi, capire, approfondire la storia dell'Olocausto.

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