Israele, la guerra dalla finestra
Paola Casella
Eric Salerno, Israele, la guerra dalla finestra, Editori Riuniti,
pagg;190, Euro 10,00
La finestra dalla quale Eric Salerno osserva Israele non è solo
quella della casa di Gerusalemme dove il cronista-scrittore si è
trasferito dal 1994 prima come inviato speciale, poi come
corrispondente de Il Messaggero e della Radio Svizzera (ma
era già "in zona" dal '73). E' anche l'apertura mentale
di una pratica professionale decennale, di un'esperienza umana di
cittadino del mondo, nato a New York e vissuto in vari angoli del
globo. La curiosità di un osservatore attento e "impegnato a
capire", come scrive lo stesso Salerno, che vive ogni suo
percorso professionale come un iter di apprendimento personale,
anche interiore.
Se nel suo precedente romanzo, Rossi a Manhattan (recensito
su Caffè Europa), Salerno cercava le proprie radici al di
là dell'oceano, in Israele, la guerra dalla finestra ricorda
come, a chi gli chiedeva cosa fosse venuto a fare in Israele,
citando Ben Gurion abbia risposto: "E' scritto: 'chi cerca la
saggezza andrà a sud' (...) E così sono venuto a vedere".

Il suo obbiettivo - si direbbe, leggendo questo
saggio contenuto quanto a spreco d'inchiostro ma denso, densissimo
di dati, fatti e opinioni competenti - è quello di restituire al
conflitto mediorientale tutta la complessità che lo connota come
uno dei garbugli meno facilmente districabili della storia
contemporanea (e dico contemporanea solo perché è ancora attuale,
ma le sue radici sono affondate in un passato molto remoto) e che
invece tanto spesso viene semplificato lungo coordinate primordiali:
i buoni di qui e i cattivi di là, gli ebrei contro i musulmani
(invece che, per dirne una, ebrei sefarditi contro ebrei askenaziti,
o israeliani - arabi ed ebrei - liberal contro conservatori, oppure
palestinesi in "patria" - qualche che essa sia - e fuori
dei "confini" - stabiliti da chi?).
La struttura del saggio è quella corale, come si conviene a una
tragedia messa in scena con repliche quotidiane: celebri scrittori -
Avraham Yehoshua, Amos Oz - insieme (o contro) leader politici,
commercianti e militari, madri, insegnanti, giornalisti, storici. E
poi statistiche, bilanci, proiezioni, sottratti alla freddezza dei
numeri ("le cifre sono aride", scrive Salerno,
"infastidiscono il lettore e anche il cronista-scrittore, ma
per capire Israele è necessario ricordarle") e resi
tridimensionali rapportatandoli a una realtà incandescente,
anch'essi resi voci del coro.
Tutti a raccontare, prima ancora che a esprimere giudizi, la
Situazione così come la vedono, perché, come ricorda Salerno,
"il conflitto, per quanto cerchi di evitarlo, accompagna sempre
il viaggiatore." Tutti a descrivere una situazione che sta
sfuggendo di mano: la "caccia allo spazio", "il gap
crescente tra ricchi e poveri", la disoccupazione, la nuova
criminalità - "riciclaggio di denaro sporco, traffico di
ecstasy, commercio di carne umana".
Lo scenario è quello variegato (anche qui, complesso e non
monocromatico come ce lo raccontano i telegiornali) dello stato di
Israele. Salerno ci regala ritratti ricchi e sorprendenti di città
che crediamo di conoscere, prima fra tutte Gerusalemme, e delle
quali invece non sappiamo abbastanza per capire come mai proprio lì
sia condensata tanta spiritualità e insieme tanta violenza. E
ricostruisce nel dettaglio una mappa geografica e sociale,
ricordando che "basta poco a ripiombare nella confusione (...)
infilandosi nuovamente nell'intreccio sconcertante di Israele
ebraica, Israele araba, territori occupati, coloni,
palestinesi".
Ci descrive una nazione giovane "che ha bisogno ancora di tempo
perché si possa parlare di maturità", che non ha ancora una
Costituzione, né una cultura che "celebri messaggi positivi
piuttosto che guerra e conflitti". "Una nazione di
immigrati che cerca una storia unificante", dove "miti e
realtà si confondono".
Salerno cerca di fare chiarezza senza rinunciare a evocare quei
miti, senza sforzarsi di rendere immediatamente comprensibile (e
stereotipabile) una realtà obbiettivamente
"aggrovigliata". E ci mostra come in Israele e in
Palestina (chiamiamola con il suo nome) non ci si limiti a
sopravvivere, ma si continui a vivere, anzi, ad asserire
quotidianamente l'irriducibilità della propria esistenza, come se
da questo dipendesse non solo la vita propria, ma quella della
propria nazione, e quella della propria etnia.
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