Questo articolo è la seconda parte di
un saggio basato su una lecture tenuta a Berlino presso
il Berlin Institute of Advanced Study, Wissenschaftskolleg,
il 26 marzo 2006 e apparirà nel libro in uscita
di Geert Lovink dal titolo “Zero Comments”
(Routledge).
Leggi la prima parte:
Veloci, leggeri e personali. I blog prendono il volo
Leggi la seconda parte:
Alla
scoperta della ragion cinica
Leggi la terza parte:
Cosa c’è di nichilista
nella blogosfera?
Leggi la quarta parte:
Annegare in un
arcipelago di link
L’intero saggio è stato pubblicato per
la prima volta in tedesco su Lettre Internationale
73. La versione inglese è stata fornita da
Eurozine
Un weblog è la “voce di una persona”
(Dave Winer). È un’estensione digitale
di tradizioni orali più che una nuova forma
di scrittura. Attraverso i blog, le notizie vengono
trasformate da lettura in conversazione. I blog echeggiano
voci e pettegolezzi, conversazioni in caffè
e bar, nelle piazze e nei corridoi. Registrano “gli
eventi del giorno” (Jay Rosen). La “registrabilità”
delle situazioni odierne è tale che non siamo
più disturbati dal fatto che i computer “leggano”
tutte le nostre mosse ed espressioni (suono, immagine,
testo) e le “scrivano” in stringhe di
zero e uno. In questo senso, i blog rientrano nella
tendenza più ampia per cui tutti i nostri movimenti
e le nostre attività vengono monitorate e raccolte.
Nel caso dei blog, ciò avviene non grazie a
un’autorità invisibile e astratta ma
ai soggetti stessi che registrano le loro vite quotidiane.
La pubblicità dei blog non può tener
testa all’isteria da dot-com della fine degli
anni ’90. Il paesaggio economico e politico
è semplicemente troppo diverso. Quello che
mi interessava in questo caso era l’osservazione,
che si sente spesso, secondo cui i blog sono cinici
e nichilisti. Invece di ignorare questa accusa, ho
fatto una prova e ho inserito entrambe le parole chiave
nel sistema per testare se erano virtù cablate,
consolidate all’interno della Blog Nation. Invece
di rappresentare i blogger come “un esercito
di David”, come suggerisce il titolo del libro
del blogger Glenn Reynolds (An Army of Davids,
How Markets and Technology Empower Ordinary People
to Beat Big Media, Big Government, and Other Goliaths,
Nashville), potrebbe essere meglio studiare la tecno-mentalità
degli utenti e non presumere che i blogger siano dei
perdenti in missione per sconfiggere Golia.
Storicamente è sensato considerare il “cinismo
di internet” come una risposta alla pazzia del
millennio. Nel gennaio 2001, la rivista dot-com Clickz
scrisse: “Tra gli investitori, i consumatori
e i media, c’è un senso pervasivo che
tutte le promesse di Internet siano un’enorme,
sfacciata menzogna - e che oggi stiamo pagando per
i peccati dell’eccessiva esuberanza di ieri”.
In My First Recession (2003), mappai i postumi
del post-dot-com. In questa luce, il cinismo non è
altro che la maceria discorsiva di un sistema di credenze
crollato di punto in bianco dopo il rush
del mercato, gli anni della globalizzazione retrospettivamente
ottimistico-innocente di Clinton (1993-2000), incarnati
così bene nell’Impero di Hardt
e Negri.
Sarebbe ridicolo denunciare i blogger collettivamente
in quanto cinici. Il cinismo, in questo contesto,
non è un tratto caratteriale ma una condizione
tecno-sociale. La questione non è che i blogger
sono perlopiù cinici di natura, o esibizionisti
volgari incapaci di understatement. È
importante notare lo Zeitgeist in cui il
blogging è emerso come pratica di massa. Il
cinismo della rete è uno spin-off culturale
che proviene dal software per bloggare, legato a un’era
specifica e risultato da procedure come quelle del
logging, del link, dell’edit,
del create, del browse, del read,
del submit, del tag e del reply.
Alcuni giudicherebbero il semplice uso del termine
cinismo un affondo contro i blog. Che lo sia. Di nuovo,
non stiamo parlando qui di un atteggiamento, per non
dire di uno stile di vita condiviso. Il cinismo della
rete non crede più nella cybercultura come
provider di identità con relative allucinazioni
imprenditoriali. Esso è costituito dall’illuminismo
freddo come condizione post-politica e dalla confessione
descritta da Michel Foucault. Alle persone viene insegnato
che la loro liberazione richiede loro di “dire
la verità”, di confessarla a qualcuno
(a un prete, uno psicoanalista o a un weblog), e che
, in qualche modo, questo dire la verità li
libererà.
Nel bloggare c’è una ricerca della verità.
Ma è una verità con un punto di domanda.
La verità è diventata un progetto amatoriale,
non un valore assoluto, sancito da autorità
superiori. Al posto di una definizione comune, potremmo
dire che il cinismo è il modo sgradevole di
rappresentare la verità. Internet non è
una religione o una missione di per sé. Per
alcuni si trasforma in una dipendenza, che tuttavia
si può curare come qualsiasi altro problema
medico. La situazione post-dotcom/post-11settembre
confina con un “conservatorismo appassionato”
ma, alla fine, respinge i principi piccolo-borghesi
delle dot-com e i loro doppi standard di imbrogliare
e nascondere, manipolare i libri e poi essere ripagati
con corpulenti assegni. La domanda perciò è:
quanta verità può tollerare un medium?
Conoscere è doloroso e i propugnatori della
“società della conoscenza” non
ne hanno ancora tenuto conto.
Il cinismo della rete è franco, prima e soprattutto,
riguardo se stesso. L’applicazione dei blog
è un prodotto online con una chiara scadenza
di utilizzo.
Spokker Jones: “Tra quarant’anni quando
Internet crollerà in una gigantesca implosione
di stupidità voglio poter dire: io c’ero”.
Si dice che il cinismo di internet abbia dato origine
a siti come Netslaves.com che è dedicato alle
“horror stories della rete”.
È un valida bacheca per coloro che sono “bruciati
dall’incompetenza, dalla pianificazione idiota
e dal management isterico delle aziende di new-media”.
Esibizionismo uguale conferimento di poteri. Dire
a voce alta cosa si pensa o si prova, sulla scia di
De Sade, non è solo un’opzione –
nel senso liberale di “scelta” –
ma un obbligo, un impulso immediato a rispondere per
esserci, assieme a tutti gli altri.
Nel contesto di internet, non è il male, come
ha suggerito Rüdiger Safranski, ma invece la
trivialità ad essere il “dramma della
libertà”. Come afferma Baudrillard: “Tutti
i nostri valori vengono simulati. Cosa è la
libertà? Abbiamo una scelta tra comprare una
macchina o acquistarne un’altra?”. Seguendo
Baudrillard, potremmo dire che i blog sono un dono
per l’umanità di cui nessuno ha bisogno.
È questo il vero shock. Qualcuno ha ordinato
lo sviluppo dei blog? Non c’è alcuna
possibilità di ignorare semplicemente i blog
e vivere lo stile di vita confortevole di un “intellettuale
pubblico” del ventesimo secolo. Come Michel
Houellebecq, i blogger sono intrappolati dalle loro
stesse contraddizioni interne nella “Terra della
Non Scelta”. Il London Times ha notato che Houllebecq
“scrive dall’interno dell’alienazione.
I suoi eroi maschili lividi, dimenticati dai loro
genitori, ce la fanno privandosi delle interazioni
d’amore; essi proiettano la loro freddezza e
la loro solitudine sul mondo”. I blog sono campi
di proiezione perfetti per un’impresa di questo
genere.
Il teorico italiano Paolo Virno offre indizi su come
utilizzare il termine cinismo in mondo non-derogativo.
Virno ritiene che il cinismo sia connesso all’instabilità
cronica delle forme di vita e dei giochi linguistici.
Alla base del cinismo contemporaneo, Virno nota che
uomini e donne inizialmente fanno esperienza delle
regole, ben più spesso dei “fatti”
e ben prima di sperimentare eventi concreti; “fare
esperienza delle regole direttamente significa, tuttavia,
anche riconoscere la loro convenzionalità e
la loro infondatezza. Così, non si è
più immersi in un ‘gioco’ predefinito
partecipandovi con vera fedeltà. Al contrario,
ci si coglie in ‘giochi’ individuali che
sono destituiti di tutta la serietà e l’ovvietà,
essendo divenuti niente più che un luogo per
l’immediata affermazione del sé –
un’auto-affermazione che è tanto più
brutale e arrogante, in breve, cinica, quanto più
è basata, senza illusioni ma con perfetta fedeltà
momentanea, su quelle stesse regole che caratterizzano
la convenzionalità e la mutevolezza.”
Come si legano ragione cinica e criticismo? La cultura
cinica dei media è una pratica critica? Finora
non si è dimostrato utile interpretare i blog
come una nuova forma di criticismo letterario. Un’impresa
di questo genere è destinata a fallire. La
“crisi del criticismo” è stata
annunciata più volte e la cultura dei blog
ha semplicemente ignorato questa strada senza uscita.
Non c’è alcun bisogno di un clone “new-media”
di Terry Eagleton. Viviamo ben dopo la caduta della
teoria. Il criticismo è diventato un’attività
conservativa e affermativa, in cui la critica si alterna
tra le perdite di valore celebrando, allo stesso tempo,
lo spettacolo del mercato. Sarebbe interessante indagare
sul perché il criticismo non sia divenuto popolare
e si è allineato con pratiche dei nuovi media
come i blog, mentre i cultural studies hanno
reso popolare ogni cosa tranne che la teoria. Non
incolpiamo l’“Altro che blogga”
per la bancarotta morale della critica postmoderna.
Al posto della profondità concettuale abbiamo
associazioni ampie, un’ermeneutica popolare
degli eventi-notizia. Le osservazioni computabili
di milioni di individui possono essere ricercabili
ed essere visualizzate, per esempio a gruppi. Se queste
mappe ci offrono una qualsiasi conoscenza o meno è
un’altra questione. È facile giudicare
regressiva la crescita dei commenti a paragone in
confronto alla chiara autorità della critica.
La ristrettezza di vedute e il provincialismo hanno
preteso il loro tributo. Il panico e l’ossessione
riguardo allo status professionale della critica sono
stati tali che il vuoto creato è stato ora
riempito dai blogger amatoriali. Una cosa è
sicura: i blog non spengono il pensiero.
Gli enciclopedisti amatoriali di Wikipedia descrivono
i cinici come “coloro che sono inclini a non
credere nella sincerità umana, nella virtù
o nell’altruismo: individui che sostengono che
il comportamento umano sia motivato solo da interessi
privati. Un cinico moderno in genere ha un atteggiamento
profondamente sprezzante nei confronti delle norme
sociali, in particolare di quelle che assolvono uno
scopo più rituale che pratico, e tenderà
a congedare come sciocchezze irrilevanti o obsolete
una parte sostanziale delle convinzioni popolari,
della moralità convenzionale e del buonsenso
comune.” In un ambiente di rete, una definizione
di questo genere diventa problematica perché
ritrae l’utente come un soggetto isolato, opposto
a dei gruppi o alla società nel suo insieme.
Il cinismo della rete non è un via d’accesso
alle droghe o a niente di disgustoso. Parlare del
“male” come categoria astratta è
irrilevante in questo contesto. Non esiste alcun pericolo
immediato. Va tutto bene. L’idea non è
creare una situazione dialettica. C’è
solo l’impressione di una stagnazione nel mezzo
del cambiamento costante. Lo definiremmo “il
romanticismo a occhi aperti”. Secondo Peter
Sloterdijk, il cinismo è la “falsa coscienza
illuminata”. Un cinico, così dice Sloterdijk,
è qualcuno che fa parte di un’istituzione
o di un gruppo la cui esistenza o i cui valori egli
stesso non può più considerare assoluti,
necessari o incondizionati, e che è infelice
a causa di questo illuminismo, perché lui o
lei si attengono a principi in cui non credono.
La sola conoscenza lasciata a un cinico è
la fiducia nella ragione la quale, tuttavia, non può
offrirgli (o offrirle) una solida base per agire,
ma un’altra ragione per essere infelice. Seguendo
Sloterdijk, il cinismo è un problema comune.
La questione se sia universale o se si limiti alle
società occidentali è troppo vasta per
essere discussa in questa sede, ma indubbiamente la
osserviamo su scala globale nei settori knowledge-intensive.
Operiamo nel mondo della post-decostruzione in cui
i blog offrono un flusso senza fine di confessioni,
un cosmo di micro-opinioni che tentano di interpretare
gli eventi aldilà delle ben note categorie
del ventesimo secolo. L’impulso nichilista emerge
come risposta ai crescenti livelli di complessità
all’interno di tematiche interconnesse. C’è
poco da dire se tutti gli eventi possono essere spiegati
attraverso il post-colonialismo, l’analisi di
classe e le prospettive di genere. Ma i blog nascono
contro questo tipo di analisi politica attraverso
cui non si può più dire molto.
I blog esprimono paura, insicurezza e disillusioni
personali, ansie in cerca di complici. Raramente vi
troviamo passione (fatta eccezione per l’atto
di bloggare in sé). Spesso i blog svelano dubbio
e insicurezza su cosa si prova, si pensa, si crede
e così via. Confrontano attentamente le riviste
e passano in rassegna insegne stradali, nightclub
e magliette. Questa incertezza stilizzata circonda
la tesi generale secondo cui i blog debbono essere
biografici e, allo stesso tempo, parlare del mondo
esterno. La loro portata emotiva è molto più
ampia degli altri media per via della loro atmosfera
informale. È essenziale mescolare pubblico
e privato. Quello con cui i blog giocano è
il registro emozionale, che varia dall’odio
alla noia, dall’impegno appassionato, all’indignazione
sessuale e poi, di nuovo, alla noia quotidiana.
Bloggare non è né un progetto né
una proposta ma una condizione la cui esistenza deve
essere riconosciuta. “Noi blogghiamo”
come dicono Kline e Bernstein. È un a priori
di oggi. Il teorico culturale australiano Justin
Clemens spiega: “Il nichilismo non è
semplicemente un’altra epoca in mezzo al succedersi
delle altre: è la forma finalmente compiuta
di un disastro che è accaduto molto tempo fa”.
Per tradurre tutto questo nei termini dei nuovi media:
i blog testimoniano e documentano il potere decrescente
dei media tradizionali, ma non hanno consapevolmente
sostituito la loro ideologia con una alternativa.
Gli utenti sono stanchi di una comunicazione dall’alto
verso il basso – tuttavia ancora non hanno un’altra
direzione verso cui tendere. “Non esiste un
altro mondo” potrebbe essere letto come una
risposta allo slogan anti-globalizzazione “Un
altro mondo è possibile.”
Presi dal meccanismo quotidiano dei blog, c’è
la sensazione che la Rete sia l’alternativa.
Non è corretto giudicare i blog esclusivamente
sulla base del loro contenuto. La teoria dei media
non ha mai utilizzato questo modo e, anche in questo
caso, dovrebbe guardarsi bene dal farlo. Bloggare
è un’avventura nichilista proprio perché
la struttura della proprietà dei mass media
è messa in dubbio e poi attaccata. Bloggare
è una strategia del dissanguamento. Implosione
non è la parola giusta. L’implosione
implica una tragedia e uno spettacolo che qui non
sono presenti. Bloggare è l’opposto dello
spettacolo. È piatto (eppure significativo).
Il blogging non è un clone digitale delle “lettere
al direttore”. Anziché lamentarsi e litigare,
il blogger si mette nella posizione perversamente
piacevole dell’osservatore dei media.
Il fare commenti sulla cultura tradizionale, sui
suoi valori e i suoi prodotti, dovrebbe essere letto
come un aperto calo di attenzione. Gli occhi che un
tempo guardavano pazientemente a tutti gli articoli
e gli annunci sono entrati in sciopero. Secondo la
filosofia utopistica dei blog, i mass media sono rovinati.
Il loro ruolo verrà rilevato dai “media
partecipativi”. La diagnosi terminale è
stata fatta e dichiara: le organizzazioni chiuse,
dall’alto verso il basso, non funzionano più,
il sapere non può essere “gestito”,
il lavoro di oggi è cooperativo e in rete.
Comunque, nonostante i continui segnali di avvertimento,
il sistema continua con successo a (dis)funzionare.
È davvero dall’alto verso il basso? Da
dove viene la certezza hegeliana che il paradigma
dei vecchi media verrà rovesciato? Esistono
poche prove concrete di ciò. Ed è questo
stato corrente dei fatti a causare il nichilismo,
e non le rivoluzioni.
Come afferma giustamente Justin Clemens: “il
nichilismo spesso passa senza essere sottolineato,
non perché non sia più un tema per la
filosofia e la teoria contemporanee, ma – al
contrario – perché è proprio così
poco circoscrivibile e dominante.” Il termine
è uscito quasi completamente dal discorso politico
dell’establishment. La ragione potrebbe essere
la “banalizzazione del nichilismo” (Karen
Carr). O secondo una riformulazione: l’assenza
di arte alta che possa essere etichettata come tale.
Le cose potrebbero essere cambiate con l’emergere
di scrittori come Michel Houellebecq. Andre Gluckmann
ha spiegato le rivolte degli immigrati avvenute nei
sobborghi francesi nel 2005 come una “risposta
al nichilismo francese”. Quello che i giovani
in rivolta stavano attuando era un’“imitazione
della negazione.” Il “problema del nichilismo”,
come nota Clemens, è la natura complessa, sottile
e auto-riflessiva del termine. Storicizzare il concetto
è una via d’uscita, sebbene la lascerò
agli storici. Un’altra via potrebbe essere occupare
il termine e ricaricarlo di energie sorprendenti:
il nichilismo creativo.
Traduzione dall’inglese di Martina Toti
L'intero saggio è stato pubblicato per
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