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"Salvate il soldato Ryan" (pagina 2)

Paolo Mereghetti

 

E' curioso come, a Hollywood, sia piuttosto il western il genere cinematografico che ha saputo smitizzare e mettere in discussione il proprio bagaglio ideologico e mitopoietico e non il film di guerra, quasi che il trauma del Vietnam con la sua sconfitta militare avesse congelato qualsiasi ripensamento critico sul periodo della seconda guerra mondiale (perché non va dimenticato che i grandi film sul Vietnam, da Apocalypse Now a Full Metal Jacket, passando per il sopravvalutato Platoon, sono più riflessioni sulla follia o la violenza della Guerra, come entità sovrastorica, che non vere e proprie messe in discussione di quello specifico periodo storico).

Ecco che allora, con l'eccezione anomala di Fuller e Il grande uno rosso (che però era un progetto degli anni Cinquanta realizzato "solo" nel 1980 e con una economia di mezzi che lo resero quasi subito un "film del passato"), il film di Spielberg davvero si presenta coma una grande novità. Vuole raccontare la guerra così come era stata veramente, senza romanticismi o falsificazioni, prendendo come spunto una delle mille "follie" del conflitto: rischiare la vita di otto uomini per salvarne uno solo (il soldato Ryan del titolo) e non per ragioni umanitarie ma sostanzialmente propagandistiche.

L'inizio del film, dopo una cornice al cimitero alleato in Normandia, rivela subito le intenzioni del regista. Lo sbarco nella spiaggia di Omaha è sicuramente la parte migliore del film perché riesce a comunicare non tanto l'orrore della guerra ma piuttosto la sua sorprendente crudeltà. La grande idea di Spielberg è quella di far entrare in gioco (e in scena) la morte prima ancora di chi la procura, annullando quell'effetto di causa-effetto che da sempre è alla base delle azioni umane. I primi proiettili mortali, i primi elmetti forati, le prime esplosioni di sangue sorprendono lo spettatore così come dovevano aver sorpreso gli stessi soldati alleati quel 6 giugno 1944.

Lo spettatore non ha ancora visto chi spara che già ha dovuto fare i conti con la morte. La successione di uccisioni e ferimenti è più rapida della nostra capacità di riconoscimento: non facciamo in tempo a memorizzare il volto o il corpo di un soldato e quello è già stato ucciso, senza lasciargli nemmeno il tempo di sbarcare dal mezzo anfibio o liberarsi dal troppo peso che lo trascina sott'acqua. La guerra non fa sconti a nessuno.

E che a Spielberg interessi farci "conoscere" la crudeltà della guerra piuttosto che semplicemente descriverla lo si capisce da due fondamentali rallentamenti dell'azione che sottolineano i momenti di smarrimento del capitano Miller (interpretato da Tom Hanks). I momenti di maggior intensità in quei 24 già celebri minuti iniziali di combattimento sulle coste di Normandia sono quelli in cui il realismo della messa in scena si ferma. Raccontando l'inferno di Omaha, Spielberg prima aggredisce lo spettatore sorprendendolo con la violenza della morte, poi sente il bisogno di "fermare" l'azione due volte, di abbandonare l'oggettività della messa in scena a favore della soggettività del suo protagonista, talmente frastornato da quello che gli sta succedendo intorno da perdere, nel proprio intimo, la percezione della realtà: a lui tutto appare rallentato e annullato, e lo spettatore è obbligato a estraniarsi un momento dall'incalzare del combattimento per riflettere su quello che sta accadendo, su quello che sta vedendo.

Ma le preoccupazioni "didattiche" di Spielberg si fermano qui, a sottolineare l'eroismo dei soldati americani sbattuti in quell'inferno, non a riflettere sulla guerra e sul suo senso: a qualcuno potrà venire il dubbio che non è molto sensato mettere in gioco otto vite umane per salvarne una sola, ma poi di fronte al nemico ogni critica svanisce e si ridà voce alle armi. Perché dopo aver fatto vedere, nella prima mezz'ora del film, che la guerra non è certo un pranzo di gala, Spielberg sembra preoccupato soprattutto di costruire un monumento a chi quella guerra ha combattuto.

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