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Il cuore di Carla


Robert Katz

La notte del 24 marzo 1944 l’alto comando tedesco nella Roma occupata dai nazisti emise un comunicato che annunciava l’esecuzione di 320 «comunisti-badogliani» come rappresaglia per l’attacco partigiano in via Rasella avvenuto il giorno prima. I corpi di quelli che si scoprì essere non 320 «criminali» ma 335 uomini e ragazzi innocenti erano ancora caldi, nelle Fosse Ardeatine, quando, poche ore più tardi, L’Osservatore Romano pubblicò la notizia, come fece la maggior parte dei quotidiani italiani; ma ciò che causò una enorme e duratura differenza fu il suo commento appassionato su quelli che chiamò «i fatti di via Rasella». «Profondamente addolorato» da tale massacro ed esprimendo condanna sia contro l’attacco - in cui furono uccisi 33 soldati di un battaglione delle SS - sia contro la rappresaglia, l’Osservatore continuò comunque a gettare il biasimo sui soli partigiani. Le vittime dei nazisti, diceva, erano state «sacrificate per i colpevoli sfuggiti all’arresto».

Così, suggerendo che i partigiani, evitando la cattura, erano stati la causa del massacro alle Fosse Ardeatine il Vaticano, in modo certamente imprevedibile, divenne il primo a diffondere quel virus che crebbe fino a diventare un infinito esercizio del revisionismo storico, esercizio che si sarebbe andato moltiplicando in modo caotico, assumendo connotazioni ancora più sinistre nel resto del secolo e facendosi strada, sia detto tra parentesi, persino in Internet, dove oggi si può leggere, per esempio, che «I Nazisti chiedono ai colpevoli di consegnarsi pena l’applicazione dell’1 X 10. Nessuno si fa avanti. Risultato: 335 morti italiani e, a guerra terminata, una decorazione al valore militare per il drappello Partigiano».

Abbiamo qui il cyber-paradigma della falsificazione più insidiosa di tutte, la più difficile da eliminare benché la più semplice da dimostrare falsa: che i tedeschi, prima di massacrare 335 romani, avessero rivolto un appello ai partigiani di Via Rasella perché si consegnassero, così che le vittime innocenti potessero essere risparmiate. Questa bufala perdurante, più radicata che mai, resta largamente creduta in tutta Italia e ovunque si sia al corrente del fatto. Il suo promulgatore più autorevole negli ultimi anni è stato Indro Montanelli, che all’epoca del recente processo Priebke affermò categoricamente che «la rappresaglia avvenne perché i responsabili di via Rasella non si presentarono». È semplice dimostrarne l’infondatezza, ho detto, grazie alla testimonianza giurata, nei processi del dopoguerra, dei responsabili che perpetrarono il massacro, il colonnello delle SS Herbert Kappler e il Feldmaresciallo Albert Kesselring. Interrogato dalla corte che gli domandava se avesse emesso un appello in tal senso, Kappler replicò che non aveva l’autorità per farlo, e Kesselring, che aveva autorità assoluta, rispose all’identica domanda: «No, non lo feci». Eppure, circa cinquant’anni dopo, all’epoca del processo Priebke, ci fu chi continuò a farsi avanti e ad affermare non solo di aver udito appelli di questo genere con le proprie orecchie, ma di aver visto con i propri occhi i manifesti sui muri di Roma che preannunciavano una fantomatica «legge di ferro» su rappresaglie in ragione di uno a dieci.

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Contro questo scenario distorto, Carla Capponi, l’unica donna nel gruppo dei dieci giovani partigiani che parteciparono direttamente all’attacco di Via Rasella, ha finalmente pubblicato le sue importanti e leggibilissime memorie della resistenza romana, Con cuore di donna (Il Saggiatore). Compiuti da poco gli ottanta anni, Carla Capponi aveva deciso per la prima volta di registrare i suoi ricordi poco dopo la liberazione di Roma, quando si trovò costretta a una lunga convalescenza in seguito agli insalubri effetti del doppio incubo, l’occupazione nazista e la vita in clandestinità, dove mangiare quattro giorni su sette era la norma. Finita nel «più brutto sanatorio d’Italia», si impegnò immediatamente in una battaglia per ottenere condizioni migliori per i pazienti, partecipando a proteste e scioperi della fame, e i suoi progetti di scrittura furono rimandati a tempi meno turbolenti.

Questi tempi tardarono a venire, e dopo una densa carriera di attivista politica, deputata del Parlamento e consigliere comunale a Roma, finalmente, in quello che lei definisce il secondo tempo della vita («quello della vecchiaia, che precipita rapidamente») si accinse a scrivere, scagliandosi contro l’ondata revisionista perché, dice, i ricordi non registrati consentono agli altri di manipolarli. «Le vicende vissute - scrive - non mi consentivano che si potesse lasciarle all’arbitrio dei nemici di un tempo». Era passato ormai oltre mezzo secolo, ma nessuno deve dubitare della capacità di Carla Capponi di ricordare. I suoi ricordi sono almeno altrettanto vividi di quanto erano 35 anni fa quando, dietro mia richiesta, Carla radunò i partigiani di Via Rasella nel famoso appartamento di sua madre al Foro Traiano - che durante la guerra aveva svolto le funzioni di una sorta di santuario antifascista per tante anime perseguitate - e per la prima volta dal 1944 avevano ricostruito nei minimi dettagli i diversi ruoli individuali ricoperti nell’attacco, quel che ognuno aveva detto e pensato e come ognuno si era sentito, ciò che era accaduto prima e ciò che accadde dopo. (In vista dell’infaticabile lavoro dei revisori della storia, sembra importante aggiungere che nelle 20 edizioni di Morte a Roma, pubblicato in tutto il mondo in oltre tre decenni, nell’inarrestabile fluire delle nuove «rivelazioni» non ho mai dovuto cambiare una sola parola di tale ricostruzione).

Con cuore di donna è, naturalmente, molto più della storia di Via Rasella. E' lo straordinario viaggio di una donna del XX secolo, dalla fanciullezza borghese al riparo - o almeno così sembrava - dalla terribile esperienza fascista, fino al momento in cui, su un autobus affollato, Carla ruba la pistola di una guardia repubblichina, pistola che in seguito sarebbe stata puntata contro l’implacabile nemico e punto di non ritorno. Era un giorno d’estate del 1933 quando suo padre, silenziosamente antifascista, la schiaffeggiò nell’apprendere che Carla aveva partecipato a una gara di nuoto sponsorizzata dal regime - quell’unica volta in cui il padre la colpì, e in un momento tanto decisivo, aprì i suoi occhi di quattordicenne all’intima sofferenza del genitore, un silenzio imposto dal timore di perdere i mezzi di sussistenza che aveva corroso la sua autostima.

Ed era un giorno d’estate dieci anni dopo, l’8 settembre, quando partecipò alla battaglia di Porta San Paolo per opporsi ai carri armati tedeschi che si aprivano la strada per entrare a Roma. «Io vado!», disse alla madre vedendo i civili armati accorrere in aiuto dell’esercito italiano sconfitto. «Ma sei matta!» gridò la madre, «Ma che ci va a fare una donna?». Così iniziò l’occupazione, durata nove mesi, della cosiddetta Città Aperta e l’essenza dei suoi ricordi: la formazione dei Gap (Gruppi di azione patriottica), un’organizzazione della resistenza, lo sviluppo di una strategia per rendere Roma ingestibile per i tedeschi e infine i combattimenti nelle strade della città occupata, un tempo di passione, sangue, tradimenti - e amore.

Come autrice, la Capponi apre il cuore della donna del titolo. Avrebbe voluto che il suo libro fungesse in un certo senso da interfaccia tra la gioventù della sua generazione e quella di oggi. Teme che il mondo con cui i giovani si confrontano quotidianamente, così cambiato - e sotto certi aspetti non meno violento e terribile di quello dei suoi tempi - possa sminuire la percezione della realtà della sua esperienza, e di conseguenza il valore di quanti hanno sacrificato la propria vita per la libertà del paese. «Le nostre storie - osserva - la nostra realtà, che noi crediamo tremenda e irripetibile, potrebbe deluderli e lasciarli spesso indifferenti, e talvolta essere perfino rifiutata». Non lo dice apertamente, ma sarebbe un peccato. I suoi nemici, sconfitti sul campo di battaglia, ma che hanno ripreso le armi del revisionismo storico, alla fine avrebbero vinto.

(Traduzione di Anna Tagliavini)

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