325 - 20.07.07


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Annegare in un
arcipelago di link
Geert Lovink

Questo articolo è la quarta e ultima parte di un saggio basato su una lecture tenuta a Berlino presso il Berlin Institute of Advanced Study, Wissenschaftskolleg, il 26 marzo 2006 e apparirà nel libro in uscita di Geert Lovink dal titolo “Zero Comments” (Routledge).

Leggi la prima parte:
Veloci, leggeri e personali. I blog prendono il volo

Leggi la seconda parte:
Alla scoperta della ragion cinica

Leggi la terza parte:
Cosa c’è di nichilista nella blogosfera?

“Cerca di edificare te stesso e costruirai un rudere” (Sant’Agostino). Questo vale anche per i blog. Quello che sembra essere un mezzo comune eppure personalizzato, user-friendly, dimostra di essere inaffidabile sul lungo termine. L’io liquido potrebbe aver pensato di trovare rifugio in provider come blogger.com o blogspot.com, ma la maggior parte dei servizi di blogging si dimostrano instabili quando si tratta di archiviare i milioni di blog che ospitano. L’età media di una pagina web è di sei mesi, così si dice, e non c’è alcuna ragione per credere che questo non sia vero anche nel caso dei blog. Come scrive Alex Havias: “molti blog hanno vita breve e, a ogni modo, possiamo presumere che è probabile che tutti i blog vengano mantenuti operativi per un tempo finito. Questi archivi locali devono essere duplicati altrove. Al momento non c’è niente di così semplice come l’RSS che ne permetta la duplicazione.” Il detto popolare secondo cui Internet ricorderà ogni cosa si sta trasformando in un mito: “Se non è semplice aggiornare il tuo sito, non lo aggiornerai”. Questo era il problema degli anni ’90. Il problema ora è: “Se non aggiorni il tuo blog, noi lo cancelliamo”. Anche se il corpo del blog può essere ricostruito, per esempio attraverso archive.org, resta il problema del contenuto multimediale che viene duplicato. Alex Halavias suggerisce che invece di un server centralizzato, la soluzione potrebbe essere un archivio modello peer-to-peer.

Come può la cultura dei blog trascendere l’accusa vera, pure se noiosa, di essere interessata solo a se stessa? Avere una scena prosperosa di persone anonime, come in Iran, è emozionante, ma non è una reale alternativa per il resto del mondo. Neppure i giochi di ruolo ci offriranno una via d’uscita, anche se potrebbe essere interessante indagare su come i blog e i MMORPG (Massively Multiplayer Online Role-Playing Games) si rapportano tra loro. Al momento si tratta di ampi universi paralleli. Invece potremmo parlare, sulla scia di Stephen Greenblatt, di self-fashioning online. La posa teatrale viene esplicitata da questo termine e riunisce elementi del sé (diario, introspezione) con lo spettacolo dei pochi blogocrati che si combattono l’attenzione dei milioni. Nel contesto dei blog, Matthew Berk parla di “self-fashioning digitale”. Secondo Berk: “Le persone online si costituiscono come raccolte di documenti e altri dati pensati per essere letti dalle persone e per stabilire dei rapporti. Più c’è struttura all’interno e tra questi contenuti, maggiore è la loro potenzialità di azione.” Il sé è definito in maniera normativa come la capacità di elaborare legami tra frammenti di contenuto.

Nicholas Carr ha definito“amorale” l’inganno del Web 2.0 - blog compresi. “Ovviamente i media tradizionali considerano la blogosfera un competitor. È un competitor. E, data l’economia della competizione, potrebbe ben trasformarsi in un competitor maggiore. I ridimensionamenti a cui abbiamo assistito ultimamente nei principali giornali potrebbero essere solo l’inizio, e dovrebbero essere ragione non di risate compiaciute ma di disperazione. Nella visione estatica del Web 2.0 è implicita l’egemonia del dilettante.”

Questa mossa di concessione di potere politico è presa come una calcolata “saggezza delle folle”. Quello che i proprietari dei singoli blog considerano orgogliosamente un grande post, visto dalla più ampia prospettiva di internet, con il suo miliardo di utenti, è una raccolta in continuo cambiamento di nugoli di tecnicismi, che consistono in trilioni di click e micro-opinioni. Più sappiamo di questo metalivello, attraverso strumenti di software sofisticati, più possiamo deprimerci riguardo alla direzione generale. I blog non nascono da movimenti politici o da interessi sociali. Essi si “focalizzano ossessivamente sulla realizzazione del Sé”, dice Andrew Keen del Weekly Standard. Keen prevede una svolta pessimistica: “Se si democratizzano i media, allora si finisce per democratizzare il talento. La conseguenza involontaria di tutta questa democratizzazione, per parafrasare l’apologo del Web 2.0 Thomas Friedman, è l’‘appiattimento’ culturale.” E Nicholas Carr aggiunge: “Alla fine veniamo lasciati con niente più che ‘il sordo rumore dell’opinione’ – l’incubo di Socrate.” Interessante vedere come cambia velocemente l’animosità all’interno delle comunità del Web 2.0.

George Gilder, il Carl Schmitt dei new media, ha dichiarato una volta: “Mentre rilascia energie creative ovunque, il capitalismo conduce a una diversità assai maggiore, che comprende anche i media. L’intera blogosfera è un esempio di come trascendere i modelli gerarchici della tecnologia dei vecchi media - dall’alto verso il basso - attraverso la tecnologia dei nuovi media produca diversità e voci e creazioni nuove.”

A questa opinione generale secondo cui la diversità è un bene, possiamo contrapporre la perdita che deriva dalla scomparsa di familiarità e riferimenti comuni. “Blogging alone” (dopo il Bowling Alone di Robert D. Putman) è una realtà sociale che non può essere liquidata facilmente. La maggior parte del blogging è ciò che Bernard Siegert definisce una “comunicazione fantasma”. “Il net-working inizia e finisce con la pura auto-referenzialità”, scrive Friedrich Kittles, e questa autopoiesi non è mai così chiara come nella blogosfera. I protocolli sociali di opinione, inganno e convinzione non possono essere separati dalla realtà tecnica delle reti, e nel caso dei blog, questa si trasforma in un lavoro ingrato.

Una volta, nel febbraio 2004, si metteva in risalto il fatto che internet fosse una “camera per l’Ego”. Searls, Weinberg, Ito, e Boyd… erano tutti lì. Danah Boyd scriveva: “Uno dei motivi principali per cui molti si collegavano al web negli anni ’90 era trovare persone simili. L’obiettivo non era solidificarsi o diversificarsi, ma sentirsi convalidati. Suggerire la solidificazione/diversificazione implica che la motivazione primaria dell’andare online è partecipare a un dialogo intenzionale, per essere educati ed educare. Francamente, non credo che ciò sia vero.” Rispetto al blogging Shelly Parks aveva notato precedentemente: “si scrive per essere parte di una comunità? O si scrive per scrivere, e la parte della comunità o capita oppure no?” In questo contesto, Danah Boyd si riferisce ai network sociali e al concetto di omofilia. Sembra che nell’ambito del blogging, la costruzione esplicita di gruppi auto-referenziali sia ancora un concetto nuovo. I blog creano arcipelaghi di link interni ma questi legami sono troppo deboli. In cima a tutto ciò, non solo, in genere, i blogger si riferiscono e rispondono solo ai membri della loro tribù online, ma non hanno alcuna idea complessiva di come potrebbero cercare di includere i propri avversari. I Blogrolls (le liste di link) presuppongono inconsapevolmente che se si include un blog si è d’accordo o almeno si simpatizza con il suo creatore. Linkiamo quello che è interessante e bello. Questo è il problema chiave del modello Google e Amazon, in cui i link vengono scambiati come raccomandazioni.

A causa della sua vastità, la distesa dei blog non è uno spazio inconteso. Innanzitutto, le differenze di opinione devono esistere già e non piovono dal cielo. Fabbricare opinioni è l’arte della creazione dell’ideologia. Il dibattito non dovrebbe essere confuso con uno stile propagandistico in cui le lotte (politiche) esistenti vengono giocate nella Rete. Il tono troppo intraprendente è ciò che rende i blog così poveri dal punto di vista retorico. Quello che manca nell’architettura del software è l’esistenza stessa di un partner di dialogo paritario. Il risultato è una militarizzazione, espressa da termini come “blog-swarm” (sciame di blog), che viene definita dal blogger cristiano di destra Hugh Hewitt come “un primo indicatore di un’imminente tempesta di opinioni che, quando scoppierà, altererà profondamente la comprensione del pubblico generale di una persona, un luogo, un prodotto o un fenomeno”. È la comunalità del pregiudizio, o diciamo della convinzione, a guidare la crescita del potere del blogging e la sua visibilità sugli altri media.

Possiamo parlare di una “paura della libertà dei media”? È troppo facile dire che c’è libertà di parola e che i blog materializzano questo diritto. L’obiettivo della libertà radicale – si potrebbe sostenere – è creare autonomia e superare il predominio delle media corporation e del controllo statale e non essere più disturbati dai “loro” canali. La maggior parte dei blog mostra una tendenza opposta. L’ossessione per le notizie-fattoidi confina con l’estremo. Invece dell’appropriazione selettiva, ci sono una sovra-identificazione e una dipendenza chiara e tonda, in particolare dalla velocità della cronaca in tempo reale. Come Erich Fromm (autore di Paura della Libertà), potremmo interpretare tutto questo come “un problema psicologico” perché l’informazione esistente è semplicemente riprodotta, in un atto pubblico di internalizzazione. Gli elenchi dei libri che devono essere ancora letti, una caratteristica comune dei blog, conducono nella stessa direzione. Secondo Fromm, la libertà ci ha messo in un isolamento insopportabile. Di conseguenza ci sentiamo in ansia e privi di potere. O fuggiamo in nuove dipendenze o realizziamo una libertà positiva che si fonda sull’ unicità e individualità dell’uomo”. “Il diritto di esprimere i nostri pensieri significa qualcosa solo se siamo in grado di avere pensieri nostri.” La libertà dai monopoli mediatici tradizionali porta a nuovi legami, in questo caso il paradigma dei blog, dove c’è poca enfasi sulla libertà positiva, su cosa fare della funzionalità schiacciante e della mancanza del vuoto, della finestra bianca per le entries. Non sentiamo parlare abbastanza della tensione tra l’io individuale e la “comunità”, gli “sciami” e i “mob” che si suppone siano parte dell’ambiente online. Quello che invece vediamo accadere dal punto di vista del software sono i progressi quotidiani degli strumenti di misurazione (quantitativa) e di manipolazione sempre più sofisticati (nei termini dell’inbound linking, del traffico, della scalata più in alto di Google, ecc.) Nei contesti esistenti, non è il documento a evidenziare ciò che non è incapsulato? La verità non si trova laddove non ci si può collegare?

Traduzione dall’inglese di Martina Toti


L'intero saggio è stato pubblicato per la prima volta in tedesco su Lettre Internationale 73. La versione inglese è stata fornita da Eurozine


© Geert Lovink, Eurozine



 



 

 

 

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