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Cervelli in fuga a Silicon Valley


Valentina Furlanetto

Non sono pochi i cervelli di casa nostra che funzionano in America. Un gruppo di professionisti dell'High Tech, emigrati verso gli Stati Uniti ma non solo, ha iniziato un carteggio su Italians, la rubrica online del Corriere della Sera (www.corriere.it) curata da Beppe Severgnini

Niente a che vedere con la valigia di cartone dei nonni sbarcati in America. I nuovi emigranti italiani sono ingegneri, tecnici, grafici, programmatori altamente specializzati che all'estero guadagnano fior di dollari utilizzando cellule grige made in Italy. Non starebbero più comodi a Segrate che nella Silicon Valley?

Certo, ma il lavoro sotto casa non c'è, anche se tutti i giorni si sente dire che il personale informatico specializzato è richiestissimo dalle aziende italiane che appunto cercano, ma non trovano, programmatori, tecnici, Web developer, ingegneri e così via.

Forse in Italia si cerca, ma non si vuol trovare. In America, dove pure l'industria dell'Information and Communication Technology è assetata di professionisti, stanno addirittura meditando di modificare la legislazione sull'immigrazione per catturare i nostri cervelli in fuga.

Alcune compagnie informatiche, come la Hewlett-Packard(www.hp.com), che solo l'anno scorso ha assunto 200 stranieri laureati in materie informatiche, stanno pressando il Congresso perchè aumenti il numero di H-1B Visa, i permessi di soggiorno per lavorare in America concessi ai giovani laureati.

Sempre per sopperire alla richiesta di specializzati informatici, già nel 1998 questi permessi di ingresso erano passati da 65 mila a 115 mila e ora il Senatore repubblicano Phil Gramm ha suggerito di aumentarli a 200 mila, scatenando chiaramente le ire dei sindacati americani.

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Luca Prasso, che a Palo Alto (California) si occupa di creare i software per le animazioni della Dreamworks di Steven Spielberg, non ha dubbi: "In Italia ci sono animatori, programmatori e tecnici bravissimi, ma, è vero, molti decidono di lavorare all'estero. Io stesso ne conosco una decina, solo fra animatori di cartoni animati, dispersi tra Los Angeles e il resto dell'America.

"Personalmente ho lavorato per anni in Italia nel settore della computer grafic: realizzavo spot pubblicitari e sigle Tv e mi sono sempre scontrato con un mercato ottuso e ignorante nei confronti del mezzo digitale: chiedevano progetti ambiziosi in tempi impossibili e con budget ridotti. Così, cinque anni fa, all'età di 31 anni, ho deciso di venire qui". E ora sta realizzando il terzo film di animazione, dopo Z la Formica e Sherk, che uscirà in America il prossimo anno.

Anche nel settore dell'e-commerce c'è chi ha provato le due esperienze, italiana e straniera, e non se la sente di tornare perché, nonostante gli entusiasmi dell'ultima ora, le aziende italiane non danno segni di sostanziale investimento nel personale. "Lavoro a Londra come e-commerce manager da tre anni - racconta Stefania Michelotto, 31 anni, laurea al DAMS, specializzazione come tecnico multimediale - e l'anno scorso, visto il boom della Rete anche in Italia, ho mandato il mio curriculum a diverse aziende nostrane".

Contattata dalle sedi italiane di una multinazionale e da un portale internazionale Stefania ha rinunciato perché la remunerazione offerta era molto inferiore al suo stipendio inglese: "La scusa era che tanto in Italia la Rete non avrà mai successo e quindi non potevano investire di più. Se è vero che in Italia mancano i professionisti della Rete e che le aziende stanno reclutando all'estero mi chiedo come possano pensare di attirarci così" .

"Credo - continua Stefania - che in Italia si faccia disinformazione sul commercio elettronico. Compro spesso i newsmagazine italiani e in ogni numero trovo articoli che parlando dei nuovi lavori. Quello che non dicono e' che si lavora senza contratto e per due lire". Esattamente ciò che è capitato a lei quando lavorava a Bologna progettando siti Web e insegnando comunicazione multimediale presso i corsi del Fondo Sociale Europeo.

E poi c'è la ricerca. Il professor Alberto Sangiovanni Vincentelli che insegna a Berkeley è un pioniere dell'emigrazione informatica. Arrivato negli Stati Uniti a metà degli anni Settanta c'è rimasto e ha "svezzato" una serie di giovani ricercatori universitari come Giovanni De Micheli, professore a Stanford, Roberto Perona, che insegna al Caltech, e Massimiliano Chiodo, che lavora alla Silicon Valley e si chiede "perché sia impossibile ottenere lo stesso successo con le stesse persone a Reggio Emilia invece che a San Francisco".

Enrico Giordani, 33 anni, ingegnere elettronico originario di Padova, lavora da due anni a Seattle come Software Design Engineer e un'idea ce l'ha: "Sono venuto qui a cercare lavoro e l'ho trovato nel giro di pochi giorni e con estrema facilità, mentre in Italia per ottenere un posto simile ho dovuto compilare moduli e girare uffici per un mese". Meno burocrazia, dunque, e poi "civiltà, orari di lavoro flessibili, retribuzione adeguata alle competenze. Questo è un paese che premia chi sa fare".

Un altro ingegnere emigrato è Roberto Celi, che insegna e fa ricerca all'Università del Maryland. Anche lui però è partito alla volta dalla costa californiana: "Mi sono laureato a Torino, ho vinto una borsa di studio all'Università di Los Angeles per un Master che poi è diventato un Phd; oggi non avrei più l'allenamento e l'energia per sopportare le frustrazioni della vita professionale in Italia".

Roberto Celi è convinto che in America professionalmente ci sia "una ragionevole certezza che chi vale possa andare avanti, ovviamente con il rischio di essere cacciati in caso di fallimento. Nel '96 ho partecipato in Italia al concorso per professori associati e ho vinto. Mi piace pensare che sia andata così per meriti professionali, ma temo sia stato importante il fatto che il mio ex-suocero facesse parte del sindacato dei docenti universitari".

"Forse solo quando la Fiat sarà comprata dalla Chrysler/Daimer l'Italia si sveglierà", continua Celi. "Intanto il team che ha progettato Luna Rossa è guidato da un americano, due argentini e un neozelandese, le vele sono fatte da una multinazionale che ha sede in Connecticut e gli alberi da una ditta della Nuova Zelanda".

 

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