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Attualita'

Lo sterminio dei tedeschi inutili

Paolo Marcesini

 

 

La forza della vita che dà forza al romanzo. Questo è il primo pensiero che viene alla mente dopo aver letto Il piccolo Adolf non aveva le ciglia (in uscita da Rizzoli), il primo romanzo firmato da Helga Schneider, la scrittrice tedesca di origini polacca (da molti anni vive a Bologna) che con Il rogo di Berlino, il suo esordio narrativo (venne scoperta da Roberto Calasso e il libro, pubblicato da Adelphi, fu un autentico caso editoriale) ci aveva raccontato la storia della sua infanzia trascorsa a Berlino negli anni bui nazismo.

E’ la storia di una donna tedesca, Grete, che decide di ribellarsi al regime nazista. Era bambina quando Hitler iniziava la sua ascesa al potere, era la giovane moglie di un potente gerarca nazista quando il suo paese entrò nel tunnel del terrore e della dittatura. Grete decide allora di lasciare il marito, di lasciare il nazismo. Ma nel codice delle SS non è previsto che una moglie lasci il marito, semmai viene tollerato il contrario. Allora viene rinchiusa in un ospedale psichiatrico, resa innocua dagli psicofarmaci, e lì conosce la violenza della repressione, vede con i suoi occhi migliaia di tedeschi ammazzati, annientati. Malgrado tutto avrà la la forza (e la fortuna) di reagire, di passare dalla parte delle vittime. Perderà un figlio, rischierà di morire torturata dalla Gestapo, ma sopravviverà. La incontriamo quando, ormai ottantenne sfoglia l’album delle fotografie, la testimonianza di un passato che non può e non deve essere dimenticato.

Anche Helga Schneider ha vissuto il Terzo Reich sulla sua pelle quando era ancora una bambina. Sua madre la mise al mondo nel 1937, tre anni dopo sarebbe arrivato suo fratello. Poi nel 1941 entrambi vennero abbandonati. "Mia madre era nazista, una attivista iscritta al partito, una fanatica della prima ora. Era una SS, aveva il compito di addestrare altre donne. Ha messo al mondo due figli solo perché così voleva il Fuhrer, eravamo bracce ariane destinate al servizio del partito. Mio padre combatteva al fronte, e anche lui venne abbandonato. Si risposò con una ragazza molto più giovane che non riuscì mai a volerci bene. Avevamo una matrigna, non avevamo mai avuto una madre. C’era la guerra, le bombe, la fame".

Sua madre, quella vera, l’avrebbe rivista solo trent’anni dopo, a Vienna. Mentre ci racconta questo capitolo della sua vita non possiamo fare a meno di immaginarla, mentre parte da Bologna, con il suo primo figlio tenuto stretto per mano: "Non sapevo che fine avesse fatto quella donna, non sapevo più nulla di lei. Il nostro incontro durò solo mezz’ora. Mi portò in una stanza dove conservava una uniforme, la divisa nazista che indossava il giorno in cui venne arrestata ad Auschwitz. La guardava con orgoglio. Prima di parlarle avevo trovato la forza di rimuovere dalla memoria il ricordo dei primi anni della mia vita. Ascoltare di nuovo quelle parole fu come prendere uno schiaffo in faccia".

Sua madre era stata condannata per crimini minori dal tribunale di Norimberga. "Fece solo sei anni di prigione, poi tradì i suoi compagni e venne rimessa in libertà. Mi disse: il nazismo mi piaceva, con la morte di Hitler è finita anche la mia vita. Non chiese nulla di me, della mia famiglia, dei miei figli. Scappai via. Mentre scendevo le scale sentivo la sua voce: perché hai fatto quella faccia, perché adesso te ne vai? Il treno che mi riportava a Bologna sembrava non arrivare mai". Nel romanzo, anche il padre di Grete all’inizio crede ciecamente nel nazismo e nelle parole di Hitler. Poi capisce il suo errore e il dolore sarà immenso, come la tragedia che ogni giorno si consuma sotto i suoi occhi.

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