Di Platone si sa che amava olive e fichi
secchi. Kant pare aggiungesse la senape ad ogni alimento e andasse matto per il baccalà.
Ludwig Wittgenstein invece al cibo non s'interessava affatto, l'importante era che in
tavola trovasse sempre lo stesso piatto. Questo è quanto sappiamo del menu dei filosofi.
In effetti - e forse anche a ragione - non si conoscono le abitudini alimentari di molti
dei protagonisti della storia del pensiero umano. E non sarà, diciamolo subito, l'ultimo
saggio di Francesca Rigotti, "La filosofia in cucina. Piccola critica della ragion
culinaria" (il Mulino), a levare, a chi le avesse, queste curiosità.
Si tratta di un libro singolare, però. Se ne legge il titolo, si da una scorsa
all'indice, qualche pagina e si potrebbe concludere che si ha tra le mani un semplice
divertissement, una breve indagine erudita destinata a far fare bella figura in qualche
salotto buono. Non è così però. Con "La filosofia in cucina. Piccola critica della
ragion culinaria", più che sedersi a tavola, l'autrice spizzica qua e là nella
storia del pensiero, assaggiando un po' di tutto, dai protagonisti della Bibbia agli
Stoici, da Locke a Sartre. Si tratta di breve itinerario, scritto con stile piano e
accattivante, all'interno delle analogie esistenti tra le espressioni e l'universo
concettuale dell'arte culinaria e del sapere filosofico. L'autrice mette a tema
l'affinità, mai considerata fino in fondo, tra l'elaborazione del cibo e dei pensieri che
, illuminando - con una passione esplicita per entrambe le arti in questione - le
sotterranee, implicite relazioni che le collegano.

Su quali basi la Rigotti dice che "la parola è cibo, la conoscenza è
alimentazione, il sapere è sapore, la scrittura è cucina"? Ecco una risposta
possibile: "nella bocca si confondono la parola e i baci, da un lato, e, dall'altro,
il mangiare, il bere e lo sputare". Una frase di Hegel, lo stesso Hegel dell'Enciclopedia.
L'arte della preparazione del cibo e l'arte del pensiero s'incontrano in punta di lingua,
tra i denti. La bocca è il punto di contatto tra il dentro e il fuori, 'orifizio dal
quale i concetti e i pensieri escono allo scoperto e incontrano il mondo facendosi voce.
Al tempo stesso è il primo transito dei corpi, che ingurgitati e masticati si trasformano
in spirito. La bocca, sembra dire la Rigotti, è il punto di passaggio tra io e mondo
(altro che la ghiandola pineale di Cartesio!), tra alto e basso.
La bocca è per antica definizione veicolo del logos, è lo strumento con il
quale l'uomo si affranca dalla bestialità. Tuttavia c'è sempre il pericolo che possa
divenire anche il luogo nel quale si celebrano la vanità e il piacere: il piacere della
parola o quello del mangiare. Allora la bocca diviene teatro di colpa e di peccato (di
gola).
Affamati sì, ma di conoscenze, assetati certo, ma di sapere, ingordi
ovviamente, ma di ragionamenti. Così debbono rimanere i filosofi. A dieta. Su questo c'è
un accordo quasi unanime. E ai pochi che hanno provato a teorizzare i piaceri del corpo e
della tavola, mal ne incolse. Si pensi al caso di Epicuro, per esempio - un
"escluso" nella storia della filosofia - del quale ci è stata tramandata
un'immagine che lo rappresenta come un ingordo, ai limiti della bulimia, eternamente
votato a soddisfare gli istinti più bassi.
Alla dieta filosofica la Rigotti dedica il viaggio conclusivo, belle pagine nelle quali
s'incontrano Kierkegaard e la Bibbia, la Nausea di Sartre e i precetti kantiani.
Tutti, o quasi, impongono al filosofo a tavola misura, una misura specchio di una vita
equilibrata e condizione di possibilità per il pensiero e la logica di realizzarsi (con
lo stomaco ingolfato pare non si ragioni troppo bene). Bandire gli eccessi dalla propria
esistenza per il filosofo non significa l'ascesi: non deve infatti digiunare, eccesso
opposto e controproducente quanto l'ingordigia, ma osservare una certa temperanza
alimentare, una "dieta etica" - così la definisce l'autrice - che lo mantenga
in forma. E in linea. Per continuare la sua millenaria condotta morale irreprensibile.