| Raccontare, per ritrovarsi donna    
         
        Fabrizia Ramondino con Tina Cosmai  
         
          
        "Passaggio a Trieste" , ultimo romanzo di Fabrizia Ramondino (Einaudi), è la
        storia di un viaggio allinterno del Centro Donna Salute Mentale di Trieste, dove si
        continua lopera coraggiosa di Franco Basaglia, iniziata oltre ventanni fa, per
        superare sempre di più il confine tra normalità e follia. Confine che la Ramondino
        supera ampiamente attraverso la narrazione di coloro che vivono un particolare tipo di
        sofferenza, quella psichica, spirituale. Il racconto diviene il mezzo più semplice e
        tenace per affermare lunicità del dolore e la ribellione ad ogni tipo di
        classificazione dellemozione.  
         
        Un romanzo-diario, in cui lautrice si trova a contatto con le proprie fragilità, in
        cui mette a nudo i suoi più intimi disagi, cominciando così un percorso che la porta a
        riconoscersi donna tra le donne. Un ruolo, quello femminile, che la Ramondino aveva
        vissuto con ostilità e colpa nel corso della sua vita e con il quale ora si sente
        riconciliata. Al Centro Donna di via Gambini a Trieste non cè soltanto sofferenza,
        ma anche entusiasmo, profonda umanità, apertura a tutto ciò che è diverso, condivisione
        del dolore. Una grande solidarietà tra donne, che narrando le loro storie ritrovano e
        aiutano a ritrovare identità perdute. 
         
        "Passaggio a Trieste" è unopera singolare rispetto ai suoi
        precedenti scritti?  
         
        Non credo che sia così singolare. Il mio primo libro, uscito nel 1977, dal titolo
        "Napoli disoccupati e organizzati. I protagonisti raccontano", è una storia di
        disoccupati che si organizzano a Napoli dal 1973, appena dopo la fine dellepidemia
        di colera, al 1977. E anche "LIsola dei bambini" narra di esperienze
        vissute con i bambini dei vicoli di Napoli negli anni Sessanta. Quindi direi che non è
        lunico libro, allinterno dei miei lavori, con questa struttura narrativa.
        Quello di cantastorie è un ruolo che ho vissuto sempre, perché ho sempre sentito che
        "ogni uomo dovrebbe raccontare la propria storia", come diceva Savinio. E
        ovvio che raccontando gli altri, si racconta anche e sempre se stessi. 
         
        Il primo capitolo del suo romanzo ha un titolo specifico: "La mia
        Trieste", a differenza degli altri che hanno la medesima intestazione:"Diario di
        bordo". Perché? 
         
        Trieste è mia perché è come la vedo io. Tutto ciò che scrivo è parte originale del
        mio io. E il mio punto di vista, non esiste un punto di vista oggettivo. 
          
         
        Lei parla di un "passaggio". Qual è il significato di questa
        transizione? 
         
        Credo che la nostra vita sia un passaggio. Come i cantastorie di una volta, che
        viaggiavano da una città allaltra, sento di essere di passaggio allinterno di
        un romanzo, di un racconto. "Passaggio" vuol dire attraversare esperienze che ci
        formano, che ci fanno crescere, è un percorso esistenziale. Spesso mi hanno definita
        scrittrice napoletana, ma è una definizione che avverto con disagio, perché credo che
        uno scrittore non vada mai classificato, sarebbe come chiuderlo in un cassetto.  
         
        Io scrivo in lingua italiana, ed è la lingua che definisce lappartenenza di uno
        scrittore. Per me Trieste è legata allincontro con il Centro Donna, che è
        lunico Centro di Salute Mentale al mondo finanziato dallo stato e il cui personale
        è soltanto femminile; ed è legata alla mia amicizia con Assunta Signorelli, figlia
        spirituale di Franco Basaglia. Questa persona e il Centro mi hanno aiutato nella
        riconciliazione con la mia femminilità e dunque ad attuare un nuovo passaggio nella mia
        vita. 
         
        Perché ha opposto resistenza al suo essere femminile? 
         
        Ho fatto un grosso lavoro su me stessa per riconciliarmi con la mia femminilità. Non
        cè mai vera rivoluzione in un percorso, se non si parte da se stessi. Una
        riconciliazione avvenuta attraverso il contatto e lo stimolo intellettuale con le donne di
        Trieste. Un rapporto di solidarietà, di amicizia, che mi ha fatto comprendere la
        validità empirica di affermare la differenza sessuale. Qualcosa che non fosse più
        soltanto teorico, ma vivibile, praticabile in pieno. Essere donna insomma. 
         
        Allora questa pacificazione è stata anzitutto unaffermazione forte,
        importante. 
         
        In me cè stata, nelladolescenza soprattutto, una rottura con la femminilità
        tradizionale, perché le attività intellettuali che ho sviluppato sin da giovanissima,
        rappresentano una rottura con il modello tradizionale. Tutto ciò lho vissuto con
        colpa, anche se poi ho riconosciuto a me stessa la ribellione alla società patriarcale,
        al dominio dei maschi, accettando così la mia peculiarità nellessere donna. Quindi
        si, parlerei di affermazione, di conquista di una parità. 
         
        Il conflitto sempre vivo tra normalità e follia, in "Passaggio a
        Trieste" è superato proprio nella narrazione delle storie, come se esse
        affievolissero le varie classificazioni diagnostiche
 
         
        Non le affievoliscono, le eliminano. Anchio ho avuto la mia sofferenza psichica e so
        che catalogare le persone con termini quali schizofrenica o depressa è unoperazione
        di potere inutile e nociva. Questo non vuol dire negare la sofferenza mentale, ma
        confrontarsi con ogni singolo essere, con i suoi bisogni, le sue emozioni, quindi, con la
        storia personale di ognuno. 
         
        Cosè allora la follia? 
         
        Ci sono contesti definiti normali in cui la follia è presente, come la guerra ad esempio.
        Non è folle ammazzare migliaia di persone? Lumanità ha degli aspetti patologici
        gravissimi. Perché è normale ammazzare qualcuno in guerra, mentre diventa criminale
        ammazzarlo in tempo di pace? Per me questa è pura follia. 
         
        Questo suo romanzo è anche ricerca di unidentità lontana
        dallipocrisia. E nellaffermazione della propria umanità che ci si
        riconosce veri, senza maschere? 
         
        Noi non siamo mai senza maschere, diciamo che bisogna lottare per ridurre al minimo la
        nostra ipocrisia. Se non cè cognizione del dolore, della propria sofferenza
        psichica, del proprio disagio, non si può essere realmente realizzati come persone. Il
        dolore e la consapevolezza della morte, accompagnano la vita. Questo è fondamentale. 
         
        Lei ha scritto che la sofferenza non è condivisibile né narrabile, ma che però le si
        può stare accanto, abbracciarla. Ce ne parli. 
         
        Tutti gli uomini tendono ad incontrarsi nel desiderio del bene, ma nessuno desidera la
        sofferenza e su questo non ci si incontra. Non si può allora comprendere il dolore
        altrui, ma incontrarlo, stare vicino a colui che soffre, accudirlo, insomma, condividere
        la sofferenza. In fondo non cè nulla da capire al mondo, ciò che conta è
        compromettersi nel mondo. 
         
        Esiste dunque un rischio nel parlare della sofferenza, che è quello di teorizzare
        il dolore, lemozione? 
         
        Si, è lerrore che fanno alcuni psichiatri, quello di classificare le persone,
        facendo così scomparire la singolarità, lunicità di ognuno e dunque la sua
        storia. 
         
        Cosa le ha dato questesperienza vissuta al Centro Donna di Trieste? 
         
        Mi ha dato tantissimo. Il legame con queste donne mi ha insegnato a prendermi cura di me
        stessa e dei miei problemi. 
         
         
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