"Sire, poichè alla commedia spetta il dovere di correggere gli uomini,
divertendoli, ho creduto di non avere nulla di meglio a fare, nella posizione in cui mi
trovo, che attaccare i vizi del mio secolo, facendone una pittura che li coprisse di
ridicolo; e siccome l'ipocrisia è indubbiamente uno di quelli che sono più molesti, più
pericolosi, e maggiormente in uso, ho pensato, Sire, che avrei reso un non piccolo
servigio a tutte le persone oneste del regno, facendo una commedia che screditasse gli
ipocriti, e mettesse per bene in evidenza tutte le smorfie affettate di questa gente
dabbene a oltranza, tutte le evidenti furfanterie di questi fabbricatori di falsa
devozione che vogliono accalappiare gli uomini con zelo di contraffazione, ed una
sofistica carità..."

Così comincia la prima di una serie di petizioni e istanze che il drammaturgo francese
Molière rivolse al re Luigi XIV, nel 1667, per difendere la sua commedia
"Tartufo" dagli attacchi pesantissimi rivoltigli da gran parte della corte e
dell'alta borghesia dell'epoca. Questa apparentemente sproporzionata reazione di un intero
gruppo di potere, corrotto e ipocrita come pochi nella storia, non ci dovrebbe
sorprendere, se è vero che, come lo stesso Molière scrive, "il teatro ha un gran
potere nel correggere i vizi degli uomini. I migliori brani d'una seria morale sono meno
efficaci, il più delle volte, di quelli della satira; e niente riprende meglio la maggior
parte degli uomini che il ritratto dei loro difetti. E' un gran colpo ai vizi esporli al
riso di tutti. Si sopportano facilmente i rimproveri; ma non si sopporta affatto la burla.
Si vuole, sì, essere cattivi; ma non si vuole affatto essere ridicoli."
Purtroppo le caratteristiche delle "corti" non sembrano essere molto cambiate
da allora, e sarà proprio per questa sua intenzione di "insopportabile satira"
contro i vizi capitali dei potenti, primi fra tutti la falsità e l'ipocrisia, che il
"Tartufo" di Molière è uno dei testi del passato più rappresentati di ogni
sorta di palcoscenico dei giorni nostri. In particolare se ne interessano i teatri
"alternativi", quelli che nacquero dalle ricerche e dalle lezioni dei grandi
maestri del Novecento, tra cui la più importante probabilmente è quella che il teatro
contemporaneo non può essere letteratura declamata e che quindi il testo drammaturgico
non è altro che uno degli elementi che concorrono alla creazione di quello che succede
organicamente sulla scena.
In realtà, non tutti i teatri "alternativi" hanno fatto propria fino in
fondo questa premessa fondamentale per un reale rinnovamento del teatro e in molti casi il
ricorso a Shakespeare o Molière, volenti o nolenti, riporta alla vecchia concezione
ottocentesca e borghese che vede il teatro prevalentemente come letteratura recitata. In
particolare in Italia assistiamo da alcuni anni alla messa in scena di testi classici, da
Eschilo a Pirandello, da parte di molte realtà teatrali che avevano fatto della distanza
dal teatro di drammaturgia una componente importante della loro identità e differenza.

Di questa confusione è un chiaro esempio l'ultimo spettacolo dell'attore regista Toni
Servillo, il "Tartufo" di Molière, appunto, coprodotto dai Teatri Uniti e dal
Teatro di Roma, che lo ospita attualmente in prima nazionale all' Argentina di Roma. Lo
spettacolo comprende sul palco anche il pubblico, sistemato su due gradinate ai lati dello
spoglio spazio scenico, sul quale ci sono soltanto un tavolo, due sedie e tre sgabelli.
Sistemato gli spettatori, si chiude il pesante e minaccioso sipario di ferro che isola il
palco dalla platea e si crea l'aspettativa tipica di un evento teatrale che può
richiamare realtà estreme e molto sperimentali, come le creazioni del Laboratorium di
Grotowski o dell'Odin Teatret di Eugenio Barba, o per altri versi dei migliori spettacoli
di Peter Brook, come "The Tempest" di Shakespeare.
In realtà, assistiamo a uno spettacolo di buona fattura, con bei costumi quasi d'epoca
e con un buon livello generale di recitazione, costruito con un andamento discretamente
scorrevole e gradevole e un insieme di quadri e di movimenti scenici sorprendentemente
canonici. Ed è proprio questo che lascia perplessi, che come punto d'arrivo e di
maturazione di un lungo percorso che dovrebbe essere stato all'insegna della
sperimentazione e della ricerca, ci viene presentato un dignitoso ma alquanto
convenzionale spettacolo di prosa, di quelli che si svolgono tranquillamente sui consueti
palcoscenici all'italiana dei classici teatri frequentati da un pubblico di sonnecchianti
abbonati. Purtroppo, la stupenda traduzione di Cesare Garboli, nella mancata scelta di un
registro preciso e coerente della messa in scena, non basta a creare quella tensione
teatrale necessaria perché l'entrata molto tardiva del personaggio del titolo soddisfi
l'aspettativa voluta e orchestrata magistralmente dalla scrittura di Molière.
E anche in questo lo spettacolo è sorprendentemente addomesticato, attingendo a una
gamma di "colori" tutti molto sfumati e rassicuranti, da commedia borghese,
trascurando il fatto che l'impianto voluto dal drammaturgo (nonché attore e regista,
quindi vero uomo di teatro) è dichiaratamente quello della Commedia dell'Arte, nel quale
dovrebbe inserirsi, come l'apparizione ambigua di angelo e demone al tempo stesso, il
personaggio di Tartufo. Un brivido in mezzo alle risate al quale non abbiamo assistito.