Estensione del dominio della lotta
Francesco Roat
Riesce a rendersi antipatico al lettore fin dalle prime righe il protagonista del
romanzo di Michel Houellebecq "Estensione del dominio della lotta" (Bompiani).
Si tratta di un trentenne, analista-programmatore presso una società di servizi
informatici, che fa di tutto per apparire veramente (provocatoriamente) sgradevole -
misogino e misantropo, ipercritico e arrogante comè - per non parlare delle sue
ansie, insoddisfazioni sessual-esistenziali e dei frequenti "attacchi di
depressione" che lo fanno e ci fanno soffrire lungo tutte le 152 pagine del libro.
Un testo ambizioso e sentenzioso quasi quanto colui che lo racconta in prima persona, come
enfatizza il risvolto di copertina definendo "Estensione del dominio della
lotta" "stupefacente", e chiamandolo "romanzo epocale" intorno a
un mondo contrassegnato dal dilagare di noia e indifferenza. Tra i recensori entusiasti,
Xavier Lloveras sè lasciato andare a un accostamento fra Houellebecq e Kafka e
Tibor Fischer ha paragonato il romanzo a "Lo straniero" di Camus.
A mio avviso sarei più prudente in certi accostamenti con i classici, a meno che non ci
si voglia riferire a un certo climax esistenzialista alla Sartre e alla Camus suggerito
dalle pagine più asciutte di questo anti-romanzo di formazione: vero e proprio breviario
per una pessimistica filosofia della non-vita.

Resta che "la percezione della vacuità universale" che testimonia lio
narrante di Houellebecq si riduce ad un imbellettamento speculativo allinsegna di un
nichilismo desolante ancor più che desolato. E quando si leggono sentenze come: "La
struttura del mondo è dolorosa, inadeguata; non la vedo modificabile", viene il
sospetto che dietro la facciata di tali pronunciamenti definitivi ci sia davvero una
vacuità, ma di invenzione narrativa, e ci si trovi di fronte ad una già troppe volte
sperimentata letteratura della crisi e del disagio che si risolve nella lamentazione fine
a se stessa e in un monologare neobarocco che si avvita su di sé nella sterile
reiterazione del proprio scontento e che nulla sa offrire di significativo al lettore al
di là di un esercizio di stile pretestuosamente narcisista.
Non per nulla è il tema della morte a imporsi con insistenza nel piatto deserto del mondo
abitato dalle monadi solitarie e infelici di Houellebecq. Il pensiero sulla morte:
alternante fra i due poli solo allapparenza opposti di fatalità angosciosa e
rimedio estremo al malessere esistenziale. Come non è casuale il consiglio dato dal
protagonista a un collega, forse ancora più di lui frustrato e schifato: "Stasera
potrai lanciarti nella carriera di assassino; credimi, amico mio, è lultima
possibilità che ti resta". Se poi non si ha il coraggio nemmeno per mettere fine ai
propri giorni, resta pur sempre la carta dellalienazione, della pazzia in cui
scivola il nostro apatico trentenne. ("Sono al centro del baratro
Limpressione di scissione è totale
lo scopo della vita è mancato").
Così il circolo perfetto dellinsensatezza si chiude in una resa alla follia quale
non-chance. Ma se è vero - come la psichiatria insegna - che ogni devianza mentale, ogni
sragione ha la sua logica sia pure aberrante, varrebbe magari la pena tentare di
esplorarla o suggerirne il disegno. Invece Houellebecq, fedele al suo disimpegno
programmatico, non cerca né vuole indagarla limitandosi a dire, intorno a un gruppo di
"depressi e angosciati", di come essi alla fin fine "molto semplicemente,
avessero bisogno damore".
Che la chiave di lettura di tanta desolazione stia tutta qui?
Vi e' piaciuto questo articolo?Avete dei commenti
da fare? Scriveteci il vostro punto di vista cliccando qui
Archivio libri |