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A Berlino e' scontro sull'Olocausto. Parla Walser (pagina 2)

Raffaele Oriani

 

Con Grass, Walser è l'ultimo grande scrittore di lingua tedesca. Coscienza nazionale si diceva una volta: quarant'anni di onorato servizio narrativo, l'opera omnia rilegata in lino per il settantesimo compleanno, una biografia intellettuale intrecciata a filo doppio con la storia politica del paese. Comunista del Dkp ancora negli anni settanta, Walser con gli anni è andato prendendo posizioni via via sempre più temperate, fino a profilarsi oggi come una voce di "anticonformismo popolare" orgogliosamente accordata sulla tonalità della gente comune.

L'11 ottobre riceve il maggior riconoscimento letterario del paese: il premio della pace dei librai e degli editori tedeschi. Sono occasioni importanti in Germania: lo scrittore riceve il premio ma deve sdebitarsi con un discorso che si ricordi per l'arguzia retorica o il piglio polemico. Stampa e televisione attendono quindi l grande discorso del grande scrittore e Walser non li delude, pronunciando un'allocuzione che con l'abituale civetteria intitola "Esperienze durante la composizione di un sermone domenicale". Che lascia decisamente il segno: da due mesi i maggiori quotidiani del paese ne parlano ospitando difese appassionate, attacchi calibrati, repliche, controdeduzioni, reportage, riassunti, protocolli di pace destinati ad essere presto stracciati. In Germania c'è un solo argomento capace di costringere il circo dei media a proporre più di due mesi di variazioni sullo stesso numero: ovviamente il passato.

Da una parte quindi Walser. Che la prende alla lontana: con quello che si vede in giro - sostiene - a questo mondo bisogna sapersi voltare dall'altra parte. Signora mia, aggiungerebbe Arbasino. E invece Walser aggiunge che accanto alla banalità del male c'è una banalità del bene che indica sempre l'orrore per ricattare le coscienze: "Invece di essere grato per la costante presentazione della nostra vergogna, io allora inizio a girarmi dall'altra parte". Aveva iniziato parlando di Dio e del mondo, ma ormai si parla di Auschwitz, che secondo Walser rischia di diventare "routine minacciosa, strumento di intimidazione perenne, una clava morale o anche solo la pratica di un dovere". Secondo Walser, chi paventa continuamente il pericolo di una nuova Auschwitz - e qui è esplicito il riferimento a Juergen Habermas - "vuole farci del male, perché pensa che ce lo siamo meritati. Forse vuole anche ferire se stesso. Ma anche noi. Tutti. Con una limitazione: tutti i tedeschi".

Ragione o torto che abbia - e ha molte ragioni, ma un grave torto - con questo discorso Walser ha sottratto Auschwitz alla sfera del consenso indiscusso, al sancta sanctorum dei valori repubblicani, per giocarne la forza simbolica al tavolo delle opinioni. Ignatz Bubis, presidente delle comunità israelitiche tedesche, sanguigno francofortese che gode di stima pressoché universale per la sua proverbiale moderazione, reagisce allora con stupore, rabbia, dolore; aspetta il 9 novembre, e nell'anniversario della famigerata Reichskristallnacht, di fronte al presidente federale Roman Herzog, tiene a sua volta il suo discorso: "La vergogna è stata compiuta, e non sarà l'oblio a cancellarla dalla storia tedesca: chi nella cura della memoria vede una strumentalizzazione di Auschwitz per scopi attuali si comporta come un incendiario spirituale". Per Bubis, Walser propone in sostanza una versione tedesca del nostro colpo di spugna, e con la sua elegante orazione punta ad una morale di laconica semplicità: non ne posso più di sentir parlare di Auschwitz.

Ma forse più del discorso di Walser a ferire Bubis sono le coincidenze storiche: si prende congedo dalla Repubblica di Bonn, ci si trasferisce a Berlino, si licenzia il cancelliere che fece della memoria la sua bussola politica, si elegge un cinquantenne che reclama per la Germania un ruolo di pari dignità tra le nazioni. Ci si avvicina alla fine del millennio invocando una mitica normalità: "Io non so cosa Walser e tanti altri intendano con questo termine. Per me ad esempio normalità è il fatto che degli ebrei credano di poter di nuovo vivere in Germania". E poi l'avvertimento, il grido d'allarme a futura memoria: "Noi ebrei non possiamo restare gli unici a stigmatizzare i crimini del periodo nazista".

La querelle prosegue: espresse pubblicamente le rispettive posizioni, i due contendenti attendono rinforzi per tornare all'attacco. E forse per la prima volta non scatta la mobilitazione generale in difesa del ricordo del passato: Bubis si è esposto come ebreo, come tedesco, come figlio e fratello di vittime dell'olocausto, ma a sostenerlo trova quasi solamente la "Zeit". Perché? La "Frankfurter Allgemeine Zeitung", principale teatro mediatico della contesa, riceve migliaia di lettere, quasi tutte solidali con Walser; Walser stesso pubblicherà il prossimo anno una raccolta delle lettere che lo hanno raggiunto nel suo eremo sul Bodensee; Michael Naumann, nuovo ministro della Cultura el governo Schroeder, è dalla parte dello scrittore; Karl von Dohnannyi, ex borgomastro di Amburgo figlio di un eroe della Resistenza a Hitler, scrive una serie di splendidi articoli per dare ragione a Walser senza abbandonare Bubis alla solitudine della sua posizione; ma la sensibilissima coscienza della sinistra tedesca questa volta non reagisce: nemmeno la "Taz", quotidiano di provata fede alternativa, commenta senza curiosità l'exploit dello scrittore. Dalla parte di Bubis quasi solo ebrei: Marcel Reich-Ranicki, Saul Friedlaender. Perché?

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