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231 giorni in galera


Alessandro Lanni

 

"Rileggendo quanto ho scritto per sopravvivere fino a ora - annota Paolo Severi - le parole che ricorrono di più sono: assurdo, paradossale, violenza". Noi aggiungiamo "libertà". "231 giorni" (Frontiera Editore) è un cammino individuale verso la libertà, scritto da Severi per restare aggrappato alla vita di fronte all'assurda, paradossale violenza che il carcere impone e che l'autore fronteggia e sconfigge impugnando la penna ogni giorno e mettendosi a scrivere.

Nel presentare Severi, Saverio Tutino lo inscrive nella categoria degli "scriventi", escludendolo, almeno per il momento, da quella ben più prestigiosa degli "scrittori". Non si tratta, va detto subito, di una valutazione, piuttosto di un imbarazzo di fronte a un libro che si fa fatica a definire, a inquadrare in un genere letterario. Saggio? Per quanto "231 giorni" abbia molto da dire e da insegnare sulla realtà carceraria nella nostra società, sulla varia umanità e la disperazione che popola le prigioni, non può essere inserito tra gli studi di sociologia o di antropologia. Romanzo? Certamente no, malgrado la narrazione e la lingua dell'autore raggiungano in certi passi un'alta espressività. E allora di che si tratta?

Di un diario. Uno dei 150/200 diari che ogni anno approdano a Pieve Santo Stefano, un paese dell'alta Valtiberina, dove ha sede dall'85 l'Archivio diaristico nazionale. Migliaia di pagine che "gente comune" tira fuori dal cassetto per farle leggere a qualcuno. Epistolari, raccolte di ricordi e di appunti scritti per un uso strettamente privato. E' tra queste storie personali che nasce "231 giorni".



I giorni che il titolo conta sono quelli trascorsi dall'autore nel carcere di R., città sulla riviera romagnola, non specificata, ma facilmente identificabile. Dopo più di tre anni passati in comunità a "Sanpa" (che sta per San Patrignano), il Severi viene tradotto in galera per una colpa non ben precisata. Qui inizia il viaggio intorno a una cella, testimonianza e cronaca di una delle esperienze più distruttive per un individuo e che quasi miracolosamente si conclude in maniera positiva.

Del libro, ciò che colpisce in primo luogo è la fotografia vivida della violenza multiforme della quale sono vittime e protagonisti i detenuti, in ogni attimo e in ogni angolo. Severi non si piange addosso, nessuna autocommiserazione nelle parole: è lucido nel riconoscere che il sopruso si instaura nel complesso dei rapporti interpersonali che si svolgono in carcere, non solo in quelli tra "guardie" e "ladri". Il tempo tra le mura del carcere è scandito dalla violenza: dell'istituzione, della burocrazia e tra i detenuti. A volte sottile, come nella figura della lentezza estenuante delle procedure all'interno del carcere (l'autore dovrà rimandare gli esami universitari perché i suoi libri con la copertina rigida non hanno ottenuto il nullaosta per entrare). Altre volte una violenza più esplicita, come quella dei secondini o delle squadre punitive di altri detenuti che regolano conti in sospeso servendosi dei coperchi delle scatole di tonno.

Di questa violenza, sottolinea l'autore, non ci si scandalizza mai abbastanza. Lui per primo. Tenere un diario significa allora non farsi schiacciare dalla violenza e dal degrado considerandoli come qualcosa di normale al quale bene o male bisogna abituarsi, come consigliano in molti "dentro". Significa cercare di aver le idee chiare sulla propria dignità, sui valori che si hanno a cuore e battersi per quelli con gli strumenti a disposizione, in questo caso carta, penna e qualche libro.

Le pagine di Severi non sono solo il resoconto, la traccia di quell'esperienza vissuta nel '96. Sono quell'esperienza di liberazione e di purificazione. Pagina dopo pagina, giorno dopo giorno non si leggono solo la narrazione e le riflessioni personali di un carcerato, ma si vive la resistenza e, diciamolo, la vittoria di un uomo che usa la scrittura, lo studio e la cultura come strumento ("rampino", scrive Severi) che lo porta a riveder le stelle dopo l'inferno della reclusione.

 

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