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Pochi lettori, qualche perche' (pagina 2) Giulio Ferroni
Nelle nostre società, in ciò che esse sono divenute, nel rapporto
che in esse si dà tra le generazioni, è venuta meno proprio
questa spinta, questo "tendere a", questa "speranza" che sempre è stata
legata all'autentica lettura: l'adolescenza, anche quella più povera e
disgraziata, è immessa subito nel circolo di un consumo culturale tutto
ribaltato sul presente, tutto rivolto ad afferrare velocemente ciò che
è dato (quali siano i volti che questo "dato" viene ad assumere).
Così il libro, il modello "lento" di vita e le proiezioni conoscitive e
critiche della lettura vengono respinti lontano, confinati in ambiti parziali,
affidati ad esperienze singolari ed atipiche; e gli eredi della grande
tradizione letteraria occidentale ne sentono minacciata la persistenza, non
certo come oggetto, ma come modello di esperienza (e basta fare due nomi pure
tanto diversi, come quelli di Harold Bloom e di George Steiner).

Ma, anche se si può credere che tale arretramento del libro, a livello
mondiale, sia assolutamente inevitabile, resta il fatto paradossale che le
democrazie occidentali, per come sono costruite e per i modelli "forti" che
hanno elaborato, continuano ad avere bisogno essenziale del libro e della
lettura proprio per la loro stessa tenuta, per la persistenza e il rilancio
della democrazia, per la stessa difesa da tante possibili derive catastrofiche.
Allora è chiaro che ancora una volta occorre ricominciare da una scuola
che non ha saputo far valere un rapporto vivo con i libri, che non è
capace di farne percepire il valore, non sa farli amare, non sa scommettere
sulle "verità" che da essi possono scaturire. Ma la colpa non è
certo dei "classici", come pretende qualcuno; né la salvezza può
essere affidata agli autori contemporanei, spesso più ostici e difficili
degli stessi classici, o peggio alla rincorsa delle ultime novità
dell'editoria.
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