Questo articolo è la quarta e ultima parte
di un saggio basato su una lecture tenuta a Berlino
presso il Berlin Institute of Advanced Study, Wissenschaftskolleg,
il 26 marzo 2006 e apparirà nel libro in uscita
di Geert Lovink dal titolo “Zero Comments”
(Routledge).
Leggi la prima parte:
Veloci,
leggeri e personali. I blog prendono il volo
Leggi la seconda parte:
Alla scoperta della ragion cinica
Leggi la terza parte:
Cosa c’è di nichilista nella blogosfera?
“Cerca di edificare te stesso e costruirai
un rudere” (Sant’Agostino). Questo vale
anche per i blog. Quello che sembra essere un mezzo
comune eppure personalizzato, user-friendly,
dimostra di essere inaffidabile sul lungo termine.
L’io liquido potrebbe aver pensato di trovare
rifugio in provider come blogger.com o blogspot.com,
ma la maggior parte dei servizi di blogging si dimostrano
instabili quando si tratta di archiviare i milioni
di blog che ospitano. L’età media di
una pagina web è di sei mesi, così si
dice, e non c’è alcuna ragione per credere
che questo non sia vero anche nel caso dei blog. Come
scrive Alex Havias: “molti blog hanno vita breve
e, a ogni modo, possiamo presumere che è probabile
che tutti i blog vengano mantenuti operativi per un
tempo finito. Questi archivi locali devono essere
duplicati altrove. Al momento non c’è
niente di così semplice come l’RSS che
ne permetta la duplicazione.” Il detto popolare
secondo cui Internet ricorderà ogni cosa si
sta trasformando in un mito: “Se non è
semplice aggiornare il tuo sito, non lo aggiornerai”.
Questo era il problema degli anni ’90. Il problema
ora è: “Se non aggiorni il tuo blog,
noi lo cancelliamo”. Anche se il corpo del blog
può essere ricostruito, per esempio attraverso
archive.org, resta il problema del contenuto multimediale
che viene duplicato. Alex Halavias suggerisce che
invece di un server centralizzato, la soluzione potrebbe
essere un archivio modello peer-to-peer.
Come può la cultura dei blog trascendere l’accusa
vera, pure se noiosa, di essere interessata solo a
se stessa? Avere una scena prosperosa di persone anonime,
come in Iran, è emozionante, ma non è
una reale alternativa per il resto del mondo. Neppure
i giochi di ruolo ci offriranno una via d’uscita,
anche se potrebbe essere interessante indagare su
come i blog e i MMORPG (Massively Multiplayer Online
Role-Playing Games) si rapportano tra loro. Al momento
si tratta di ampi universi paralleli. Invece potremmo
parlare, sulla scia di Stephen Greenblatt, di self-fashioning
online. La posa teatrale viene esplicitata da
questo termine e riunisce elementi del sé (diario,
introspezione) con lo spettacolo dei pochi blogocrati
che si combattono l’attenzione dei milioni.
Nel contesto dei blog, Matthew Berk parla di “self-fashioning
digitale”. Secondo Berk: “Le persone
online si costituiscono come raccolte di documenti
e altri dati pensati per essere letti dalle persone
e per stabilire dei rapporti. Più c’è
struttura all’interno e tra questi contenuti,
maggiore è la loro potenzialità di azione.”
Il sé è definito in maniera normativa
come la capacità di elaborare legami tra frammenti
di contenuto.
Nicholas Carr ha definito“amorale” l’inganno
del Web 2.0 - blog compresi. “Ovviamente i media
tradizionali considerano la blogosfera un competitor.
È un competitor. E, data l’economia della
competizione, potrebbe ben trasformarsi in un competitor
maggiore. I ridimensionamenti a cui abbiamo assistito
ultimamente nei principali giornali potrebbero essere
solo l’inizio, e dovrebbero essere ragione non
di risate compiaciute ma di disperazione. Nella visione
estatica del Web 2.0 è implicita l’egemonia
del dilettante.”
Questa mossa di concessione di potere politico è
presa come una calcolata “saggezza delle folle”.
Quello che i proprietari dei singoli blog considerano
orgogliosamente un grande post, visto dalla più
ampia prospettiva di internet, con il suo miliardo
di utenti, è una raccolta in continuo cambiamento
di nugoli di tecnicismi, che consistono in trilioni
di click e micro-opinioni. Più sappiamo di
questo metalivello, attraverso strumenti di software
sofisticati, più possiamo deprimerci riguardo
alla direzione generale. I blog non nascono da movimenti
politici o da interessi sociali. Essi si “focalizzano
ossessivamente sulla realizzazione del Sé”,
dice Andrew Keen del Weekly Standard. Keen
prevede una svolta pessimistica: “Se si democratizzano
i media, allora si finisce per democratizzare il talento.
La conseguenza involontaria di tutta questa democratizzazione,
per parafrasare l’apologo del Web 2.0 Thomas
Friedman, è l’‘appiattimento’
culturale.” E Nicholas Carr aggiunge: “Alla
fine veniamo lasciati con niente più che ‘il
sordo rumore dell’opinione’ – l’incubo
di Socrate.” Interessante vedere come cambia
velocemente l’animosità all’interno
delle comunità del Web 2.0.
George Gilder, il Carl Schmitt dei new media,
ha dichiarato una volta: “Mentre rilascia energie
creative ovunque, il capitalismo conduce a una diversità
assai maggiore, che comprende anche i media. L’intera
blogosfera è un esempio di come trascendere
i modelli gerarchici della tecnologia dei vecchi media
- dall’alto verso il basso - attraverso la tecnologia
dei nuovi media produca diversità e voci e
creazioni nuove.”
A questa opinione generale secondo cui la diversità
è un bene, possiamo contrapporre la perdita
che deriva dalla scomparsa di familiarità e
riferimenti comuni. “Blogging alone”
(dopo il Bowling Alone di Robert D. Putman)
è una realtà sociale che non può
essere liquidata facilmente. La maggior parte del
blogging è ciò che Bernard
Siegert definisce una “comunicazione fantasma”.
“Il net-working inizia e finisce con la pura
auto-referenzialità”, scrive Friedrich
Kittles, e questa autopoiesi non è mai così
chiara come nella blogosfera. I protocolli sociali
di opinione, inganno e convinzione non possono essere
separati dalla realtà tecnica delle reti, e
nel caso dei blog, questa si trasforma in un lavoro
ingrato.
Una volta, nel febbraio 2004, si metteva in risalto
il fatto che internet fosse una “camera per
l’Ego”. Searls, Weinberg, Ito, e Boyd…
erano tutti lì. Danah Boyd scriveva: “Uno
dei motivi principali per cui molti si collegavano
al web negli anni ’90 era trovare persone simili.
L’obiettivo non era solidificarsi o diversificarsi,
ma sentirsi convalidati. Suggerire la solidificazione/diversificazione
implica che la motivazione primaria dell’andare
online è partecipare a un dialogo intenzionale,
per essere educati ed educare. Francamente, non credo
che ciò sia vero.” Rispetto al blogging
Shelly Parks aveva notato precedentemente: “si
scrive per essere parte di una comunità? O
si scrive per scrivere, e la parte della comunità
o capita oppure no?” In questo contesto, Danah
Boyd si riferisce ai network sociali e al concetto
di omofilia. Sembra che nell’ambito del blogging,
la costruzione esplicita di gruppi auto-referenziali
sia ancora un concetto nuovo. I blog creano arcipelaghi
di link interni ma questi legami sono troppo deboli.
In cima a tutto ciò, non solo, in genere, i
blogger si riferiscono e rispondono solo ai membri
della loro tribù online, ma non hanno alcuna
idea complessiva di come potrebbero cercare di includere
i propri avversari. I Blogrolls (le liste di link)
presuppongono inconsapevolmente che se si include
un blog si è d’accordo o almeno si simpatizza
con il suo creatore. Linkiamo quello che è
interessante e bello. Questo è il problema
chiave del modello Google e Amazon, in cui i link
vengono scambiati come raccomandazioni.
A causa della sua vastità, la distesa dei
blog non è uno spazio inconteso. Innanzitutto,
le differenze di opinione devono esistere già
e non piovono dal cielo. Fabbricare opinioni è
l’arte della creazione dell’ideologia.
Il dibattito non dovrebbe essere confuso con uno stile
propagandistico in cui le lotte (politiche) esistenti
vengono giocate nella Rete. Il tono troppo intraprendente
è ciò che rende i blog così poveri
dal punto di vista retorico. Quello che manca nell’architettura
del software è l’esistenza stessa di
un partner di dialogo paritario. Il risultato è
una militarizzazione, espressa da termini come “blog-swarm”
(sciame di blog), che viene definita dal blogger cristiano
di destra Hugh Hewitt come “un primo indicatore
di un’imminente tempesta di opinioni che, quando
scoppierà, altererà profondamente la
comprensione del pubblico generale di una persona,
un luogo, un prodotto o un fenomeno”. È
la comunalità del pregiudizio, o diciamo della
convinzione, a guidare la crescita del potere del
blogging e la sua visibilità sugli altri media.
Possiamo parlare di una “paura della libertà
dei media”? È troppo facile dire che
c’è libertà di parola e che i
blog materializzano questo diritto. L’obiettivo
della libertà radicale – si potrebbe
sostenere – è creare autonomia e superare
il predominio delle media corporation e del
controllo statale e non essere più disturbati
dai “loro” canali. La maggior parte dei
blog mostra una tendenza opposta. L’ossessione
per le notizie-fattoidi confina con l’estremo.
Invece dell’appropriazione selettiva, ci sono
una sovra-identificazione e una dipendenza chiara
e tonda, in particolare dalla velocità della
cronaca in tempo reale. Come Erich Fromm (autore di
Paura della Libertà), potremmo interpretare
tutto questo come “un problema psicologico”
perché l’informazione esistente è
semplicemente riprodotta, in un atto pubblico di internalizzazione.
Gli elenchi dei libri che devono essere ancora letti,
una caratteristica comune dei blog, conducono nella
stessa direzione. Secondo Fromm, la libertà
ci ha messo in un isolamento insopportabile. Di conseguenza
ci sentiamo in ansia e privi di potere. O fuggiamo
in nuove dipendenze o realizziamo una libertà
positiva che si fonda sull’ unicità e
individualità dell’uomo”. “Il
diritto di esprimere i nostri pensieri significa qualcosa
solo se siamo in grado di avere pensieri nostri.”
La libertà dai monopoli mediatici tradizionali
porta a nuovi legami, in questo caso il paradigma
dei blog, dove c’è poca enfasi sulla
libertà positiva, su cosa fare della funzionalità
schiacciante e della mancanza del vuoto, della finestra
bianca per le entries. Non sentiamo parlare
abbastanza della tensione tra l’io individuale
e la “comunità”, gli “sciami”
e i “mob” che si suppone siano
parte dell’ambiente online. Quello che invece
vediamo accadere dal punto di vista del software sono
i progressi quotidiani degli strumenti di misurazione
(quantitativa) e di manipolazione sempre più
sofisticati (nei termini dell’inbound linking,
del traffico, della scalata più in alto di
Google, ecc.) Nei contesti esistenti, non è
il documento a evidenziare ciò che non è
incapsulato? La verità non si trova laddove
non ci si può collegare?
Traduzione dall’inglese di Martina Toti
L'intero saggio è stato pubblicato per
la prima volta in tedesco su Lettre Internationale
73. La versione inglese è stata fornita
da Eurozine
© Geert Lovink, Eurozine
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