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L’arte, un percorso di luce


Tina Cosmai

 

Un percorso lungo un giorno che parte dal buio della notte, attraversa le sonore luci del giorno e ritorna alla dolce oscurità del crepuscolo. Una donna che si aggrappa al corpo della sua bambina - condividono lo stesso letto nell’oscurità enigmatica di una notte in Corsica, terra di roccia e di passione. Questo lo scenario dell’opera di Antonella Anedda "La luce delle cose" (Feltrinelli), un viaggio attraverso i simboli e le metafore dell’arte, attraverso l’ambiguità dell’anima di una donna che ricerca uno spazio, un luogo di senso per la propria esistenza.

Il tempo e lo spazio sono i due elementi primari di questo percorso ontologico che attinge significato dalle fonti artistiche più varie, dalla scrittura alla poesia alla pittura. Tempo e spazio sono vissuti nella consapevolezza quasi angosciosa che il tempo scorra come una linea retta senza interruzioni di senso e che lo spazio possa essere vissuto come luogo vacuo, come nulla infinito.

L’arte, nelle sue varie espressioni, è per l’Anedda il tentativo di dare luce all’esistenza, lo sprofondare nel buio dell’ambiguità per risalire poi, verso la luce della verità. Un cammino vertiginoso che l’autrice vive come distanza abissale, come un qualcosa di estremamente alto, che pone il corpo in condizioni di disagio: "La voce che dal corpo si solleva non colma la distanza, la corrompe. Sogno un linguaggio capace di dire io senza l’invadenza dell’io".

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Senza l’invadenza di un pensiero che neghi il desiderio e l’ambivalenza del desiderio stesso. Desiderio che nasce sempre da un luogo, e l’Anedda ritorna ai luoghi primari, come il ventre materno, nella visione del dipinto di Lorenzo Lotto "Annunciazione". La Vergine è spaventata dal sentirsi pervasa da una tale forza divina e la morte incombe, perché da quell’utero fecondo si arriverà al Calvario, come se la vita, anche nell’attimo della sua realizzazione, recasse in grembo la morte. Morte di passione, di emozione, di intensità che sgorga viva dall’io, morte del significato irruento dell’esistenza.

Un itinerario temporale verso la morte, senza possibilità alcuna di vivere lo spazio emotivo e vitale al suo interno. E nella notte che della morte è simbolo l’Anedda riprende i pensieri di Kierkegaard, la distanza d’amore imposta tra lui e Regina; la speranza di Marina Cvetaeva che definisce la passione come "l’ultima possibilità per l’essere umano di esprimersi". Celine che decanta la fisicità dell’amore come antidoto alla morte, nell’illusione concreta che il cammino verso di essa rallenti, quasi si sfaldi.

La scrittura, per l’Anedda, riempie quello spazio nullificato di senso, di valore. Le cose descritte si ingigantiscono, ampliano il loro orizzonte di semplicità materiale; è uno sguardo che va al di là di esse, per coglierne quel significato più grande che dà luce ad uno spazio dove la vita è possibile, sempre. L’autrice si avvicina a S.Agostino e al suo desiderio di confessione, interpretandolo come scoperta dell’anima che si pone "alla presenza di se stessa in assoluta nudità", abbagliata dunque, dalla luce profonda dello spirito. Ma la nudità, la verità, è anche ombra e confessare, parlare, è dare voce a quest’ombra che rappresenta un’esistenza indistinta, molteplice. Per l’Anedda, come per Celan, il vero non è il bello e l’arte vera è espressione di questa tonalità sfumata della vita.

Il passaggio dalla notte al mattino segna la rivelazione del desiderio; la luce, con la sua forza dirompente, illumina il desiderio, ma lo uccide anche. Così Giulietta vede andar via Romeo nel timido bagliore dell’alba, si separa da lei in una luminosità che basta a se stessa, che non ha più bisogno d’esser alimentata dalle tenebre. Ormai il desiderio è venuto al mondo e la nascita reca sempre in sé la morte.

Solo l’arte è capace di eternità, nell’ascolto continuo dell’anima e della natura. L’arte è percezione, nella solitudine del poeta, del senso del destino, l’oltre di una voce, quella dell’artista, che ha saputo ascoltarsi, che ha saputo accogliere la vita, travalicando ogni insufficienza temporale e spaziale. Questa, per l’Anedda, è la vera luce, il solitario ascolto dell’immanenza.


 

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