Luigi
Stifani: la musica e il personaggio
Sandro Portelli con Chiara Lico
“Tutte le tarantolate che ho curato musicalmente col violino,
coll’organetto (...) le ho guarite con la terapia della musica.
Dall’età di quattordici anni (...) ne ho guarite oltre una
cinquantina”. Luigi Stifani un po’ racconta e un po’ recita di
fronte alle telecamere dirette da Edoardo Winspeare nel documentario
“San Paolo e la taranta”. E' il 1991. Nelle sequenze che si
avvicendano e che ci regalano il suo autoritratto, Stifani parla in
dialetto e gesticola per spiegarsi, ha baffi scuri e un paio di
occhiali poggiati sul naso. Accanto, il violino. Che tiene ora sulla
spalla, ora in mano, così, giusto per il contatto.
Nove anni dopo, il 28 giugno, quel barbiere, musico e taumaturgo
muore. Ironia della sorte: proprio nel giorno della festa di San Paolo
a Galatina, quello in cui le sue tarantate guarivano.
A raccontare di lui e del confine sottile che separa la parola
scritta da quella parlata è oggi il suo diario, che non è una
collezione di memorie e non racconta storie, ma è piuttosto un
taccuino di viaggio e una rubrica musicale, un promemoria per non
dimenticare e uno stralcio di vita solo sua, dove ci sono i testi
delle sue canzoni, gli spartiti con le sue note, il suo metodo di
scrittura musicale e le storie delle donne che lui ha fatto ballare
fino allo sfinimento, fino alla rinascita.
In “Io al santo ci credo”, curato per le Edizioni Aramirè da
Luigi Chiriatti, Maurizio Nocera, Roberto Raheli e Sergio Torsello,
“Stifani si mette al confine fra oralità e scrittura (...) e se le
sue scritture (biografica e musicale) sono mediazioni che mettono in
comunicazione la scrittura e il suono, la sua musica è una mediazione
che mette in comunicazione il suono con il corpo e il corpo con se
stesso”.
A definire con queste parole il “diario” e a raccontarci
quest’uomo, la sua musica e la sua rilevanza oggi è Sandro
Portelli, autore dell’introduzione al volume.
Professor Portelli, perché editare un libro come questo?
Perché molti artisti e molti operatori culturali hanno voluto
ribadire la loro identità attraverso la tradizione orale e dal forte
attaccamento alla musica. Recuperare Stifani significa, in questo
senso, recuperare le proprie origini.
Che cosa ha sentito il bisogno di far conoscere: la musica o il
personaggio?
L’una e l’altro. Stifani era un musicista particolare, che della
musica si è servito per guarire dal tarantismo. E' impossibile,
quindi, scindere i due: perché un personaggio consapevole come lui si
è costruito grazie alla musica.
Stifani è in bilico “tra oralità e scrittura”. Appartiene più
all’una o all’altra?
Nell’oralità, Stifani è a casa sua. E' un musicista che
appartiene alla tradizione popolare, quindi verbale. Ma per paradosso,
il suo fascino è nell’aver voluto fissare con e nella scrittura i
suoi saperi di estrazione orale. La sua grafia è quella di un
irregolare. E allo stesso tempo è particolare il suo modo di creare
musica.
Dunque, Stifani è al confine...
Un confine è un non-luogo, è come l’esilio. Per gli scrittori,
in particolare, l’allontanamento è l’unica possibilità per
creare. Nel caso di Stifani, la casa era il Salento. Lui decide di
spostarsene culturalmente, e nel momento stesso in cui decide di
allontanarsi dalle sue radici, gli è possibile entrare nella
scrittura. Per uno strano capovolgimento dell’ottica, ecco che lui
diventa il nostro maestro, colui che rende accessibile a noi
"ignoranti" la cultura orale.
Perché Stifani ha voluto mettere per iscritto il suo mondo,
rischiando così di mescolare i codici della comunicazione?
Quello della contaminazione non è un rischio. Piuttosto, Stifani
è consapevole di essere un intellettuale. Quindi, scrive per
ricordare con più facilità, per rappresentare se stesso, la propria
biografia. Scrive per comunicare. Ecco perché diviene una figura alla
quale gli antropologhi chiedono conferma.
Stifani fa appello a un modo di scrittura suo proprio. Lei come lo
definirebbe, tenendo conto del fatto che definirlo significa
inscriverlo?
La “scrittura popolare”, alla quale appartengono ad esempio i
diari dei soldati o le lettere degli immigrati, è un fenomeno
ampiamente dibattuto dagli studiosi. Anche quella di Stifani è
un’autobiografia del mondo popolare. Il suo fascino, però, nasce
dal fatto che lui si trova vicino a due grammatiche: quella
dell’oralità, con l'uso del dialetto, e quella normativa. Ne nasce
è un grammatica ibrida che oscilla tra le due dimensioni.
Portelli, lei fa riferimento a
Boas per dire che bisogna distinguere tra "informatori" e
"portatori di fatti". E poi afferma che Stifani sarebbe un
pessimo informatore.
Boas sottovalutava il fatto che gli esseri umani possono
interpretare la loro esperienza. E Stifani fa esattamente questo:
riferisce le sue interpretazioni.
Che cosa rappresenta la musica
per Stifani?
Anzitutto, un mestiere, perché appartiene alla cultura artigiana.
Quella, per intenderci, in cui l’attività che si svolge deve
fondere al suo interno la competenza tecnica, la fonte di reddito e il
ruolo sociale che ne deriva. Parallelamente, però, la musica è stata
per lui anche una fonte d’espressione, un modo per rendersi
visibile.
Se Stifani dovesse scrivere la
propria autobiografia , la scriverebbe in musica o a parole?
La sua vita è raccontata implicitamente nella musica, nel senso
che Stifani si è rappresentato musicalmente nei luoghi e nei tempi
creati dalle note del suo violino.
Perché Stifani e il suo mondo
sono interessanti in questo momento?
Per molte ragioni. La prima è che il Salento sente fortemente le sue
radici, pur se non in modo esclusivo o autoreferenziale. Basti pensare
a come questa regione si sia posta di fronte al fenomeno
dell’immigrazione. In secondo luogo, c’è un forte revival della
musica, da quella popolare a band come i Sud Sound System. Stifani
stesso è un fenomeno all'interno della cultura popolare.
Stifani viene ascoltato dai
veentenni e dai cinquantenni. Che cosa racconta un personaggio come
lui a generazioni tanto lontane e diverse?
Ai ventenni e ai trentenni spiega una tematica, quella della trance
rituale, che molti studiosi hanno rintracciato nelle culture del sud
del mondo e in quelle giovanili. Al cinquantenne, invece, racconta le
trasformazioni culturali del proprio paese: come l’Italia si sia
tirata fuori dall’analfabetismo, dalla povertà.
Stifani, in sintesi, è l’autobiografia di una generazione.
Il "diario" è stato
presentato a Pisa a giugno e sarà presentato a Roma a settembre al
centro sociale "Villaggio globale". Perché un testo così
atipico può interessare i giovani che frequentano i centri sociali?
La musica popolare nei centri sociali riscuote sempre grande successo.
Si tratta di una musica semplice, che non chiede sofisticati apparati
tecnologici per essere seguita. E' fortemente socializzante. Nei
centri sociali, in particolare, diminuisce la distanza tra artista e
pubblico. E poi, la musica popolare è un territorio "altro"
che nei centri sociali trova la sua zona franca, libera.
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