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Vergogna



Francesco Roat


In un romanzo l’insistenza su scene di squallore mi sembra che non paghi. L’ostentazione della bassezza umana allo scopo di sconcertare le anime semplici (ce ne saranno ancora?) o di sottolineare come - secondo l’autore - va il mondo mi pare una banalizzazione che mostra tutti i limiti della narrativa trash. Per soddisfare certi bassi appetiti basta un rotocalco. Così, quando ho letto i capitoli iniziali di “Vergogna” del sudafricano J. M. Coetzee, edito da Einaudi, all’insegna di un desolante grigiore dalle ambizioni trasgressive, mi son detto: qui ci deve essere altro. Coetzee è troppo bravo per limitarsi a raccontare gli squallidi peccatucci d’un cinquantenne professore universitario di Scienze della comunicazione fra il misantropo, l’abulico e l’apatico, che “non provando alcun rispetto per la materia che insegna, non riesce a lasciare il segno sugli studenti” e preferisce sedurre una studentessa, annoiato dalla propria routinaria frequentazione di prostitute.

No: ci doveva essere altro, e in effetti c’è. Così, dopo la reiterazione con la ragazza di un coito che “non è uno stupro, non proprio, ma un atto indesiderato”, il racconto prende una piega drammatica, trovandosi il professore costretto ad una rottura radicale col proprio passato, con tutto ciò che l’esistenza aveva rappresentato per lui fino all’incontro con la giovane Melanine. Causa denuncia per abuso sessuale nei confronti della studentessa, il docente viene allontanato dall’università e, senza più risorse finanziarie, finisce per chiedere asilo alla figlia Lucy, che vive presso una sperduta fattoria in una landa disabitata nella parte orientale della Provincia del Capo.


Il trasferimento dalla città alla campagna, in parallelo al venir meno dello status sociale che caratterizzava il professore, segna profondamente il protagonista, scopertosi impotente di fronte alle difficoltà nel gestire una vita del tutto altra rispetto a quella di prima. Sarà l’inizio di una crisi profonda, destinata a trasformare completamente l’uomo, un tempo solo “freddo, burbero, impaziente”. Visti inutili i tentativi di far cambiare l’apparente passività della figlia nei confronti d’un ambiente ostile e violento (ma forse quella sua forma di accettazione fatalistica degli eventi è l’unica possibile difesa di una donna bianca sola nella realtà rurale del dopo-apartheid), preso atto dell’impossibilità di ritornare ad essere quello che era, la metamorfosi del professor David inizia proprio dal contrappasso del dover assistere allo stupro subito dalla figlia ad opera di alcuni malviventi.

Col volto devastato dalle ferite infertegli dagli aggressori, l’ex seduttore si trasforma quindi in una sorta di barbone senza grazia né fascino. Ancora, da accademico diviene un paria, avendo deciso di occuparsi del lavoro più umile e ingrato: becchino di cadaveri di cani eliminati da una clinica veterinaria. Eppure, proprio una volta raggiunto il punto più infimo della scala sociale, ci sembra finalmente scorgere in David un barlume di empatia per la sofferenza degli esseri situati ad uno scalino ancor più basso del suo: quello animale. Così, pur non avendo ben del tutto chiaro cosa gli stia capitando, o quale siano la profondità e il senso della sua metamorfosi, David prova per la prima volta in vita sua un sentimento autentico per quelle bestie, di cui si fa “psicopompo”, e durante l’ennesima esecuzione egli si sente ormai pronto a dar loro, sotto forma di una carezza o di uno sguardo rassicurante prima della iniezione mortale, quello che “non ha difficoltà a chiamare con il suo vero nome: amore”.

Mi rendo conto che gran parte di questo articolo non è che il sunto, l’esposizione a grandi linee di una vicenda tanto scarna quanto coinvolgente. Diceva pur Grazia Cerchi che senza riassunto non si dà recensione di un libro, ma non è questo il motivo. A rifletterci, sono stato indotto ad occuparmi principalmente della trama di “Vergogna” per una serie di cogentissimi motivi. In primo luogo perché questo è un romanzo come si deve, essendo costituito essenzialmente dalla pregnanza del racconto, della storia narrata. In secondo luogo perché Coetzee è così bravo da risolvere tutto - riflessioni, tematiche, stilemi compositivi - nella narrazione medesima. Infine perché, appunto, a prescindere da tale materia narrativa c’è poco spazio (anche da parte del critico) per ambiti che eccedano la lettera del romanzo e la sua storia, oltre la quale sembra di non potere osare dir altro.

Ultimo paradosso, per concludere. Pur essendo allusiva; pur suscitando in me la voglia di colmare gli spazi bianchi che la pagina apre ad ogni chiusa di capitolo, la prosa scarna di “Vergogna” contagia chi legge nella ritrosia alla facile interpretazione (e alla fin fine al moralismo) fatta propria dal protagonista e passata, attraverso il complice testimone della parola scritta, al lettore.


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