Il disonore dei padri Francesco Roat
Utilizza un artificio retorico assai scoperto Romana Petri nel suo libro di racconti
"I padri degli altri" (Marsilio), volto a mostrarci come i genitori non si
debbano comportare coi loro figli. Lescamotage consiste appunto nel rimarcare al
negativo tutta una serie di condotte paterne deprecabili, affinché si accentui nel
lettore la consapevolezza dellessenzialità di un ruolo genitoriale positivo.
Infatti, nonostante presenti storie atroci nellillustrarci un campionario di
padripadroni bruti, sadici e spregevoli, il libro di questa sensibilissima
scrittrice non è certo da rubricare alla voce narrativa trash o pulp, paradossalmente
risultando piuttosto un pudico breviario deducazione sentimentale: un testo
dolceamaro sugli affetti negati, su come gestire anche le emozioni più devastanti e
soprattutto sul primario bisogno damore che tutti accomuna.
Cè almeno da sperare che solo unesigua minoranza di padri si comporti come
quelli descritti dalla Petri: sempre pronti a tirar pugni e calci alla prole, a svalutare
i propri ragazzi demolendoli psicologicamente, per non parlare degli abusi sessuali.
Sebbene va rimarcato ancora qui non si tratta di fin troppo facili resoconti
dordinaria violenza sui minori (già bastano e avanzano le cronache dei giornali),
quanto dellabilità narrativa nel dar voce alle urgenze e al disagio dei figli
attraverso una lingua ricreata mediante un impasto di iperrealismo e fabula.
Una lingua fra il colloquiale, il gergo e unaulicità estremamente sorvegliata, a
rendere plausibili, fissandoli sulla pagina, limpalpabilità del desiderio e la
grevità dei corpi; a dire la fatica del vivere o lo stupore bambino per il miracolo
dun amore corrisposto; a registrare "le ore lente della vita e dei
silenzi": quelle per cui "non cè mai spazio nel racconto e invece ci sono
nella vita". Una lingua con cui riuscire a descrivere bassezze abissali e aberrazioni
criminali da Lager, senza alcun compiacimento o ammiccamento nei confronti dei gusti
horror di troppi lettori.

Ancora, è un linguaggio sensuale quello utilizzato dalla Petri, ma di una corporeità
(o meglio duna fisicità/aderenza alle sensazioni e alle cose) che lo rende franco,
autentico, essenziale. Si potrebbe obiettare: sono invenzioni. Se anche così fosse,
sarebbero invenzioni senza infingimenti o orpelli, nel loro darsi quali fabulazioni oneste,
che trovano lautenticità espressiva facendosi testimoni del disamore.
Ma forse il dramma più amaro delle storie di questi figli maltrattati, sta
nellincapacità, da parte del bambino, di concepire, prima ancora di tollerare, che
il padre non lo ami. Così quando non sia possibile la fuga, lallontanamento
concreto da tale intollerabile realtà familiare, si attua quella nellimmaginario,
che rischia la regressione o il potenziamento di legami patologici. Questo sottolinea
Romana Petri: per una sorta di razionalizzazione compensatrice, i figli offesi finiscono
per colpevolizzarsi ("se tanto era stato punito ben più grande doveva essere ciò
che aveva fatto lui di male per meritarlo") e legarsi ancora maggiormente al padre
carnefice.
A questo punto non resta che parlare delle mogli di tali mostri, "sempre a
testa china" e assenti due volte dai racconti; in quanto incapaci di opporsi ai
mariti e in quanto lasciate in un cantone dalla stessa narratrice, che dedica loro solo
qualche riga di rammarico e a volte di empatica commiserazione, essendo alla fin fine
vittime anchesse.
A onor del vero il libro presenta di sfuggita una figura di papà "bello e
coraggioso come un eroe di un romanzo davventure", nonché capace "di una
dolcezza materna, un padremadre", a riscattare tanti inetti. Ma questo è il
genitore della scrittrice, perbacco, mica I padri degli altri.
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