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La recita di Bolzano


Francesco Roat

 

Apparso in patria nel 1940 dopo "L’eredità di Eszter" e prima di "Le braci" - opera che molti considerano il capolavoro di Sándor Márai - il romanzo "La recita di Bolzano" (Adelphi) rappresenta un’ulteriore variazione sul tema dei rapporti affettivi all’insegna di ambiguità e conflitti che tanto appassionarono questo grande autore ungherese, navigato analista di triangoli sentimentali o relazioni sempre in bilico fra amore/odio, attrazione/ripulsa.

Primo attore della recita è nientemeno che il rubacuori settecentesco per eccellenza, ossia Giacomo Casanova, appena evaso dai Piombi di Venezia e rifugiatosi oltre i confini della Serenissima a Bolzano. Quantunque sia un seduttore in disarmo - invecchiato anzitempo, dal volto "cupo, sgraziato" e da un saturnino stato d’animo "abulico e malinconico" - quello che fa sosta alla Locanda del Cervo, riducendosi in mancanza di gentildonne a far la corte senza troppo entusiasmo a una fantesca sempliciotta. Ma una visita inattesa verrà a sconvolgere le giornate monotone in quella città così "seria e virtuosa".

Si tratta di un antico rivale in amore del cavaliere veneziano: l’anziano conte di Parma, marito della giovane Francesca di cui Casanova s’era invaghito qualche anno prima col risultato di venir coinvolto in un duello, ferito e scacciato dall’avversario. Il conte fa un’insolita proposta al suo squattrinato ospite. Visto che Francesca non ha mai smesso di pensare a Giacomo (lo conferma una lettera in cui la donna si mostra disponibile a incontrarlo), l’unico modo per farle passare l’infatuazione per l’avventuriero è di indurre questi - grazie alle minacce e a una ingente somma di denaro - a inscenare quella notte stessa una commedia in cui prima circuirà Francesca, per abbandonarla quindi bruscamente dopo averla sedotta.

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Casanova accetta, voglioso di sperimentare una volta ancora il gioco della conquista. Ma la recita di Bolzano avrà un finale assai diverso da quello che il conte Giacomo e la stessa Francesca si erano prefigurati. Un finale che, ovviamente, non è possibile svelare per non togliere la sorpresa ai lettori, ma che gli amanti di Márai possono invece immaginare, giacché, anche in questo romanzo tutto giocato sui dialoghi (anzi sull’alternarsi dei monologhi) fra i protagonisti, il leitmotiv - oltre a quello allegorico della maschera, cioé della costrizione a recitare un ruolo artefatto - sta nel rimpianto per ciò che non si è vissuto o voluto vivere; il tema dominante è quello del passato che torna a chiedere il saldo di un conto lasciato in sospeso ma che non può venire liquidato ("è molto più difficile sfuggire a un sentimento lasciato in sospeso che evadere di notte dai Piombi").

Nonostante la prima parte del libro, giocato sul registro un po’ melodrammatico da opera buffa, sia a tratti enfatica e sin troppo teatrale, basterebbe da sola la disamina acutissima da parte del conte sui meccanismi emozionali che la lettera di sua moglie a Casanova rivela, per fare della "Recita" un piccolo capolavoro intorno a un micidiale ma inossidabile rapporto a tre, in quanto in queste modalità relazionali alla Márai il triangolo è condizione sine qua non, la condizione che permette non vi sia possibilità di uscita dallo stallo, non vi sia vera scelta, vera presa di posizione. In questo sono autenticamente inautentici tutti i vinti di Márai; nel senso che alla fin fine si svelano impietosamente per quello che sono. E in ciò sta il loro castigo: non essere in grado di liberarsi del tutto dai falsi legami, che tuttavia servono appunto a questo: a mai risolversi, a mai voltar pagina, a non prendere partito una volta per tutte o, più semplicemente, a crescere.

C’è in loro una smania d’assolutezza e dedizione totale, rispetto all’amore, che è fatalmente destinata a non restare appagata. E’ forse questo il motivo che fa soffrire gli infelici protagonisti di Márai. Il non riuscire a tollerare la perdita affettiva o l’abbandono, ai quali preferiscono l’estenuazione di perpetuare/tollerare un vincolo sempre illusorio e castrante; ad onta di tutte le razionalizzazioni, di tutti i ragionamenti e i buoni propositi che essi dichiarano senza decidersi a realizzarli. Sarà che - dice bene Francesca -, le parole "danno soltanto un nome ai segreti degli uomini e li rivelano, però non li risolvono affatto".

 

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