Chiarori
Francesco Roat
Non è certo narrativa d'evasione o d'intrattenimento quella dello svedese Goran
Tunstrom, bensì una scrittura all'insegna di un'espressività forte, volta a
interrogarsi/ci su tematiche da far tremar le vene ai polsi, come il ruolo che in ogni
ambito esistenziale rappresentano l'amore o la sua assenza, la capacità o meno di far
fronte a lutti e perdite, il modo con cui affrontiamo o non affrontiamo le scelte cruciali
della nostra vita, viste da alcuni come un destino, da altri come una responsabilità.
E anche nell'ultimo suo libro tradotto in italiano, Chiarori (Iperborea), Tunstrom
persegue/prosegue questo scavo alla ricerca di una dimensione autentica a cui anelano un
po' tutti i suoi personaggi, sia pur sempre in bilico fra le inconciliabili contraddizioni
e ambiguità che agitano le loro anime inquiete. Non a caso l'avvio della narrazione è
segnata da una marcata ambivalenza che caratterizza l'animo dell'io narrante Pétur,
sospeso tra "la fede e il dubbio, il cosmo e il caos" nell'accingersi al compito
di tracciare la biografia paterna (che al contempo risulterà un'autobiografia) nel
tentativo di cogliere "la vita che è stata e che nella ricostruzione torna a
essere".
Ancora un romanzo di formazione/interrogazione intorno al senso o al nonsenso del
vivere, dunque, come scopriranno fin dalle prime pagine i lettori italiani che abbiano
già letto il capolavoro di questo assai poetico fabulatore-filosofo, l'Oratorio di
Natale, straordinario racconto sull'inestricabile intreccio di gioie e dolori che intesse
ogni vita e soprattutto sulla virtù - più ancora della musica, deuteragonista in sordina
pure di Chiarori - consolatoria e illuminante della parola, quando essa riesca nel
miracolo di organizzarsi in racconto; magari solo delle "ridicole cose che, nel loro
insieme, portano il nome di amore", come si augura di riuscire a fare il biografo
Pétur.
Tuttavia, rispetto all'Oratorio e ad altri testi ambientati solitamente nel
micro/macrocosmo narrativo di Sunne (cittadina svedese dove lo scrittore ha trascorso
l'infanzia), Chiarori è ambientato ancora più a Nord: in una fiabesca Islanda
reinventata e un poco da operetta - come osserva nell'ottima postfazione il traduttore
Fulvio Ferrari -, causa i suoi ministri che si divertono giocando a Scarabeo in cucina,
tra vescovi alticci, ambasciatori ladri di palloni e feste con bambini per trovare la
soluzione a crisi diplomatiche.
Ma accennare alla trama, o meglio alle intricate trame di questo variegato ordito di
vicende tragicomiche, basta e avanza; in quanto esse sono poi solo
l'occasione/ambientazione in cui si calano le biografie speculari dell'orfano di madre
Pétur e del suo stravagante babbo, incentrate appunto sul rapporto padre-figlio,
adulto-bambino. Quest'Islanda fantastica, quest'isola che non c'è, viene infatti colta
attraverso l'immaginario dell'io narrante fanciullo, fatalmente destinato a dover crescere
assistendo alla parallela, decadente regressione involutiva del genitore, fino a
sperimentare un totale ribaltamento dei ruoli che vedrà Pétur, finalmente uomo, farsi
carico di suo padre e questi, a seguito di una devastante senescenza, ritornare bambino.
Un passaggio di testimone che interviene all'interno della stessa narrazione, nel
momento in cui essa registra le disperate e disperanti lettere al figlio intorno alla
vecchiaia, la quale nella sua fragilità forse non rappresenta tanto il limite della umana
finitudine, sebbene - come ha scritto Sandra Petrignani - "la condizione umana nel
suo stato più autentico". Per questo i capitoli più intensi di Chiarori sono quelli
finali, dove ogni frase è essenziale e pregnante; pregna di emozioni, diresti, allorché
nella vicinanza della morte persino l'aria è "densa d'assenza" e tutto
"scivola via, si allontana, a velocità vertiginosa".
C'è un modo, però, di opporsi al venir meno ineluttabile, suggerisce Tunstrom.
Mediante la parola: l'invenzione poetica che è in grado non solo di evocare il passato
attraverso "un lavoro d'amore" ma di ricreare volta per volta il mondo; se è
vero che solo nell'assegnare dei nomi ad esso la sua realtà diviene veramente umana.
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