Sulla felicità a oltranza
Francesco Roat
Quello della perdita rappresenta il tabù per antonomasia di questa nostra società
postmoderna, emotivamente così fragile, allinsegna dun narcisismo sfrenato
che trova indecoroso il declino di giovinezza e vigore, destabilizzante il venir meno di
qualsiasi rapporto emozionale significativo, intollerabile lidea stessa della morte,
della quale non si parla se non attraverso lesorcismo proiettivo di
spettacolarizzazioni o finzioni (cosa sono le immagini più truci di cronaca nera o i più
efferati omicidi al cinema o in TV, se non fotogrammi alla fin fine rassicuranti, perché
sempre e solo sulla fine altrui?).
Anche a livello letterario oggi risulta arduo misurarsi con temi come la perdita - o la
morte, che ne è la cifra estrema -, se non altro in quanto gli scrittori corrono il
rischio di scegliere il registro abusato della confessione/lamentazione o del
monologo/piagnisteo declinabile sulla falsariga di sin troppo facili psicologismi, quando
non preferiscano i filoni truculenti del pulp e del trash.
Va quindi salutata con entusiasmo luscita presso leditore Sellerio del
romanzo/cronaca dellesordiente Ugo Cornia "Sulla felicità a oltranza",
che intelligentemente evita di arenarsi in queste secche pur incentrando la narrazione
proprio sul racconto della scomparsa dei genitori e sullelaborazione del lutto ad
essa conseguente; senza alcun compiacimento autocommiseratorio però, nonostante tali
drammatici eventi comportino il peso di uno "sfacelo sulle spalle" e abbiano
"la virtù principale di sfracellarci la testa".
Cè un fatalismo buono, in questa cronistoria autobiografica intorno agli anni
cruciali in cui il nucleo più importante degli affetti familiari del protagonista viene
bruscamente a sgretolarsi con il decesso prima duna zia tenerissima, quindi della
madre e infine del padre. Ma è una sorta di fatalismo che sa di quasi religiosa
accettazione di quanto ha inevitabilmente da accadere, nonostante ciò capiti
allimprovviso fra capo e collo di un giovane che era stato "fino a ventisette
anni al riparo dalle tristezze".

Vi è un modo, che non sia la rimozione o limpietrirsi depressivo, per riconvocare i
trapassati e far retrocedere il tempo: ovvero il ricordo. Ed è assai fresca e
stilisticamente felice questa resurrezione fabulatoria dei cari estinti di Cornia, risolta
attraverso una prosa allapparenza colloquiale e dimessa, in realtà raffinatissima e
frutto di una scaltra abilità di scrittura. Come sono felici le sottili considerazioni
sullessere, un po tutti quanti, condizionati dai genitori, che - pur se morti
e sepolti - in un certo qual senso rivivono in noi in alcuni tratti somatici e
psicologici, frutto duna eredità che permane e si proietta verso le generazioni
future, quasi a consolazione dello stato di finitudine che ci affratella.
Cornia finisce per stemperare il dolore della perdita attraverso una pietas che non solo
è rievocazione e film mnemonico, ma diviene magicamente presenza. ("Il fatto
che mia madre, nonostante il fatto che si dovrebbe proprio dire che è morta
continua a stare nellaria di casa nostra, e può adesso stendersi e diffondersi
senza limiti, anche negli angoli, proprio come unaria o un liquido, è la tipica
cosa che forse qualcuno riuscirà a capire senza troppa fatica, e che io chiamo una bella
cosa").
Così è una felicità ad oltranza che il protagonista si trova a sperimentare nonostante
o, paradossalmente, "grazie" al lutto, quando lui vive la dimensione del tempo
ritrovato, mentre gli capita di intravedere con la coda dellocchio cari fantasmi che
gli consentono di rimanere "a penzoloni sulla linea che passa tra laldiqua e
laldilà". Ed è davvero insolita nel nostro panorama narrativo questa immagine
conciliata della morte come evento naturale e iscritto nella vita, dunque non
necessariamente esecrabile.
Cè solo un unico rimpianto al termine di questo inedito manualetto per essere
felici a oltranza. Non quello regressivo dellaver perso una persona o un rapporto,
bensì il sano rammarico di non aver compiuto o detto ciò che sarebbe stato spontaneo (e
quindi opportuno) dire o fare. Come lapprezzamento mai confessato dal protagonista
alla sua ragazza dun tempo: "Avrei voluto dirle - hai una faccia da miracolo
che una volta su due mi stupisce - invece giammai".
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