323 - 21.06.07


Cerca nel sito
Cerca WWW
Alla scoperta
della ragion cinica
Geert Lovink

Questo articolo è la seconda parte di un saggio basato su una lecture tenuta a Berlino presso il Berlin Institute of Advanced Study, Wissenschaftskolleg, il 26 marzo 2006 e apparirà nel libro in uscita di Geert Lovink dal titolo “Zero Comments” (Routledge).

Leggi la prima parte:
Veloci, leggeri e personali. I blog prendono il volo

Leggi la seconda parte:
Alla scoperta della ragion cinica

Leggi la terza parte:
Cosa c’è di nichilista nella blogosfera?

Leggi la quarta parte:
Annegare in un arcipelago di link


L’intero saggio è stato pubblicato per la prima volta in tedesco su Lettre Internationale 73. La versione inglese è stata fornita da Eurozine

Un weblog è la “voce di una persona” (Dave Winer). È un’estensione digitale di tradizioni orali più che una nuova forma di scrittura. Attraverso i blog, le notizie vengono trasformate da lettura in conversazione. I blog echeggiano voci e pettegolezzi, conversazioni in caffè e bar, nelle piazze e nei corridoi. Registrano “gli eventi del giorno” (Jay Rosen). La “registrabilità” delle situazioni odierne è tale che non siamo più disturbati dal fatto che i computer “leggano” tutte le nostre mosse ed espressioni (suono, immagine, testo) e le “scrivano” in stringhe di zero e uno. In questo senso, i blog rientrano nella tendenza più ampia per cui tutti i nostri movimenti e le nostre attività vengono monitorate e raccolte. Nel caso dei blog, ciò avviene non grazie a un’autorità invisibile e astratta ma ai soggetti stessi che registrano le loro vite quotidiane.

La pubblicità dei blog non può tener testa all’isteria da dot-com della fine degli anni ’90. Il paesaggio economico e politico è semplicemente troppo diverso. Quello che mi interessava in questo caso era l’osservazione, che si sente spesso, secondo cui i blog sono cinici e nichilisti. Invece di ignorare questa accusa, ho fatto una prova e ho inserito entrambe le parole chiave nel sistema per testare se erano virtù cablate, consolidate all’interno della Blog Nation. Invece di rappresentare i blogger come “un esercito di David”, come suggerisce il titolo del libro del blogger Glenn Reynolds (An Army of Davids, How Markets and Technology Empower Ordinary People to Beat Big Media, Big Government, and Other Goliaths, Nashville), potrebbe essere meglio studiare la tecno-mentalità degli utenti e non presumere che i blogger siano dei perdenti in missione per sconfiggere Golia.

Storicamente è sensato considerare il “cinismo di internet” come una risposta alla pazzia del millennio. Nel gennaio 2001, la rivista dot-com Clickz scrisse: “Tra gli investitori, i consumatori e i media, c’è un senso pervasivo che tutte le promesse di Internet siano un’enorme, sfacciata menzogna - e che oggi stiamo pagando per i peccati dell’eccessiva esuberanza di ieri”. In My First Recession (2003), mappai i postumi del post-dot-com. In questa luce, il cinismo non è altro che la maceria discorsiva di un sistema di credenze crollato di punto in bianco dopo il rush del mercato, gli anni della globalizzazione retrospettivamente ottimistico-innocente di Clinton (1993-2000), incarnati così bene nell’Impero di Hardt e Negri.

Sarebbe ridicolo denunciare i blogger collettivamente in quanto cinici. Il cinismo, in questo contesto, non è un tratto caratteriale ma una condizione tecno-sociale. La questione non è che i blogger sono perlopiù cinici di natura, o esibizionisti volgari incapaci di understatement. È importante notare lo Zeitgeist in cui il blogging è emerso come pratica di massa. Il cinismo della rete è uno spin-off culturale che proviene dal software per bloggare, legato a un’era specifica e risultato da procedure come quelle del logging, del link, dell’edit, del create, del browse, del read, del submit, del tag e del reply. Alcuni giudicherebbero il semplice uso del termine cinismo un affondo contro i blog. Che lo sia. Di nuovo, non stiamo parlando qui di un atteggiamento, per non dire di uno stile di vita condiviso. Il cinismo della rete non crede più nella cybercultura come provider di identità con relative allucinazioni imprenditoriali. Esso è costituito dall’illuminismo freddo come condizione post-politica e dalla confessione descritta da Michel Foucault. Alle persone viene insegnato che la loro liberazione richiede loro di “dire la verità”, di confessarla a qualcuno (a un prete, uno psicoanalista o a un weblog), e che , in qualche modo, questo dire la verità li libererà.

Nel bloggare c’è una ricerca della verità. Ma è una verità con un punto di domanda. La verità è diventata un progetto amatoriale, non un valore assoluto, sancito da autorità superiori. Al posto di una definizione comune, potremmo dire che il cinismo è il modo sgradevole di rappresentare la verità. Internet non è una religione o una missione di per sé. Per alcuni si trasforma in una dipendenza, che tuttavia si può curare come qualsiasi altro problema medico. La situazione post-dotcom/post-11settembre confina con un “conservatorismo appassionato” ma, alla fine, respinge i principi piccolo-borghesi delle dot-com e i loro doppi standard di imbrogliare e nascondere, manipolare i libri e poi essere ripagati con corpulenti assegni. La domanda perciò è: quanta verità può tollerare un medium? Conoscere è doloroso e i propugnatori della “società della conoscenza” non ne hanno ancora tenuto conto.

Il cinismo della rete è franco, prima e soprattutto, riguardo se stesso. L’applicazione dei blog è un prodotto online con una chiara scadenza di utilizzo.
Spokker Jones: “Tra quarant’anni quando Internet crollerà in una gigantesca implosione di stupidità voglio poter dire: io c’ero”. Si dice che il cinismo di internet abbia dato origine a siti come Netslaves.com che è dedicato alle “horror stories della rete”. È un valida bacheca per coloro che sono “bruciati dall’incompetenza, dalla pianificazione idiota e dal management isterico delle aziende di new-media”. Esibizionismo uguale conferimento di poteri. Dire a voce alta cosa si pensa o si prova, sulla scia di De Sade, non è solo un’opzione – nel senso liberale di “scelta” – ma un obbligo, un impulso immediato a rispondere per esserci, assieme a tutti gli altri.

Nel contesto di internet, non è il male, come ha suggerito Rüdiger Safranski, ma invece la trivialità ad essere il “dramma della libertà”. Come afferma Baudrillard: “Tutti i nostri valori vengono simulati. Cosa è la libertà? Abbiamo una scelta tra comprare una macchina o acquistarne un’altra?”. Seguendo Baudrillard, potremmo dire che i blog sono un dono per l’umanità di cui nessuno ha bisogno. È questo il vero shock. Qualcuno ha ordinato lo sviluppo dei blog? Non c’è alcuna possibilità di ignorare semplicemente i blog e vivere lo stile di vita confortevole di un “intellettuale pubblico” del ventesimo secolo. Come Michel Houellebecq, i blogger sono intrappolati dalle loro stesse contraddizioni interne nella “Terra della Non Scelta”. Il London Times ha notato che Houllebecq “scrive dall’interno dell’alienazione. I suoi eroi maschili lividi, dimenticati dai loro genitori, ce la fanno privandosi delle interazioni d’amore; essi proiettano la loro freddezza e la loro solitudine sul mondo”. I blog sono campi di proiezione perfetti per un’impresa di questo genere.

Il teorico italiano Paolo Virno offre indizi su come utilizzare il termine cinismo in mondo non-derogativo. Virno ritiene che il cinismo sia connesso all’instabilità cronica delle forme di vita e dei giochi linguistici. Alla base del cinismo contemporaneo, Virno nota che uomini e donne inizialmente fanno esperienza delle regole, ben più spesso dei “fatti” e ben prima di sperimentare eventi concreti; “fare esperienza delle regole direttamente significa, tuttavia, anche riconoscere la loro convenzionalità e la loro infondatezza. Così, non si è più immersi in un ‘gioco’ predefinito partecipandovi con vera fedeltà. Al contrario, ci si coglie in ‘giochi’ individuali che sono destituiti di tutta la serietà e l’ovvietà, essendo divenuti niente più che un luogo per l’immediata affermazione del sé – un’auto-affermazione che è tanto più brutale e arrogante, in breve, cinica, quanto più è basata, senza illusioni ma con perfetta fedeltà momentanea, su quelle stesse regole che caratterizzano la convenzionalità e la mutevolezza.”

Come si legano ragione cinica e criticismo? La cultura cinica dei media è una pratica critica? Finora non si è dimostrato utile interpretare i blog come una nuova forma di criticismo letterario. Un’impresa di questo genere è destinata a fallire. La “crisi del criticismo” è stata annunciata più volte e la cultura dei blog ha semplicemente ignorato questa strada senza uscita. Non c’è alcun bisogno di un clone “new-media” di Terry Eagleton. Viviamo ben dopo la caduta della teoria. Il criticismo è diventato un’attività conservativa e affermativa, in cui la critica si alterna tra le perdite di valore celebrando, allo stesso tempo, lo spettacolo del mercato. Sarebbe interessante indagare sul perché il criticismo non sia divenuto popolare e si è allineato con pratiche dei nuovi media come i blog, mentre i cultural studies hanno reso popolare ogni cosa tranne che la teoria. Non incolpiamo l’“Altro che blogga” per la bancarotta morale della critica postmoderna. Al posto della profondità concettuale abbiamo associazioni ampie, un’ermeneutica popolare degli eventi-notizia. Le osservazioni computabili di milioni di individui possono essere ricercabili ed essere visualizzate, per esempio a gruppi. Se queste mappe ci offrono una qualsiasi conoscenza o meno è un’altra questione. È facile giudicare regressiva la crescita dei commenti a paragone in confronto alla chiara autorità della critica. La ristrettezza di vedute e il provincialismo hanno preteso il loro tributo. Il panico e l’ossessione riguardo allo status professionale della critica sono stati tali che il vuoto creato è stato ora riempito dai blogger amatoriali. Una cosa è sicura: i blog non spengono il pensiero.

Gli enciclopedisti amatoriali di Wikipedia descrivono i cinici come “coloro che sono inclini a non credere nella sincerità umana, nella virtù o nell’altruismo: individui che sostengono che il comportamento umano sia motivato solo da interessi privati. Un cinico moderno in genere ha un atteggiamento profondamente sprezzante nei confronti delle norme sociali, in particolare di quelle che assolvono uno scopo più rituale che pratico, e tenderà a congedare come sciocchezze irrilevanti o obsolete una parte sostanziale delle convinzioni popolari, della moralità convenzionale e del buonsenso comune.” In un ambiente di rete, una definizione di questo genere diventa problematica perché ritrae l’utente come un soggetto isolato, opposto a dei gruppi o alla società nel suo insieme. Il cinismo della rete non è un via d’accesso alle droghe o a niente di disgustoso. Parlare del “male” come categoria astratta è irrilevante in questo contesto. Non esiste alcun pericolo immediato. Va tutto bene. L’idea non è creare una situazione dialettica. C’è solo l’impressione di una stagnazione nel mezzo del cambiamento costante. Lo definiremmo “il romanticismo a occhi aperti”. Secondo Peter Sloterdijk, il cinismo è la “falsa coscienza illuminata”. Un cinico, così dice Sloterdijk, è qualcuno che fa parte di un’istituzione o di un gruppo la cui esistenza o i cui valori egli stesso non può più considerare assoluti, necessari o incondizionati, e che è infelice a causa di questo illuminismo, perché lui o lei si attengono a principi in cui non credono.

La sola conoscenza lasciata a un cinico è la fiducia nella ragione la quale, tuttavia, non può offrirgli (o offrirle) una solida base per agire, ma un’altra ragione per essere infelice. Seguendo Sloterdijk, il cinismo è un problema comune. La questione se sia universale o se si limiti alle società occidentali è troppo vasta per essere discussa in questa sede, ma indubbiamente la osserviamo su scala globale nei settori knowledge-intensive.

Operiamo nel mondo della post-decostruzione in cui i blog offrono un flusso senza fine di confessioni, un cosmo di micro-opinioni che tentano di interpretare gli eventi aldilà delle ben note categorie del ventesimo secolo. L’impulso nichilista emerge come risposta ai crescenti livelli di complessità all’interno di tematiche interconnesse. C’è poco da dire se tutti gli eventi possono essere spiegati attraverso il post-colonialismo, l’analisi di classe e le prospettive di genere. Ma i blog nascono contro questo tipo di analisi politica attraverso cui non si può più dire molto.
I blog esprimono paura, insicurezza e disillusioni personali, ansie in cerca di complici. Raramente vi troviamo passione (fatta eccezione per l’atto di bloggare in sé). Spesso i blog svelano dubbio e insicurezza su cosa si prova, si pensa, si crede e così via. Confrontano attentamente le riviste e passano in rassegna insegne stradali, nightclub e magliette. Questa incertezza stilizzata circonda la tesi generale secondo cui i blog debbono essere biografici e, allo stesso tempo, parlare del mondo esterno. La loro portata emotiva è molto più ampia degli altri media per via della loro atmosfera informale. È essenziale mescolare pubblico e privato. Quello con cui i blog giocano è il registro emozionale, che varia dall’odio alla noia, dall’impegno appassionato, all’indignazione sessuale e poi, di nuovo, alla noia quotidiana.

Bloggare non è né un progetto né una proposta ma una condizione la cui esistenza deve essere riconosciuta. “Noi blogghiamo” come dicono Kline e Bernstein. È un a priori di oggi. Il teorico culturale australiano Justin Clemens spiega: “Il nichilismo non è semplicemente un’altra epoca in mezzo al succedersi delle altre: è la forma finalmente compiuta di un disastro che è accaduto molto tempo fa”. Per tradurre tutto questo nei termini dei nuovi media: i blog testimoniano e documentano il potere decrescente dei media tradizionali, ma non hanno consapevolmente sostituito la loro ideologia con una alternativa. Gli utenti sono stanchi di una comunicazione dall’alto verso il basso – tuttavia ancora non hanno un’altra direzione verso cui tendere. “Non esiste un altro mondo” potrebbe essere letto come una risposta allo slogan anti-globalizzazione “Un altro mondo è possibile.”

Presi dal meccanismo quotidiano dei blog, c’è la sensazione che la Rete sia l’alternativa. Non è corretto giudicare i blog esclusivamente sulla base del loro contenuto. La teoria dei media non ha mai utilizzato questo modo e, anche in questo caso, dovrebbe guardarsi bene dal farlo. Bloggare è un’avventura nichilista proprio perché la struttura della proprietà dei mass media è messa in dubbio e poi attaccata. Bloggare è una strategia del dissanguamento. Implosione non è la parola giusta. L’implosione implica una tragedia e uno spettacolo che qui non sono presenti. Bloggare è l’opposto dello spettacolo. È piatto (eppure significativo). Il blogging non è un clone digitale delle “lettere al direttore”. Anziché lamentarsi e litigare, il blogger si mette nella posizione perversamente piacevole dell’osservatore dei media.

Il fare commenti sulla cultura tradizionale, sui suoi valori e i suoi prodotti, dovrebbe essere letto come un aperto calo di attenzione. Gli occhi che un tempo guardavano pazientemente a tutti gli articoli e gli annunci sono entrati in sciopero. Secondo la filosofia utopistica dei blog, i mass media sono rovinati. Il loro ruolo verrà rilevato dai “media partecipativi”. La diagnosi terminale è stata fatta e dichiara: le organizzazioni chiuse, dall’alto verso il basso, non funzionano più, il sapere non può essere “gestito”, il lavoro di oggi è cooperativo e in rete.

Comunque, nonostante i continui segnali di avvertimento, il sistema continua con successo a (dis)funzionare. È davvero dall’alto verso il basso? Da dove viene la certezza hegeliana che il paradigma dei vecchi media verrà rovesciato? Esistono poche prove concrete di ciò. Ed è questo stato corrente dei fatti a causare il nichilismo, e non le rivoluzioni.

Come afferma giustamente Justin Clemens: “il nichilismo spesso passa senza essere sottolineato, non perché non sia più un tema per la filosofia e la teoria contemporanee, ma – al contrario – perché è proprio così poco circoscrivibile e dominante.” Il termine è uscito quasi completamente dal discorso politico dell’establishment. La ragione potrebbe essere la “banalizzazione del nichilismo” (Karen Carr). O secondo una riformulazione: l’assenza di arte alta che possa essere etichettata come tale. Le cose potrebbero essere cambiate con l’emergere di scrittori come Michel Houellebecq. Andre Gluckmann ha spiegato le rivolte degli immigrati avvenute nei sobborghi francesi nel 2005 come una “risposta al nichilismo francese”. Quello che i giovani in rivolta stavano attuando era un’“imitazione della negazione.” Il “problema del nichilismo”, come nota Clemens, è la natura complessa, sottile e auto-riflessiva del termine. Storicizzare il concetto è una via d’uscita, sebbene la lascerò agli storici. Un’altra via potrebbe essere occupare il termine e ricaricarlo di energie sorprendenti: il nichilismo creativo.

Traduzione dall’inglese di Martina Toti

L'intero saggio è stato pubblicato per la prima volta in tedesco su Lettre Internationale 73. La versione inglese è stata fornita da Eurozine
© Geert Lovink, Eurozine

 


 

 

 

Vi e' piaciuto questo articolo? Avete dei commenti da fare? Scriveteci il vostro punto di vista a
redazione@caffeeuropa.it